LA POESIA ALLEGORICA E ANTAGONISTA DI PAOLO VOLPONI
- Volponi poeta
La notorietà di Paolo Volponi (scomparso pochi anni fa, nell’estate del 1994) è legata soprattutto alla sua opera narrativa, che ha avuto larga diffusione e autorevoli riconoscimenti, svolgendosi per un buon tratto della storia letteraria italiana con titoli di rilievo quali Memoriale (1962), La macchina mondiale (1965), Corporale (1974), Il pianeta irritabile (1978), Le mosche del capitale (1989), identificata soprattutto per l’attenzione alla problematica dell’industria (tema non comunemente frequentato dai letterati italiani, da Volponi conosciuto direttamente grazie al suo impiego nell’Olivetti e nella Fiat), ma assai importante anche per il grado di difformità della scrittura, in almeno due casi (Corporale e Le mosche del capitale), vicina ai modi sperimentali dell’anti-romanzo, fino a toccare l’impossibilità del “racconto” nell’epoca della mercificazione universale.
Bisogna però ricordare che Volponi ha esordito in letteratura come poeta. Il suo primo libro, che venne pubblicato nella sua città natale, Urbino, nel 1948, ancora nel clima del dopoguerra, era un libro di poesie che s’intitolava Il ramarro, cui seguirono altre raccolte, e la collaborazione con testi poetici alle riviste-guida del dibattito letterario, come «Officina» e «Il menabò», prima che lo scrittore iniziasse — ma solo negli anni Sessanta — l’esperienza del romanzo. Anche in seguito, sia pure con meno costante applicazione, Volponi ha continuato a lavorare alla produzione poetica accanto a quella narrativa: l’uscita di Con testo a fronte, nel 1986, avrebbe mostrato quale conformazione e quale statura avesse raggiunto il Volponi poeta, al punto da farlo apparire davvero non secondario rispetto al romanziere.
Tra l’altro, la via presa dalla poesia volponiana nella sua seconda fase con il deciso distacco dalla tradizione lirica e l’abbandono delle consonanze iniziali con la posizione di Pasolini, fa di essa una ricerca controcorrente, isolata e tuttavia poderosa (paragonabile a quella di Edoardo Cacciatore, un altro grande sperimentatore solitario e colpevolmente ignorato, nel secondo Novecento italiano), svolta indipendentemente dalle avanguardie ufficiali ma dotata di una originalissima complessità, da cui è possibile derivare ancora oggi un considerevole stimolo all’“antagonismo letterario”.
Tanto più per coloro che (come chi scrive) sono interessati a riprendere e ridefinire oggi la nozione di avanguardia, diventa utile fare i conti con la poesia di Volponi, entrare nella sua logica e misurarne la forza d’urto, seguendone da vicino il processo di formazione e di caricamento.
2. Attraverso la tradizione lirica: la sorte del paesaggio
L’orizzonte in cui si muove l’avvio della poesia volponiana è quello della tradizione lirica che vede nel mondo naturale e nel paesaggio gli oggetti per eccellenza poetici, secondo un “senso comune” ereditato da Pascoli e filtrato attraverso l’ermetismo; e che sul piano della versificazione consente una certa libertà rispetto alle regole metriche (il giovane Volponi sembra aver assorbito, lo si vede dal verso breve, la lezione ungarettiana). La contemplazione del paesaggio non va però senza problemi e deroghe, né la comunione con la natura può esplicarsi in felice certezza o in mistica atmosfera evocatrice (come vorrebbe la linea del simbolismo). Quando leggiamo:
All’alba
è volato
l’ultimo tordo
Nulla s’è mosso alle mie grida
ai miei colpi sugli alberi.
Sono corso da te,
a questo vivo fuoco di ginepro.
Quanta carne
con queste fustagne,
calda
notiamo subito che il paesaggio non risponde all’“io”, ma si presenta invece completamente immobile e svuotato, impossibilitato a reagire ai gesti, per altro piuttosto aggressivi (sono «colpi sugli alberi»), del soggetto umano. Rifugio c’è, ma fuori del contatto idillico con la natura, nel rapporto con il “tu” della donna che rappresenta non un interlocutore spirituale o sentimentale, bensì un tramite di desublimazione e di materialità, fin da ora “corporale” (con tanto di «fustagne», panno pesante e popolaresco).
Già nel Ramarro, dunque, la natura perde la sua immediatezza sensibile per costituirsi in elemento figurale, potenziale allegoria. E in particolare in quei luoghi dove la visione delle cose è condotta al calor bianco di una insopportabile tensione:
Nelle vastissime notti
io sento
il rumore dell’ossatura delle cose,
gli alberi che battono sulle strade.
La terra tesa con spasimo
che potrebbe schiantarsi
come il ghiaccio di un lago.
Io debbo reagire
per non farmi sovrastare
dal rumore del mio corpo,
per non farmi tendere
come la pelle della terra.
Cerco di spezzare le corde
che stirano ogni cosa.
Molto — quasi tutto — dello sviluppo successivo di Volponi mi pare qui in nuce. Compare, nella visione notturna il tema dell’insonnia e dell’angoscia; compare la deformazione allucinata degli aspetti consueti della realtà e il loro agire in modi immotivati ed incongrui (gli alberi che «battono sulle strade», il corpo che manda uno strano e inquietante «rumore»); compare, anche se non ancora portata a piena coscienza, l’immagine di una totalità oppressiva. Con la personificazione del mondo (le cose hanno una «ossatura», la terra una «pelle») l’interiorità è trasposta all’esterno oggettivata. La sensibilità non si accontenta delle superfici e neppure si estenua in raffinatezze, ma è diretta dietro l’apparenza (quella «ossatura delle cose» equivale a una sorta di struttura interna di solito non visibile), per avvicinarsi al “punto di rottura” che, se per il momento non è messo in conto di alcuna conflittualità sociale, consiste già in uno stato di ben forte esasperazione. Come chiaro è il legame tra alienazione e opposizione (all’imprigionamento fa contrasto lo sforzo: «debbo reagire», «cerco di spezzare le corde»): l’opposizione non può nascere che dalla più acuta sofferenza dell’alienazione.
Nelle prove successive, consegnate alle raccolte L’antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960), Volponi si muove ancora nell’ambito di uno sperimentalismo moderato, non senza qualche concessione a soluzioni pacificanti e intenerimenti su oggetti positivi. In questa fase, l’inquietudine è controllata dal clima di consonanza e adesione al mondo naturale, con punte di immedesimazione («io tendo / come un seme a interrarmi, / a sdebitarmi intero»: c’è qualcosa di D’Annunzio riletto attraverso Pavese); e soprattutto dal rimando alla cultura tradizionale dell’ambiente locale, contadino. Il passato ritorna naturalmente, come la luna non per caso paragonata (con forte valorizzazione) a una «antica moneta» che riaffiora dalla terra. Quanto alla figura del “tu” femminile, viene ripresa in tono popolare-mitico, il che dà origine a una lirica d’amore, questa però assai anticonformista: «Caina nera, femmina di tre ladroni, / al tuo riso di cane / tinniscono sul collo / monete d’oro».
Il respiro poetico cresce e Volponi approda al poemetto (come in quel periodo facevano gli amici di «Officina», in primis Pasolini; e, tra i futuri Novissimi, Pagliarani). Specialmente ne Le porte dell’Appennino, l’andamento narrativo è funzionale al tentativo di guarigione, che si svolge, qui, lungo tre direzioni principali: il percorso “personale” nella storia familiare e nei ricordi d’infanzia; il percorso “spaziale” nel proprio territorio, con fiumi, colline, valli, paesi e al centro l’«aguzzo diamante / della città», Urbino (per Volponi luogo archetipo e utopico); il percorso “temporale” nel ciclo delle stagioni, dei mesi e dei lavori agricoli. Tutti e tre i percorsi cercano la mediazione e la conciliazione tra natura e storia e, se non possono mai conseguirla per intero — senza che, ad esempio, la «fuga» dell’emigrazione non minacci il susseguirsi stanziale delle generazioni («i campi, le strade, le famiglie») — né possono del tutto annullare la «paura» (e proprio La paura è il titolo del testo più significativo di questa fase, concluso su «la libertà della contraddizione / che porta al dolore le parole»), tuttavia conferiscono al testo un arco di svolgimento o una circolarità compiuta. Volponi concede qualcosa alla cadenza del metro egemone del Novecento italiano, l’endecasillabo, come possiamo vedere da uno stralcio de L’Appennino contadino, il punto in cui l’uso del soggetto collettivo è chiamato ad esprimere nella salda unione della lotta politica il superamento della semplice vita naturale; è anche uno dei punti di maggiore prossimità a Pasolini (che aveva già scritto L’Appennino) e alla sua epica della “umile Italia”:
Cantano uscendo dopo il ballo o l’osteria
la domenica pomeriggio tutt’insieme:
violentano il paesaggio d’allegria,
spezzano l’arco della collina,
le macchie, le guglie di terra, i sentieri,
ripetuti ed estesi sino alla marina.
L’isolamento che soltanto ieri
li fermava nei campi, tra le fibre devote
dell’universo, solo e muto ciascuno,
oggi s’è perso. La domenica rossa
disperde le sue schiere per le strade
d’acace e caprifoglio; una minuta
semenza d’affetti e di parole,
una violenza d’amore, di manate,
di tagli della barba, di perline,
di giacche troppo strette o larghe, di biciclette,
di piccoli motori o fazzoletti.
Ma la stessa vitalità e concordia della «domenica rossa», la sua invasione popolare dello spazio, è tuttavia solcata da sintomi preoccupanti: l’armonia del paesaggio ne viene rotta (è “violentato” e “spezzato”); gli uomini, una volta liberati da quelle «fibre» della natura che li tenevano avvinti, appaiono nondimeno ridotti in pezzi, in un pulviscolo di particolari, per quanto tenuti insieme, qui, dall’empito affettivo.
Ma negli anni Sessanta, di fronte a una straordinaria trasformazione dell’ambiente naturale e sociale, le vie di guarigione e le correnti unificanti entrano in crisi. Per di più, la scena letteraria assiste al passaggio delle nuove avanguardie e, sebbene Volponi non possa dirsi da esse direttamente influenzato, di certo quel clima lo induce a una maggiore libertà e audacia. La piccola raccolta Foglia mortale (testi dal 1962-66, uscita in numero limitato di copie nel 1974) è il testimone di questa crisi di passaggio. Il verso si allunga e si fa sempre più prosaico e aspro, e vi si accampa il ricorso ossessivo alla rima. Sempre più la frammentazione diventa incontenibile e le immagini vengono montate con processi di accumulo o unite con repentini sbalzi analogici. Sempre più crudele si fa la visione del paesaggio («entrare nel paesaggio come una tenaglia, / come una scure»). L’abrasione dell’«indulgenza», e quindi di qualsiasi soccorso e sollievo sentimentale, compresa la familiarità dei luoghi nativi, è il segno di una conflittualità che non lascia eden; lucidamente la Canzonetta con rime e rimorsi (aggiunta in seguito a Foglia mortale) scorge nella “globalizzazione” capitalistica un dato oggettivo a cui la poesia non può sottrarsi:
Nella divisione del lavoro internazionale
ha il suo tratto assegnato anche la tua pena:
(…).
Il paesaggio collinare di Urbino,
che innocente appare quercia per quercia
mentre colpevole muore zolla per zolla,
è politicamente uguale
al centro storico di Torino
che crolla palazzo per palazzo
o ai giardini della utopica Ivrea
ricca casa per casa;
tutti nella nebbia che sale
del mare aureo del capitale.
3. La svolta di Con testo a fronte e i suoi aspetti tecnico-linguistici
La nuova dimensione poetica annunciata da Foglia mortale si esplica, portata alle estreme conseguenze, in Con testo a fronte, raccolta pubblicata nel 1986 che copre un arco cronologico piuttosto ampio, dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli Ottanta. In quel periodo di sostanziale involuzione della poesia italiana, in cui avevano predominio le tendenze regressive dell’irrazionalismo mistico oppure del recupero dell’intimità privata, Volponi decide di navigare controcorrente e di non salvaguardare le funzioni sacrali della Poesia (non si sentirà mai “Poeta” più di quanto non si senta narratore o dirigente aziendale o politico comunista), intendendo piuttosto trascinare i modi e gli oggetti della poesia nel crogiolo di una scrittura segnata dalla contraddizione. Lo stesso titolo di Con testo a fronte, riprendendo la formula per solito usata nelle traduzioni, la sposta a indicare altro: certamente il fatto che nessun testo è isolato, che ha sempre di fronte un qualcosa che lo contrasta, un qualcosa che non può essere ignorato e taciuto, ma deve essere affrontato. Contraddizione, dunque: tra l’immaginazione soggettiva esasperata e il discorso che ragiona sulle questioni comuni; tra l’autoanalisi del privato attorno ai nodi dell’inconscio e la polemica che insorge e strappa i veli del potere; e, ancora, tra la misura breve dei componimenti più chiusi e risolti nel loro tema e la misura lunga di quello che ormai non è più un vero e proprio poemetto ma un testo infinibile, tormentato e continuamente riaperto.
Dell’antica visione del paesaggio restano cospicue tracce ed anche sono riconoscibili i luoghi biografici, sia del Nord Italia industriale sia dell’Appennino, lungo la “strada per Roma”, ma la loro funzione non è quella di rinviare ad “occasioni” vissute. La natura non accoglie “memorie” o “speranze”; è anch’essa malata delle stesse patologie umane (se troviamo una «fobica luna»), in uno spazio spigoloso, attraversato da tagli e da crepe:
Poco lontano una chiesa romanica
mette la sua veduta dritta nel verso
non di te, ma della tua caduta;
lo batte e schianta mentre scaglia marzo
un cielo turchino dentro il campanile,
ne gratta e spezza la muraglia
di tutta la cintura mezzadrile.
Asprezze sonore e immaginative (i verbi «schianta», «scaglia», «spezza») accompagnano lo sconfinare degli elementi dai contorni loro assegnati (il cielo «dentro il campanile») davvero di marca cubofuturista.
Anche il linguaggio sconfina, allargandosi a contributi plurilinguistici che, da un lato, portano ad inglobare settori delle lingue speciali non-letterarie, quelle legate al lavoro industriale (Volponi arriva fino al punto di inserire nei versi l’arido formulario delle statistiche, come ne La deviazione operaia: «d è deviazione, in corsivo; / K, correzione del tempo minimo / (…) / d è in rapporto al TM, / tempo effettivo di lavorazione, / (…) / N indica il numero dei pezzi prodotti / e T il tempo reale di produrli»); da un altro lato, consentono il recupero della lingua letteraria del passato e in taluni casi del dialetto, ma non per tentazione nostalgica di farlo rivivere o di trovarvi conforto, piuttosto come schegge impazzite e devianti («Hominum arbor arbore piantaccia»…; e si vedano anche i simulacri degli dei degradati in uffici moderni, come l’«Ercole bibax in prima classe»). La parola è anche moltiplicata per meglio sentirne la materia sonora; manipolata nella suffissazione è l’oggetto di una cantilena deformante.
E siamo al fenomeno di spicco nella scrittura di Con testo a fronte: l’uso della rima ripetuta, ribattuta e insistita, che si accentua fino a durate acrobatiche, al limite della resistenza. Di seguito o alternate, miste o no ad assonanze, con parole normali oppure richiedendo l’apporto di parole “strane” quando non di invenzioni neologistiche, le rime volponiane stanno sotto il segno della esagerazione smodata, come la caricatura stravolta di quello che era il procedimento principe della tradizione poetica. Comparsa precedentemente in sede narrativa, nelle poesie che Albino Saluggia compita mentalmente sul finire del suo Memoriale (cfr. Volponi 1962:258-267) a scopo distensivo e compensativo, la rima ha perduto adesso ogni risvolto calmante ed emolliente per assumere l’aspetto della coazione “obbligata” ed ossessiva; con essa la poesia viene ad assomigliare al prodotto, sia pure secondario e involontario, della costrizione lavorativa (accade all’operaio di essere «ridotto dalla ripetizione a pensare / con il solito incantamento sopra una rima»), sorta di equivalente del lavoro in catena di montaggio, dei gesti parcellizzati e continuamente rifatti per “automatismo”. Già intensificatasi in Foglia mortale, la rima esasperata di Con testo a fronte è insieme il marchio dell’oppressione dell’alienazione e l’indice del movimento inverso, cioè dell’istanza contestativa e della forza ribelle che mette a repentaglio la “forma buona” e l’equilibrato e armonico disegno della poesia. Mentre la rima istituzionale era una garanzia di ordine e di prevedibilità, quella di Volponi è uno strumento di insurrezione e di rottura, imprevedibile proprio perché non soggetta a una ricorrenza fissa, ma aperta ad una durata irregolare e a tutte le possibili variabili, contaminazioni e avventure. Cito l’inizio di Parallelo:
Il parallelo è una nomenclatura di ristagni
suoni richiami norme lagni
nella paura dei ricchi e dei micragni
giorni d’alunno, dei chiari e degli arcagni
tempi dell’esperienza: successi o rincagni
di lavoro e fortuna, palme o calcagni
di avvertimento, grati coppieri o cagni
mal visti e scacciati taccagni, scagni
tarlati e stretti, perfidi magagni
dell’autarchia e della prepotenza, sonagli
d’asini e carovane italiche, vecchi ragli
letterari e curiali, arrangiati conguagli
turisti e cinematografici, flash pendagli
artistici citazioni seminari bendagli
di massime e proverbi, compiti, piani, tagli.
Pur di replicarsi, l’omofonia è disposta a slittare in terminazioni simili, a patto di rimanere su suoni dalla pronuncia ostica; e costringendo la scelta lessicale a cadere su varianti non proprio consuete («micragni» per “micragnosi”, «arcagni» per “arcani”, «cagni» per “cani”, «scagni» per “scanni”) e su usi non proprio usuali («rincagni» nel senso di “arretramenti”, «magagni» usato al maschile invece del femminile “magagne”), in un complessivo tono di espressività caricata e deformazione sarcastica, cui contribuisce la tecnica di scorcio delle immagini, sia essa condotta con la metonimia (i «giorni d’alunno» sono i giorni della scuola; le «palme o calcagni» stanno per le mani e i piedi, e per i colpi che essi hanno inferto), sia con la metafora (i «ragli» asinini in rappresentanza del degrado culturale; i «bendagli» a sottolineare la cecità ideologica).
Questo passo consente anche di mettere in luce lo sviluppo per elencazione che dalla affermazione iniziale si svolge in una serie di aggiunte e giustapposizioni, in cui i nessi del ragionamento (in questo caso, la valutazione degli aspetti positivi e negativi dell’esperienza) si leggono nelle analogie e nei salti tra un elemento e l’altro e nello stesso ritmo di accumulo. Una sintassi per asindeto, fondata sulla virgola, anche se può benissimo farne a meno. Un verso come vibrante sommatoria di parole. Una disposizione che ha nell’enjambement (qui assolutamente maggioritario) la molla di un continuo rilancio, incremento e assillo del ritmo. Dunque la rima ripetuta non è un fatto a sé stante, ma va compresa nell’insieme di una dinamica dell’eccesso che deborda e trascina con sé, nei tasselli frastici e nominali, i residui di una esperienza “in pezzi” (proprio in questa frammentazione è la radice e la proprietà dell’allegoria volponiana). Un incessante furore, che è — insieme — di riempimento e di espulsione. Un altro testo che s’intitola al “parallelo”, la Vista sull’anno parallelo, ce ne offre un esempio ancor più estremizzato: cosa è il “parallelo”?
varco e carco di sé, spazio che aduna
tempo e tempo spazio nello stesso arco
istantaneo: lampo, volta, arluna
di sera o di mattina, pulsante, imbarco,
vello, argo, dardo, grembo di una
pelosissima nuda nel peplo allo stearco
lucore materno che traspare e sduna
ombra da ombra, velo, pelo, scarco
gomito o seno: gusto, colpa niuna
come in preghiera verità, ossa e il parco,
se disonesto, sangue, con età veruna,
occhio palato neri, lo scatarco
di muco che agglutina, il languido che zuna
e rizuonando stringe e con un marco
di fuoco fende fobica matruna (…).
Una tensione ai limiti della comprensibilità tormenta il linguaggio ed ottiene dalla rima (ancora con suoni “irsuti” come “-una” e “-arco”) di forzare il corpo delle parole («stearco» potrebbe stare per “stearico”, «scarco» per “scarico”, «scatarco» assai probabilmente per “scatarro”): analoga forzatura subiscono le immagini inzeppate, spesso ridotte a singoli vocaboli in cui le tematiche volponiane — come la “corporalità” o la visione pagana della donna — lampeggiano in una istantaneità condensata, sottratti i nessi logici dalla furibonda incontinenza della scrittura. Le poesie più lunghe di Con testo a fronte, come Indigetes et volumnus, pecunio, o Insonnia inverno 1971, o Petra pertusa e mista, oltre alle due già citate sul “parallelo”, sono poemetti senza più alcuna composizione “sinfoniale”, gettati nel disordine di un andamento torrentizio, virulento, disuguale; divisi in sezioni e strofe di lunghezza sempre diversa; segnati da improvvisi spostamenti tematici, che quasi fanno pensare alla giunzione a posteriori di testi a sé stanti (e del resto Volponi ha dichiarato di aver costruito il suo romanzo Le mosche del capitale unendo due distinti progetti).
Il carattere disorganico della poesia “matura” di Volponi deriva da una doppia contraddittorietà: perché, se la dinamica espressiva discende dall’impossibilità di conciliare l’interno della psiche e l’esterno della storia, su entrambi i piani risulta un contrasto: nell’interiorità si slarga la scissione tra il soggetto e la sua identità (resa in un teso dibattersi tra le figure dell’insonnia, in cui la quotidianità familiare si altera) così come nel mondo esterno non c’è composizione tra capitale e lavoro (il lavoro consuma il corpo, mentre la gestione padronale degenera in libidine di potere).
4. La poesia nella “globalizzazione” capitalistica
La svolta di Con testo a fronte coincide con il distacco di Volponi dall’industria e con la crisi della fiducia nella positività dello sviluppo e nella armonica congiunzione tra incremento produttivo e emancipazione sociale; crisi che sfocerà in un giudizio di condanna del capitalismo italiano — imprevidente, indebitato, compromesso col sottogoverno, poco incline alla ricerca, nonché sperperatore per motivi di corruzione, di prestigio gradasso o di tornaconto personale — e in una conseguente scelta di opposizione politica, che lo scrittore ha mantenuto fino agli ultimi anni.
Sarebbe fin troppo ovvio e semplicistico catalogare la poesia di Volponi (al pari della narrativa, normalmente legata alla casella della “letteratura industriale”) come “poesia del lavoro” e segnalare la presenza in essa di materiale prosaico, tratto da quella attività (davvero impoetica nella sua dipendente ripetizione) che è richiesta all’operaio — anche se sarebbe un côté assai interessante, in cui mettere anche il Sereni de Gli strumenti umani, il Pagliarani de La ragazza Carla e, come antenato, il Pavese di Lavorare stanca. Ma, nel notare la presenza del tema del lavoro, occorre evidenziare la compresenza del tema del corpo nel suo non-coincidere e resistere alla pratica obbligata dalla macchina, e lo vediamo proprio in un brano “descrittivo” che pare tolto a un dossier aziendale, dedicato al lavoro delle donne:
Il lavoro alle presse mansione del tutto femminile.
Mette alla prova la calma, la pazienza; esige
concentrazione e costanza per il ritmo che vige.
È possibile riuscire solo se si è in buona
salute e resistenza; sono impegnati e coordinati
occhi mani piedi: (…)
La statura idonea sta dentro certi limiti:
in specie le braccia devono essere lunghe.
Ci vuole buona vista. La mano leggera
(…)
Secondo le allenatrici le operaie che non riescono
pur impegnate e volenterose difettano
di robustezza e di sveltezza di mano.
È particolarmente significativo che la crisi personale di Volponi coincida, nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, con un cambiamento di vastissime proporzioni nell’assetto produttivo mondiale che ha portato agli attuali problemi della “globalizzazione”, della flessibilità industriale e della mobilità del lavoro, del predominio del capitale finanziario sulla produzione, dello sviluppo della comunicazione, della disoccupazione e quindi dell’aumento del numero degli esclusi e degli emarginati. Volponi legge nelle cose i segni di questo cambiamento di fase storica: parla infatti della «fabbrica nuova» e ne coglie gli aspetti di snellimento, di smaterializzazione, gli aspetti “mistici” del valore dell’immagine e dell’adesione incondizionata dei dipendenti («segni devozioni figure. / A cos’altro l’industria in Giappone / deve il suo grande sviluppo e sprone?»). In quanto l’industria è divenuta il luogo dell’espulsione, sia dell’operaio troppo negligente che del collaboratore troppo intelligente, e con essi la prospettiva della salute, della dignità e della coscienza, del “vivente” stesso, ciò determina il darsi insieme, da un unica radice dei temi dell’angoscia e del lavoro. Non per nulla, entrambe le scene prendono vigore dal rimando alle classiche icone della tradizione dell’arte figurativa: la deiezione dell’escluso viene rappresentata nei termini della crocefissione; altrettanto la gestione imprenditoriale trova un corrispettivo nella teofania delle pale d’altare, nell’«infante» circondato dallo sfondo d’oro e attorniato da pia adorazione: è il presidente come pargolo divino, «infante perenne», «sacro fasciato tiranno / attento pronto dentro l’aureo panno / della sua ammantata babilonaggine», come recita Un ordine industriale, facendo rimbalzare ovunque, nella reiterazione e nella deformazione del termine Babilonia («Babilon Babilon Babilonente / come sottrarti al Cesare presidente? / Babilon Babilon Babilanno / chi ti rivela il suo inganno?», ecc.), l’accusa all’incapacità dei vertici aziendali e dei “poteri forti” del capitalismo.
Petra pertusa e mista, uno dei componimenti nodali della raccolta, mette in atto senza risparmio la polemica anti-presidenzialista, che avrà spazio, nel romanzo Le mosche del capitale, attorno alle fattezze rabelaisiane di Nasàpeti (cfr. P. Volponi 1989): e via con le cariche corrosive del grottesco e della satira, per graffiare a fondo l’insipienza e la fatuità dei capitani d’industria, l’inconsistenza del loro preteso carisma, l’incultura coperta dai luoghi comuni dell’estetica, la boria che pretende culto semi-religioso («l’improvvisa artistica / apparizione del presidente»), il servilismo e la sudditanza dei sottoposti lanciati in una gara di «carrieristica devozione», ossia di identificazione e di adeguamento agli stereotipi culturali — si veda l’impietosa descrizione delle segretarie, aspiranti all’elevazione di status per via erotica («sequenza di conquista e di divistica / ascesa: copertina, jet set, mondanistica / supremazia») e addestrate a una brutale quantizzazione delle proprie risorse sessuali («Le segretarie sanno pelo per pelo, senza fatica / quanto valore ha nel capitale la loro fica») – che trova espressione “politica” nella manifestazione dei quadri intermedi in appoggio alla dirigenza Fiat. Per la marcia anti-sciopero dei «quarantamila padronali» (che segnò nel 1980 un fondamentale spartiacque mettendo a nudo la crisi delle strategie operaie) Volponi convoca sulla pagina tutte le risorse della tecnica dell’elenco e dell’estremizzazione grottesca, ricorrendo infine a una celeberrima citazione di Dante:
C’erano cuochi, barbieri, speziali,
padroni di casa, ladri, marchettari,
docenti, spie, ottici, medici, ufficiali,
estetisti, callisti, guardiani, clericali,
tutti con giacca, trench e stili cineasti
televisivi, pronti all’intervista dei telegiornali
come attori, e tutti professionisti
aspiranti, nuovi intellettuali
con veri ruoli, valori e cristi
tanto pratici quanto progettuali.
Ah dura terra, perché non t’apristi?
Ma nello stesso tempo è avvertita la portata strutturale del cambiamento (dovuto sia all’avvento dei robot nei processi produttivi che alla esportabilità del lavoro) che determina la marginalizzazione della classe operaia. Fare i conti con la ricomposizione del tessuto sociale significa allora constatare la fine del culto e delle parole d’ordine che mitizzavano la figura del lavotatore e consegnavano ad essa la speranza dell’umanità. Ora invece,
Ah poveri operai senza silenzio né ideali
nei cortei così frequenti, rotti e tristi!
(…)
non c’è più il possesso del lavoro.
Noi oramai cosa siamo operai?
Il sogno o il ricordo di una cosa?
il che non vuol dire, però, accodarsi alle sirene della resa all’esistente e della confusione generale. La stessa politica moderata e di compromesso dell’“unità nazionale” promossa dalla sinistra non fa che sancire uno stato di differenza sociale e vidimare un processo di esclusione nocivo alla vita democratica del paese; Volponi fa commentare agli operai:
L’unità di tutti i democratici.
Ma chi di loro e di noialtri
può stare sempre unito con gli altri?
Sono diverse le entrate, le uscite e i nastri
di registro, di paga, di cure termali,
di premi, compensi, indennizzi in caso di disastri.
Sono divisi i beni, le aliquote, i mali
perfino i giorni e il corso degli astri.
Non è vero che siamo tutti uguali,
noi siamo una serie di impiastri
stesi fra i civili e gli animali.
La versificazione volponiana, così “mostruosa”, eccessiva e incalzante, risulta essere una ottima sonda per entrare nelle pieghe del processo di incorporazione di ogni aspetto del vivere nel dominio delle merci. Il “parallelo” cui Volponi dedica due importanti testi (i già citati Parallelo e Vista sull’anno parallelo) è interpretabile appunto come raddoppiamento di piani dell’esistenza, “mondo parallelo”, illusorio e artificiale, prodotto dalla globalità capitalistica: non per niente ha il carattere dell’“erogazione” («L’anno parallelo non conduce e non seleziona, / eroga»), cioè cancella dal prodotto i rapporti sociali per fingerlo un bene somministrato dalla munificenza dell’essere. Senz’ombra di presunzione storicistica («Il nostro secolo ha un intricato recesso / di vie e di fabbriche; ma proprio adesso / torna ad essere volto e regresso / verso l’ordine fine a se stesso») Volponi affida al testo un compito di lotta all’incorporeità dell’apparenza nell’epoca del “basso capitalismo” (la cosiddetta postmodernità). Invertire il flusso delle cose in un contrapposto flusso di parole; smagare nella parodia il vuoto del potere delle immagini; rimettere in circolo, contro l’imperante dimissione delle facoltà intellettuali, le funzioni della critica e dell’autocritica.
5. Allegoria e antagonismo: gli esiti di Nel silenzio campale
In varie poesie di Con testo a fronte compaiono riferimenti alle arti figurative che attestano non solo la competenza dello scrittore in questo campo, ma anche la sua tendenza a lavorare con e dentro l’immagine. Questo fenomeno non può essere spiegato né con l’ambizione di dare uno spessore culturale alle proprie fantasie (riconducendole al patrimonio iconografico), né con il ri-uso morbido del passato di marca postmoderna; piuttosto, lo stare dentro il quadro (cioè dentro una cornice, un limite; in una situazione statica e all’interno di una finzione) ha a che fare con la “cattura” nel mondo dell’alienazione.
Così nel testo ispirato alla Melancholia di Dürer, i particolari dell’antica incisione – l’angelo meditabondo, il cane, la sfera, il quadrante, lo specchio d’acqua – vengono reinvestiti con i fantasmi dell’angoscia personale, moltiplicati (il cane diventa una pluralità di cani volanti), deformati e mossi da una fremente agitazione, tuttavia sempre compressa in insuperabili confini:
dentro un rotondo spazio
brulicante di vele, insazio,
di sponde e numeri e del soffitto
scala e trapezio,
ossesso minuto dritto
segno dell’aria dei corpi e della ratio
malversa, insonnia palla maditatio
algida esterrefatta crepitatio
di ali, (…)
Ancor più il legame tra la chiusura dello spazio artistico e la prigione esistenziale e sociale — ciò che dà all’allegoria un connotato politico — si fa evidente in un testo breve che tratta dell’antico aneddoto, narrato da Plinio nella Storia naturale, della gara di pittura in cui Zeusi dipinge un grappolo d’uva così realistico da ingannare gli uccelli, ma poi cade in un analogo abbaglio quando chiede di spostare la tenda dipinta dal suo rivale. Dunque,
Non allo stesso modo Zeusi
sortì dai fili intrecciati
della cortina dove delusi,
i sensi, e persi aveva lasciati,
stretti tra i nodi pitturati
dall’implacata mano di Porrasio.
L’uomo che fabbrica il falso
contro la falsità si danna ansioso
e dalla stessa interamente è valso.
L’avvertimento dei pericoli della “realtà virtuale” e della “società dello spettacolo”, nonché delle teorie postmoderniste della letteratura come mera finzione, risalta nel rovesciamento nel passivo dell’attribuzione di valore (quel finale “essere valso”) e soprattutto viene rappresentato (quando l’inganno dei sensi diventa un essere preso nei “fili” della finzione) nella lotta contro invisibili “nodi” – che ricorda molto quella contro le «corde / che stirano ogni cosa» del brano del Ramarro citato all’inizio.
Anche l’ultima raccolta poetica di Volponi, Nel silenzio campale (data alle stampe nel 1990), nei suoi diversi “tempi” (talora più riposato e meditativo, talatra più incalzante e rotto: ed è nel secondo caso che più intenso si fa il ricorso alla rima, fino al punto di ottenerla spezzando il corpo della parola), si pone sotto il segno di una agitazione compressa, di quella “inquietudine irrigidita” che Benjamin ha visto come propria dell’allegoria. Il titolo Nel silenzio campale (oltre a ritornare alla terminazione in “-ale”, cara al Volponi narratore) suggerisce l’immagine di una battaglia conclusa, e tuttavia carica quel “silenzio” (sottraendolo a tentazioni metafisiche o idilliche) di una conflittualità non esaurita e sempre in agguato (è infatti “campale” e non “campestre”). In questa ultima raccolta, Volponi procede al bilancio serrato di una sconfitta storica, epperò non si mostra affatto “pentito”, bensì nella vigile “attesa” di qualche nuova insorgenza. Ne La meccanica, il poeta registra innanzitutto una serie di blocchi e di chiusure che sembrano escludere a livello planetario qualsiasi chance del “principio speranza” (in sequenze tormentate: è proprio questo il caso in cui la rima risulta dalla rottura dell’unità verbale): «Non si possono più intra- / prendere viaggi, né sono pra- / ticabili percorsi di conoscenza; / non ci sono più luoghi di contra- / e di formazione (…)»; e poi: «muto il mondo tra- / nsita bruciando, (…)». C’è tuttavia un «eppure» che veicola l’istanza oppositiva, isolata e dissociata quanto di voglia, nondimeno indice di un residuo “corporale” non ancora eliminato che aspira alla consapevolezza collettiva:
eppure talvolta accade che tra
questi muti volti dell’obbedienza
capiti uno che insorga e stra-
volga ogni senso della sua stessa esistenza
e di quella generale, civile, che tra-
passa ogni singola coscienza.
Al di fuori di ogni certezza, la ragione critica di Volponi, quella stessa che ne ha sostanziato l’attività politica di parlamentare e ne ha informato gli interventi polemici per una società democratica e civile (e la sua idea di un comunismo per davvero radicalmente “rifondato”), si traduce in poesia non con un messaggio bell’e pronto, ma con il rifiuto di ogni assestato criterio e dosaggio stilistico, nella fuoriuscita da ogni tranquilla “dimora” (il testo intitolato appunto La dimora ha di mira un «mobile valore, mai raggiungibile») e quindi anche dalla rassicurante definizione heideggeriana — assai diffusa nei versanti neotradizionali della poesia italiana — della poesia come “casa dell’essere”. La tendenza volponiana resta “fuori dal coro”, al massimo accostabile, fatte salve le dovute differenze, alla “radicalità” poetica di Sanguineti o di Pagliarani.
Se l’angoscia e l’esasperazione producono figure, Volponi non si accontenta di raccogliere tali esiti della patologia del singolo, ma li pone costantemente a confronto e in conflitto con la loro “ragione collettiva”; sicché l’allegoria non va senza l’antagonismo, senza innescare con quello una inconciliata dialettica. Prendiamo, tra gli ultimi esiti, Tormenta; l’immagine di una tempesta scatenata nell’interiorità, a fronte dell’immobilità aggressiva del mondo esterno (qui la rima è sempre uguale e, per di più, coinvolge il titolo stesso):
La notte resta fissa, attenta
alle mie mosse; (…)
(…) intanto che scaraventa
tutto di sé, la stessa che lo spaventa
ultima e prima stretta, che non s’allenta
nemmeno scagliata via, (…)
con una verde pupilla che alimenta
un disco inafferrabile, diverso, una tormenta
aliena, di fera combustione anche se spenta.
Tenendo insieme allegoria e antagonismo, Volponi supera la sterile diatriba tra l’impegno di denuncia (proclive a scaricarsi nel vittimismo e negli effetti patetici) e il gioco formale (limitato dentro la “prigione del linguaggio”, con procedimenti neutrali); e avvia una nuova stagione, ancora tutta da costruire, per la scrittura alternativa.