LA DOPPIA UTOPIA DI CONTILIANO
Il Tempo spaginato di cui parla Nino Contiliano è adesso, è proprio il nostro tempo: frenetico, frastornate, caotico, confuso. È un tempo “spaginato”, come dire un fascicolo o brogliaccio che sia caduto per terra o sia stato sollevato dal vento, in cui i fogli si sono inesorabilmente mescolati, e sono finiti in gran disordine. A dire il vero, questo titolo potrebbe indicare anche soltanto una cosa semplicissima, una mera anticipazione su come è fatto il libro: Contiliano, precisamente, vi ha riunito testi di epoche diverse, unendo componimenti provenienti da altre raccolte con altri invece inediti. Quindi ha mischiato la cronologia e i contesti, ha preso pagine qua e là: insomma, ha “spaginato” i tempi. E tuttavia è subito chiaro che questo titolo ha una portata più ampia, che suggerisce un significato programmatico ed epocale. È certamente imparentato al “tempo fuori di sesto” di Amleto, ovvero, trasportato all’oggi, al nostro tempo di crisi e di incertezza di prospettive (tra “fine della storia” e impossibilità dell’utopia). È quel presunto eterno presente postmoderno in cui la profondità storica sembra ormai perdere spessore nell’appiattimento del mercato. È l’ideologia della confusione, che si sta avviando a diventare l’ideologia dominante, in cui si sostiene oggi tutto e domani il contrario di tutto, l’importante è strappare l’attenzione e stare alla ribalta nella politica-spettacolo. Il tempo è “spaginato”, non c’è rimedio né scampo: anzi, peggio, lo sforzo di districarsi alla ricerca di un senso o di una direzione viene tacciato di superato, di velleitario, addirittura di prevaricatorio, dai corifei del “debolismo” o del pragmatismo (campioni del mistico abbandono o depositari del tecnico “sapere come”) di volta in volta prevalenti.
Ora, all’indicazione del Tempo spaginato, Contiliano ha fatto seguire quella del Chi-asmo. Che è, secondo la vecchia retorica, la figura della “ics”, ovvero dell’inversione. In esso, per un verso, si ripropone di nuovo l’immagine della confusione: il bianco diventa nero e viceversa. Se, nella attuale “retorica del tempo” (ovvero nella considerazione della storia) non esiste più un prima e un dopo, non esistono quindi più punti-di-non-ritorno – e così il Novecento si arrotola su se stesso, come un nastro in riavvolgimento, e può aggallare qualsiasi cosa che credevamo definitivamente perenta –; dal canto suo il “chiasmo” diventa la figura spazializzata dei giochi di scambio, dei paradossi reali, in cui una cosa è il suo proprio negativo e tutto si può riscrivere, così come qualsiasi dato può subire qualunque strumentalizzazione. La “poetica del contrario” non è altro che la percezione, lucida e sofferta, della contraddizione capitalista. Come ha scritto Terry Eagleton, «ironia, inversione, chiasmo, contraddizione si trovano al centro della concezione marxiana della realtà. Intenta ad accumulare le più grandi ricchezze che la storia abbia mai conosciuto, la classe capitalista si è mossa all’interno di un tessuto di relazioni sociali che hanno reso affamati, straziati e oppressi molti dei suoi sottoposti». E avviene, nel trionfo della “globalizzazione”, quando le stesse identiche cose si consumano in qualunque angolo del mondo, che tuttavia impazzino – per retroazione – i più vari tipi di feroci “localismi”, nell’armarsi delle etnie e nei rigurgiti “feudali” veri o inventati che siano.
Ma il chiasmo assume anche un significato “positivo”: là dove le cose appaiono scambiate di posto, il compito della poesia è quello di invertirle a sua volta. Restituzione al mittente. Deformazione contro deformazione, rovesciamento per rovesciamento. L’azione chiastica della poesia ribalta allora, innanzitutto, l’ordine gerarchico della parola, che prevede la supremazia del significato (l’affermazione del Valore Simbolico); al contrario, viene fatto emergere il ruolo del significante. E tuttavia, proprio perché il chiasma abbia effetto, non può essere semplice (semplice inversione che non farebbe altro che confermare la norma, per quanto sottosopra); il chiasma ha da essere doppio e sovvertire, perciò, entrambi i domini, del significante e del significato. Come adesso, spiegherò, questo movimento perviene poi, a causa del doppio versante del significato stesso, persino a triplicarsi. Volendo uscire dal gioco di prestigio di tale moltiplicazione di piani, dirò, più semplicemente, che emergono nella poesia di Contiliano vari livelli di utopia, che è utile considerare separatamente, anche se – nel linguaggio poetico – essi operano congiuntamente e congiuntamente si ritrovano.
La prima utopia di Contiliano è quella che riguarda il corpo della parola: ogni parola deve essere reinventata. Non è che il poeta si crei una lingua del tutto nuova di zecca; la lingua è sempre quella comune eppure, nella poesia, non può che essere assunta attraverso un processo di alterazione. Tutte le parole sono come passate dentro una pronuncia che le “mastica” (le manipola e le manomette), innanzitutto per strapparle alla loro banalità convenzionale e alla patina del consumo, e inoltre per scavarle e analizzarle nelle loro ulteriori potenzialità. Che questo avvenga attraverso la spezzatura, con il trattino (che divide proprio il “Chi-asmo”, forse evocando nella prima metà una domanda identitaria e nella seconda un che di ansante) e con altri strumenti di interruzione, come le barre trasversali e le parentesi; oppure attraverso l’accostamento omofonico della paronomasia (si veda «classe e asse», «scene oscene», ecc., ecc.) fa poca differenza. L’importante è che le parole abbandonino la loro fissità e che, ritornando plastiche, si diano al gioco e all’infinita proliferazione. La prima utopia è quella dell’uso felice (ludico) della voce dell’infanzia, è quella dell’appropriazione (soggettivazione) della lingua. Non solo, ma anche quella della moltiplicazione verbale, plurilinguista e neologistica, come si vede dai numerosi apporti lessicali adattati qui dal linguaggio dell’informatica.
La seconda utopia, invece, riguarda la vita sociale, e corrisponde a un sogno collettivo. Ma il sogno collettivo deve passare attraverso un difficile filtro, una via strettissima, onde evitare per l’appunto le trappole della retorica moralistica e del significato-merce, precostituito e consumato in partenza. L’utopia del significato, allora, è portata a sdoppiarsi a sua volta in una pars destruens e una pars construens, un lato “negativo” e uno “positivo”. Il lato negativo è quello del conflitto e della polemica contro i poteri dominanti, ossia l’istanza della poesia civile e dell’impulso di libertà e di liberazione. Su questo lato, il testo di Contiliano contesta i protagonisti della politica mondiale e si fa podio di controversia per mettere sotto accusa i luoghi comuni dell’informazione truccata e degli slogan insensati della propaganda, in particolare della propaganda di guerra. Poesia di conflitto, dunque, ma proprio con l’intento di portare fino in fondo la «guerra alla guerra», e quindi di essere poesia pacifista: «sporche guerre e guerra sporca / intensa bassa guerra, infinita / unica, di russa russa e cattolico / reale virtuale mediale, terminetor / Guantanamo burotortura, di mano / colpo evangelico silenzio che a notte / strozza le gemme a vita del vento» (cito da Paradossi terminali). L’invettiva e il sarcasmo sono, da questo lato, le forme più adatte, che tendono alla deformazione come “sputo” verbale del nome riverito, siano pure gli idoli-feticci dell’impero mondiale.
Ma l’utopia del significato ha anche un versante “positivo”: certo, ancor più difficile da recuperare, questo. Si tratta di avvicinarsi, con la massima cautela, al livello umano imprescindibile, cioè al comune e all’elementare. Quello a cui si ha tutti diritto, in qualsiasi situazione o cultura. Ecco allora un’utopia dei sensi e del piacere, che possiamo ritrovare in passi che potrebbero sembrare magari elegiaci, se non fossero giocati da Contiliano precisamente sul piano del materialismo e del corporeo (dove «liberare» si intreccia con «libare»). Del resto, è vero che la polemica non avrebbe senso se non fosse fatta in nome di “qualcosa d’altro”: di una vita alternativa. Perciò a controcanto dell’ideologia della guerra, che sostiene pervicacemente che saremo sicuri solo quando gli “altri” saranno stati tutti eliminati, sta l’utopia della fratellanza, che ribatte la contro-argomentazione che non saremo mai salvi se non tutti insieme, accompagnata dall’utopia ecologica della pace con la natura. Questa utopia è connessa ad alcuni motivi ritornanti: sarà il motivo della «notte», o il motivo della «danza», o quello del «vento», del «cielo» e del «mare» (ad esempio, in L’eternità del congedo: «con i fiori della notte mio notturno di voli / concerto d’organi erranza sulla pelle di nuvola»); oppure le «vene d’acqua», le «fonti e ulivi» e il «pane e vino», elementi vitali da difendere in Dalla terra di Rita. Sono i minimi cenni sui cui può aggrapparsi oggi il “principio-speranza”.
Allora lo “spaginamento”, da allegoria della crisi e da denuncia della falsificazione (l’«odiens lapidario stupidario»), assume un risvolto, in un senso positivo, di caos attivo, vitale e liberante. È il disordine produttivo del significante, il lavoro che la scrittura di Contiliano compie non solo sul corpo delle singole parole, ma anche sull’impulso ritmico-metrico della poesia, dove (a differenze di certa sperimentazione recente sulle forme chiuse) viene privilegiata la forma senza misura del verso lungo come sismografo altalenante della forza della pulsione. Così come, materialisticamente, ciò che si cerca di salvare dall’invadenza del “sistema” è il contingente, l’istante felice (il «kairòs», termine caro a Contiliano), altrettanto il verso tende a farsi somma di frammenti, di «frattali» verbali, costellazione di parole dense di significato (come si può vedere dal rarefarsi dell’interpunzione). O, per meglio dire, la poesia diventa attraversamento del materiale linguistico. È poesia in “cammino”. Contiliano direbbe: “camino” (con una emme sola: un ispanismo che gli piace, in onore del “pueblo” in lotta contro le multinazionali): questa variante straniera e straniante, tra l’altro, gli è servita da titolo per l’opera collettiva (Compagni di strada, caminando) di cui è stato ideatore e concreto compositore. Ricordo questo testo perché in esso era evidenziato l’assunto che il percorso della poesia non può essere isolato; è e deve essere sempre fatto collettivo, in senso lato politico, anzi – siccome tanto spesso la politica di professione è bassa cucina – autenticamente politico (forse, ai nostri giorni, la politica autentica chiede “asilo politico” alla poesia: «poesia è di politica portale» dice Dove non arriva la poesia).
In questa epoca “spaginata”, in cui la poesia, fatta fuori dal mercato della comunicazione, tende perversamente a ri-sacralizzarsi e a presentarsi in lettere maiuscole, come esito imperscrutabile dell’interiorità di un individuo singolarmente superiore, a metà strada tra il “sacerdote laico” e lo strambo personaggio presentato nei talk-show, Contiliano lavora produttivamente in controtendenza: ci dimostra che l’operazione sul linguaggio (la tradizione delle avanguardie storiche e novissime) è tutt’altro che da buttare e anzi può benissimo venire rifondata e rimessa in uso come propellente di un discorso “civile”, di antagonismo e di contrasto al senso comune e alle idee supinamente accettate (magari abborracciate e abbracciate a meri “simboli” di forza – come nel caso delle stentoree legittimazioni di una guerra assurda). Senza perdere in niente di “creatività”, la lingua della poesia si “impegna” in una energica contestazione su più fronti (Contiliano è stato attivo, negli ultimi tempi, anche sul piano della critica e della teoria), alla ricerca di un contatto – problematico quanto si voglia, dato lo stato “stremato” della intelligenza del pubblico – nondimeno da tentare con tutti i canali possibili. Anche questa raccolta, Tempo spaginato, che offre uno spaccato del suo lavoro nella prospettiva dell’attualità, ci fa vedere come Contiliano configura nel suo verso i caratteri marcati di una “resistenza collettiva”.