MAURO PONZI

MALINCONIA DI SINISTRA

Attento e esperto lettore di Walter Benjamin (cui ha dedicato come saggista molti studi, tra i quali il recente volume Organizzare il pessimismo, edito da Lithos), Mauro Ponzi si è ispirato al grande teorico dell’Angelus Novus anche per il titolo della sua raccolta di poesie, Malinconia di sinistra. Andando così a toccare il nervo di una piccola questione esegetica benjaminiana: Benjamin, infatti, è un teorico della malinconia, la vede nel libro sul dramma barocco come una visione nera che abrade il senso delle cose rendendole disponibili al nuovo senso che assegna l’allegorista, quindi la vede positivamente come un’alleata dell’allegoria e ad essa consentanea; eppure, nell’articolo intitolato precisamente Malinconia di sinistra (che, come Mario Lunetta ricorda bene nell’introduzione, è un «duro e magistrale intervento del 1937», Linke Melancholie), nella fattispecie una stroncatura delle poesie di Erich Kästner, la malinconia viene appioppata all’autore come uno stigma negativo, un modo per evitare la politicizzazione dell’arte e anzi per convertire i «riflessi rivoluzionari» in «oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo». Insomma in patemi interiori e privati, alle somme deboli e inefficaci. La ripresa che oggi Ponzi fa di quella formula, oltre che accompagnata da un sovrappiù di ironia e di disincanto, è ovviamente consapevole della sua stessa ambiguità e della contraddizione che rappresenta nel discorso da cui è prelevata per opera della citazione (altro strumento affilato della chirurgia benjaminiana).
Certo, i tempi sono cambiati rispetto a quelli di Benjamin: nella nostra fase addirittura di scomparsa e di inabissamento della “sinistra”, l’occhio atono della malinconia appare d’obbligo per scrutare nelle rovine di una sconfitta epocale. Ma, ancora una volta, il fallimento, il negativo, il “non-essere” non devono essere rivolti alla contemplazione patetica di una amarezza individuale, ma possono e devono diventare le molle per la costruzione reattiva di un testo consapevolmente allegorico, poiché tra allegoria e crisi c’è sempre stato uno stretto legame (Benjamin lo insegna, a cominciare dal barocco, sorto nell’epoca delle guerre di religione che spaccano l’Europa). Perciò, con lo stesso sguardo che vede le macerie dell’utopia, l’infrangersi della speranza di un progresso inarrestabile contro gli scogli della realtà della regressione storica (l’autore proviene da una generazione sessantottina che, davvero, aveva preteso “troppo”!); con lo stesso sguardo – dicevo – privo di illusioni, il testo osserva dall’altro lato l’impraticabilità del riformarsi di un’aura simbolica e del ricostituirsi (come oggi invece avviene da più parti) del mito della poesia  come lingua sacrale dell’anima. Parodiando Goethe in Fiction und Wahrheit, Ponzi declina senza mezzi termini le proprie credenziali e il percorso della propria storia critico-intellettuale: «Scriviamo di avanguardia – la neo – / per contrapporla agli spiritualisti / che credono alla purezza originaria delle pulsioni».
Ma vediamola più da vicino, questa poesia: essa nasce spesso dall’occasione, si disegna dentro una geografia riconoscibile, tra Roma e Berlino, eppure l’“adesso” che essa coglie non si ammanta di rivelazioni sacrali, è un istante caduco ed effimero, un frammento di realtà assolutamente passeggero, «provvisorio / periferico / precario», paragonabile al fumo di un sigaro; l’io è “apologetico” e talora giganteggia, ma allo stesso tempo è corroso e minato dal tempo, nonché sbeffeggiato da limiti materiali («e vidi e dunque seppi / purtroppo incresciosamente: / il mondo non finirà con me / continuerà beato / e privo del superfluo», così recita il finale di Apocalypsis cum figuris), che sono anche limiti storici; la rappresentazione, quanto ad essa, è di natura dialettica, alternando l’antropomorfismo della persona in scena con la personificazione di esseri inanimati (il proprio del discorso allegorico), in un intreccio di segni riferiti agli esseri umani e alle cose.
Insomma, la sconfitta non equivale a una resa. La malinconia di sinistra è anche una “malinconia sinistra”, cioè inquietante, che non risparmia certamente la razza dei nuovi vincitori, il quadro oscuro e desolante di poteri improvvisati e di politiche confusive, di fantasmagorie massmediatiche prive di sostanza («questo elettrodomestico colorato / che entra nel cervello … ti entra nel cervello impedisce di pensare», dicono i versi di Sinfonia viennese). Poesia polemica, dunque, e però allo stesso tempo impietosa diagnosi della crisi, fino al drastico «non rimane più niente», la poesia di Mauro Ponzi, nata dall’occasione, parte molto spesso per la tangente dell’accumulo: per forza, lo svuotamento dell’“adesso” (si veda la sequenza dei «senza», sempre in Sinfonia viennese) e la sconsolata sensazione di navigare «tra i detriti», costringe il testo a farsi enumerazione, somma che non può mai pervenire al termine, anche perché la totalità sarà sempre difettiva e irraggiungibile; di qui la tecnica dell’elenco che contiene anche, nella sua ripetizione ritornellante, un quanto di incisiva ironia. L’accertamento del vuoto nel centro del senso avvia un movimento che, più che ad una riflessione, si apparenta al “rimuginare” proprio quell’atteggiamento di ri-presentazione senza fondo delle cose umane che Benjamin metteva in relazione con la malinconia dell’allegorista.
Se dovessi racchiudere la mia lettura in uno slogan, direi che qui si trova la politica sezionata dalla poesia sul tavolo anatomico della vita quotidiana. Ben intessuti di riferimenti culturali e letterari, come pure di dilatazioni plurilinguistiche, come nota l’introduzione di Mario Lunetta, i versi di Ponzi contengono anche interessanti movimenti ritmico-metrici; liberi quanto alla regola, sono tuttavia assai spesso portati a incanalarsi in un andamento di filastrocca (sulla base del settenario), sottolineatura musicale del gioco di massacro elencativo e di una sorta di danza folle sarcasticamente intonata attorno all’abisso di un «nulla dilazionato».

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: