MARIO QUATTRUCCI

LA MEMORIA MATERIALE

A rigore, il materialismo afferma che esiste solo il presente. E che il presente muta di continuo, nel divenire della trasformazione in cui fatalmente è inclusa anche la prospettiva della nostra personale estinzione. La memoria, dunque, oltre a un limite di capienza, ha il limite temporale dell’organismo provvisorio che noi siamo. La sopravvivenza che essa garantisce al passato è quindi quanto mai ipotetica. Un poco di più può supporre di durare se si incide non solo nei circuiti cerebrali, ma nelle cose, facendosi segno. La memoria diventa allora una traccia prodotta da un lavoro, che indica precisamente con la quantità dello sforzo applicato l’importanza e il valore del riferimento. Il materialismo è il primo a riconoscere questa incisione che solca il presente e vi rende vivo il passato, non perché ci sia nell’uomo qualcosa di immortale, bensì nel senso che il contemporaneo non è tutto nato oggi, contiene delle persistenze anche molto lunghe, addirittura ancestrali, e noi stessi siamo costituiti per stratificazioni di “io” provenienti dalle successive stagioni della vita. Anzi, il materialismo che si dice “storico” si fonda proprio su una visione assolutamente congiunturale, che non riconoscendo altro che il transeunte, ne considera tuttavia le diverse durate e le diverse funzioni. Una linea antitetica è quella che va da Nietzsche al postmodernismo che ha invalidato l’importanza della storia in una temporalità indistinta, annullando con ciò il vincolo etico. In tal modo, però, la traccia del passato che si impone in questa sorta di eterno presente, lo si voglia o no, è quella che di fatto valere la propria mera “volontà di potenza”, la pretesa validità di ciò che è sottinteso e scontato come se ci fosse da sempre (vedi i razzismi, le etnie inventate, ecc.). La memoria materialistica è invece quella lucidamente segnalata da Walter Benjamin: è il recupero del conflitto sotto l’apparente continuità dei vincitori, è il dischiudere nel linguaggio quelle istanze inadempiute che sono state ridotte al silenzio e parlano perciò dai muti segni delle rovine. Proprio all’inizio del suo saggio su Baudelaire, Benjamin discuteva con Bergson e Freud anche alla luce della “memoria involontaria” di Proust, mettendo in evidenza una funzione della memoria non come conservazione e neppure come smussamento della spigolosità dell’esperienza vissuta, ma come irruzione imprevista e restituzione degli choc.
In questa complessa tematica si aggira la poesia di Mario Quattrucci e ne affronta fin da subito la contraddittorietà. Il tempo distrugge tutto, però il tempo prolunga. Così leggiamo in un testo non a caso iniziale: «e tutto è: come non sia mai stato / e invece fu / e non è stato invano». In questo contraccolpo c’è per intero quanto verrà sviluppato nel corso della raccolta: il movimento del tempo comporta la perdita (e vedremo che la perdita verrà coniugata anche nell’aspetto storico-politico della sconfitta), ma la cancellazione viene negata per il fatto stesso di dirla: se infatti riconosciamo qualcosa come “trascorso”, in quello stesso istante lo indichiamo al presente, la sua mancanza ne sottolinea l’insistenza, «l’aspra contraddizione», e di qui l’ipotesi che la scintilla di energia in esso contenuta non sia ancora del tutto spenta.
La questione è indubbiamente personale: l’età avanzata e il bilancio della vita, da cui l’accumulo dei ricordi e la volontà di fissarli prima che scompaiano. Ma il ricordo non vale per la quantità: per paradosso, ricordare tutto sarebbe disastroso, chiedere al Baudelaire del quarto Spleen  oppure al Funes di Borges. Il ricordo è per forza di cose selettivo, e ancora di più quello che si affida alla scrittura deve essere un frammento significativo corrispondente a un punto nodale, gravido di esperienza. Per quanto la prima sezione della raccolta di Quattrucci s’intitoli “Ripostiglio privato”, di fatto i punti più importanti sono quelli vissuti collettivamente, gli incontri, le iniziative, le lotte, le date della politica. Di queste circostanze il libro si riempie e si nutre, non lasciando mai l’“io” da solo con il proprio sentimento, ma rivendicando, semmai, una interpretazione più ampia dello stesso termine “sentimento”. In tal modo, l’assillo della memoria si trasforma in una riproposizione polemica sia verso le confusioni revisionistiche destrorse, sia nei confronti della svendita frettolosa del patrimonio di una ampia stagione di speranze alternative.
La memoria, dunque, si mette sulle tracce del passato per ricollocarlo nel presente. Si tratta allora non di feticizzare la storia e neppure di ritualizzarla nelle consuete commemorazioni, ma di attualizzarla. Quello che è il peso del passato che ci condiziona non c’è bisogno di ricordarlo, è già qui da subito che ci grava con l’evidenza della sua egemonia: è invece quanto sembrerebbe scomparso a dover essere fatto riemergere. E non sarà quindi una storia trionfalistica, ma un percorso che torni a mostrare, dietro i paraventi rosei, la ferita, il trauma, il conflitto che ci hanno costituito. Una memoria in controtendenza, chiamata a sollevare il paravento ufficiale della obsolescenza e della indifferenza, dove si può rievocare da un giorno all’altro tutto e il contrario di tutto.
Una memoria insistente e ostinata: lo esprime chiaramente dal titolo Ogni giorno è quel giorno; un titolo che a prima vista nega il decorso storico (il tempo sembrerebbe bloccato in un super-eterno-ritorno), ma che invece – passando per la citazione di Sanguineti posta in esergo – rimanda a una vicenda che rischia di essere dimenticata e a un evento tutt’altro che euforico (la deportazione degli operai genovesi nel ’44). “Quel giorno” è il tempo della repressione, che chiede di essere vendicato, e rammentato proprio perché non abbia a ripetersi. Senza alcuna certezza teleologica, però. La storia – il materialista storico lo sa – è “senza soggetto né fini” (Quattrucci scrive, nel testo dedicato a Stefano Lanuzza, che «la storia è priva di risposta»), l’unico materialismo plausibile è quello “aleatorio” e della “contingenza”. Per questo risuona nei versi di Quattrucci la parola “niente” e il “niente di quel niente”. Mentre la politica non può fare promesse che con l’aggiunta di un “forse”. Ma proprio l’incertezza deve spingere a moltiplicare l’impegno a «porsi a quell’assiduo / ingaggio che con lunga lena / la società e l’esistente cambia alla radice».
Si tratta di poesia “civile”, indubbiamente. E altrettanto senza dubbio di una poesia non tripudiante, in cui la prospettiva politica deve non dico ammettere, ma semplicemente constatare il fallimento e la sconfitta degli ideali che hanno animato l’operare della sinistra. In questo, il bilancio di Quattrucci è forse fin troppo drastico nella diagnosi di una perdita totale («abbiamo perso tutto», è l’ultima frase del libro). È vero che per chi “voleva tutto” non ci sono vie di mezzo, ma la storia dovrebbe per l’appunto insegnare che non c’è mai esito definitivo. La considerazione catastrofistica comporta un correlato insidioso: se dichiariamo la totale negatività del presente, il passato può diventare un rifugio, un regressivo fantasma di felicità trascorsa in cui crogiolarsi. Quattrucci appare ben consapevole del rischio della nostalgia e del rammarico, ne discute apertamente e animatamente, rivendicando il fatto che il lavoro della memoria deve necessariamente contenere un risvolto doloroso («dolore non è colpa tanto meno del ritorno: e rimpianto non è fuga o rifugio dopo il crollo: sentimento non è sentimentale…»). Ma non sarà mai neppure un semplice “come eravamo” sui bei tempi della giovinezza.
È una strana epoca, questa, per gli anziani: sono accusati di avere le leve del potere sociale e economico e non volerle mollare, ma nello stesso tempo sono costretti ad atteggiamenti giovanilistici perché invecchiare è visto – nell’immaginario collettivo – quasi come una colpa morale… La temporalità immagazzinata occorrerebbe invece rilanciarla senz’altro come patrimonio produttivo. Nei versi di Quattrucci c’è, per altro, una spia stilistica interessante che ricorre in moltissimi componimenti. A guardar bene, i passaggi dell’amarezza recano accanto (in controcanto si potrebbe dire) l’avversativa. Quel testo iniziale già citato aveva un “invece”; altrove è un “ma”: «potresti anche tu fregartene in fine / e metterti infine alla fine a riposo… // ma no: tu persisti ed insisti»; oppure: «senza messianiche attese ancora speriamo. // ma la speranza è fare / è la critica radicale del reale». L’avversativa è quel margine dove si insinua una posizione non arresa, che appunto “persiste e insiste”. Basterebbe, in fondo, il solo fatto di continuare a scrivere in versi a costituire un segnale di resistenza e di smarcamento dai miti dell’attualità. L’avversativa è l’avviso che il compito di tenere alta la guardia della critica non è stato dismesso. Non c’è il rompete le righe e tanto meno il passaggio dall’altra parte. Non c’è tregua verso l’ideologia e la prassi dominanti: denunciato è il camuffamento dei dati e il travestimento en rose della realtà (e troviamo stigmatizzata perfino la “storia menzognera”); denunciate sono le trame dell’affarismo e della corruzione («vivi e beffardi i bugiardi coi loro / misfatti e segreti»); denunciato è il falso riformismo, che, con la scusa del rinnovamento, cancella quello che c’era di buono e conserva il cattivo. Nei versi di Quattrucci risaltano vividamente i mali del mondo presente: «neve nelle metropoli e totem di macuba, e fumo afgano sopra ai mattatoi / fra il Tigri e il Niger nei Metrò e nelle scuole (come a Beslan); / da Nairobi a Soweto tric-trac di  castagnette di malaria e acca-i-vu, / si bestemmia inshallah con scoppi di creature, / god bless and oil, e banche per le razze, e zattere di Medusa / per negri da Bengasi tra Girgenti e Malta, / e lo scialo e la fame, e i muri / di confine, e le guerre…». Per giunta ben aggiornati con le new entry del «boy scout plurineo» e della «angelica frau». Ad attestare questa resistenza c’è l’intera sezione degli Esercizi gramsciani, dove si ridiscutono e si verificano i capisaldi del materialismo marxista, che ancora si dimostrano capaci di mordere i gangli del capitalismo “globale”. Gramsci non solo vittima del potere violento, ma acuto teorico della lotta culturale; a lui Quattrucci dedica giustamente molto spazio e si concede anche una corretta correzione di Pasolini: là dove Pasolini si divideva rivolto a Gramsci «con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere», invece Quattrucci ribatte coerentemente: «ora / so la frattura e sebbene con lui con lui nel cuore / in luce ed anche (come fu) con lui nelle buie viscere / so». Potremmo dire, alle somme, che qui la contraddizione temporale viene esplorata in lungo e in largo e, se si soffre il lato distruttivo, non espunto però è il lato proiettivo, in una dialettica di realismo e speranza, affidata ai movimenti del “sebbene” e del “forse” («E questo è tutto, /  mio carissimo amico: questo, sebbene vinti, / è il nostro retaggio. / E forse vivrà»).
Certo, la virulenza del tempo distruttore può riportare a galla – come in una riflessione sull’estrema soglia – la questione religiosa. Sarebbe questa una poesia dei defunti? sua una pietas per gli scomparsi? Quattrucci, a un certo punto, parla di “elaborazione del lutto”, ma l’aspetto del compianto è evitato dall’ottica materialistica: le lapidi stesse sono oggetti memoriali prodotti dall’incisione. La memoria materiale è precisamente la traccia rimasta nelle cose; e non per nulla l’immagine che incontriamo fin dall’inizio del gesto di rammemorazione è quella del “graffio sul muro”.
A questo proposito, c’è un elemento che salterà agli occhi del lettore, da qualunque parte cominci: la topografia romana della poesia di Quattrucci. La memoria si configura come un percorso, un cammino attraverso la città, punteggiato dalle “civili memorie” dell’intelligenza e dell’arte, attraverso tutta la stratificazione storica che fa di Roma un luogo unico al mondo. Un percorso che può diventare faticoso e “lunghissimo”, ma che contiene sempre (pietrificato nel ricordo) qualche frammento vitale e lampo stimolatore. Questa incisione della materia è anche quella che si riscontra nel passaggio dal ricordo al verso: «solo ricordi / mi diventano righe e vanno a capo»; la mera traccia mnemonica è chiamata a inscriversi in quella materia collettiva che sono le parole nonché nella tradizione del linguaggio poetico; con ciò, da personale si trasforma in progetto costruttivo, si allarga alla riflessione, affronta problemi di valenza semiotica e comunicativa. Nel testo di Quattrucci, non per caso, anche nel linguaggio c’è qualcosa di “ricordato”, è lo spazio che prende la citazione del già scritto, come omaggio e riferimento agli autori prediletti (la linea ispiratrice dei poeti di sinistra, Brecht-Sanguineti-Pagliarani, ma anche Leopardi e il Montale, soprattutto, degli Ossi; e la sezione intitolata Satirette richiama – con l’understatement del diminutivo – la montaliana Satura); ma non son solo riprese positive, come abbiamo visto nella larvata polemica con Pasolini. La presenza importante dell’endecasillabo è un altro indice evidente della memoria della tradizione. Che poi il contenuto della crisi debordi dai limiti di quella “buona forma” è inevitabile: e infatti troviamo la “forma di rosa”, il verso centrato (ripreso da Pasolini, in questo caso senza intento parodico), posto vicino in ironica paronomasia alla “forma di prosa”, ritmata e ricca di ripetizioni, per arrivare nella sezione dei Salmi (ancora un elemento religioso laicamente rivisitato) a una sorta di “versetto” whitmaniano. Insomma una versificazione che di volta in volta dispone e cambia le proprie soluzioni, un verso instabile (“balengo” lo definisce a un certo punto l’autore stesso), che dimostra nel suo pluralismo formale una assidua propensione alla ricerca.
Di questa ricerca fa parte l’allegorismo: per quanto la memoria si eserciti, come è ovvio, su nomi date e luoghi reali, tuttavia il senso non è limitato agli “enti”, ed è proprio l’autore a rivendicare esplicitamente un «intento allegorico e straniante». Si prenda, ad esempio, il componimento senza titolo che inizia «Da lontano in mezzo agli olivi»: qui si parte dalla percezione (che l’autore configura al modo dell’aneddoto) di una “forma scura” in mezzo al prato; la distanza non lascia vedere bene e il soggetto può fare delle ipotesi, l’immaginazione propende per «un mirifico strano animale», mentre il realismo vola basso, sarà «soltanto un gatto». La prova ravvicinata nega entrambe le ipotesi: è il «ramo caduto» di un albero ormai secco: di qui l’inserimento del tempo distruttivo e il ricordo che recupera i vecchi fasti del melo. Ma non finisce così: l’indietro del rimpianto si rovescia in ipotetica proiezione futura: «a piantarne adesso chissà / se ne verrebbero ancora. // Se ne verrebbero rosse»; con quel colore squillante e politicamente impegnativo che allarga la scena ben al di là dell’ambito agricolo-mangereccio.
“Proviamo ancora col rosso”, diceva Pagliarani. Sul valore simbolico dei colori anche Quattrucci insiste, soprattutto nella sezione dedicata ai pittori, e in particolare nel poemetto Colori di Roma, dove di nuovo campisce quella tinta “di sinistra”: «Roma è il rosso», si legge (è vero che, in altra parte del libro, la si ritrova «senza nemmeno / una bava di rosso», ma quella è la Roma del degrado e delle «settemonnezze»). Accanto ad allegoria e straniamento (che richiamano i relativi teorici: Benjamin e Brecht) non può mancare l’ironia. Così un problema agli occhi che costa una lunga convalescenza fa dire a Quattrucci: «a sinistra non vedo ancora niente», il cui doppio senso è fin troppo tristemente chiaro. Certo, la “vecchia talpa” è in ritardo, si è persa nelle sue gallerie, chissà in quale direzione sta scavando… Però, caro Mario, non è la prima volta: pensa proprio a Gramsci e a Benjamin che sono morti senza aver visto la fine del fascismo e del nazismo. Però il fascismo e il nazismo sono finiti, il tempo ha sistemato anche loro. Perciò, senza nessuna illusione e garanzia però in questo senso ripetiamo (con gli esercizi gramsciani) che a noi “la storia piace”. E continuiamo a contorcere il linguaggio come se fosse la bici di quel “vecchio sgraziato scalatore”. Sì, la poesia ispirata al Tour de France del 2012, al duello tra Wiggins e Evans, che sembrerebbe un “cameo” piuttosto poco omogeneo rispetto alle preponderanti ricordanze politiche, è invece allegoricamente centrale, oggi che tutto sembra ridursi a una logica meccanica e perversa di vincitori e perdenti; perché dimostra, e proprio utilizzando la tematica sportivo-agonistica dominante, che è lo sconfitto alla fine quello che prevale, quello che resta esemplare nella memoria.

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