Poligrafo poliedrico, Mario Lunetta avrebbe potuto a buon diritto parafrasare il motto di Terenzio e dire: sono scrittore e non ritengo a me alieno alcun genere di scrittura. Difatti, partito dalla poesia, ha praticato la narrativa lunga e breve (romanzo e racconto), ha scritto dialoghi e testi per il teatro, recensioni, saggi, critica (anche critica d’arte), libri di aforismi, antologie, prefazioni, presentazioni… nell’elenco delle sue attività si ha sempre l’impressione di dimenticare qualcosa e non siamo ancora riusciti a computare con esattezza il numero delle sue pubblicazioni (un centinaio?). Senza contare l’attività di organizzazione di eventi e di cicli di letture e la partecipazione ai principali momenti di espressione e di dibattito delle tendenze letterarie.
Ma tutta questa espansione, questo sventagliamento, questo incredibilmente generoso dispendio di energie, bisogna ricordarlo, aveva una spinta centrale essenzialmente di tipo politico. Fin dall’inizio. Negli anni di esordio, uno dei primi scritti teorici lunettiani è la lettera alla redazione di “Tam Tam”, la rivista di Adriano Spatola, 1972, dove si legge a chiare note: «la conclusione è che non è più questione di “poetiche”, ma di “politiche”». Dopodiché questa perentoria affermazione – che marcava, per altro le distanze da un certo sperimentalismo tecnicista presente nell’area del Gruppo 63 – non si coniugava, come si potrebbe supporre, ad una ricerca soltanto di contenuti, sebbene Lunetta abbia fatto la sua parte quanto a “poesia civile”, ma si realizzava in una apertura di tutti i possibili fronti di lotta – ed era il motivo di quelle inesauribili invasioni di campi (per usare al plurale il titolo di un suo volume di saggi). Con alcune ulteriori conseguenze:
1) non solo Lunetta non si chiude in un genere e quindi è secondo le occasioni poeta, narratore, critico, ecc.; ma nemmeno in uno stile: il ventaglio dei procedimenti utilizzati in poesia risulta infatti estremamente ampio, va dagli interventi “dinamici” sul significante (barre divisorie, punteggiatura sfalsata, interruzioni, spaziature) all’andamento discorsivo-prosaico. Così come, nell’esercizio metrico, sebbene forse prevalga quantitativamente il verso lungo e lunghissimo più o meno ritmato, non mancano tuttavia le riprese della metrica chiusa, sonetti o strofette in rima (queste ultime soprattutto in funzione derisoria). Come ogni genere, così ogni stile può essere buono secondo necessità;
2) a differenza della “riduzione dell’io” proposta dai Novissimi, Lunetta riparte dall’io, ma non gli concede sovranità, semmai lo affronta precisamente come un nodo politico ineludibile, mettendolo in bilico in una dialettica di apoteosi e rovina. Come si vede nell’ultimo periodo oscillando tra l’“immortale sottoscritto” e un soggetto in stato di sperdimento (riscontrabile anche nei romanzi);
3) l’istanza politica fa sì che le coordinate della poesia risultino rovesciate rispetto al senso comune: al posto dell’armonia c’è la dissonanza, al posto della pace il conflitto, al posto dell’empatia la ferocia del sarcasmo e la “crudeltà” artaudiana”.
Analogamente, per quanto riguarda la prosa, troviamo una narrativa a tinte forti, ora drammatiche ora grottesche, che non ricorre a facili effetti di trama, quanto piuttosto si addentra nei labirinti di complotti, inganni, raddoppi, ovvero grovigli del male sociale, usando il punto di vista di un personaggio in crisi, mai eroico superuomo, coinvolto nelle situazioni e spesso impotente fino alla sconfitta e al delirio. In un caso, Guerriero cheyenne, c’è il ricorso originalissimo a un narratore balbuziente, dunque ad una parola che arriva sulla carta a fatica e con sforzo, a significare tutta la problematicità moderna dell’azione stessa del narrare.
Tutto l’itinerario dell’autore è attraversato da una costante vis polemica che per un verso si esercita nei confronti della deriva sociale, sempre più prepotente man mano che declina nell’affarismo, nell’incultura, nella protervia del potere; per un altro verso, la polemica è rivolta alla deriva poetica e letteraria, scartando del pari sia il riflusso di concezioni ingenue e edulcoranti sia le blande ironie delle riscritture indifferenziate di marca postmoderna. Proprio nei confronti del postmoderno, per tutto il periodo in cui la formula è stata alla moda e dilagante, Lunetta ha opposto una decisa resistenza rivendicando sempre la responsabilità sociale della scrittura e dello scrittore.
Ciò ha significato cercare di rispondere ogni volta a uno stato di emergenza generale («i poeti devono tornare a parlare generale», ha scritto il nostro). Ma indubbiamente le condizioni stesse di esistenza di un discorso di opposizione e di rifiuto – che Lunetta ha costantemente collegato all’indicazione del comunismo – sono andate gradatamente peggiorando (chiusura di spazi, disinteresse della stampa, scomparsa di compagni di strada) e la lunettiana “scrittura dell’orrore” ha assunto toni cupi e ha trovato minori spunti nei piaceri materiali e materialistici; tuttavia, sostenuto dal motto di Caravaggio “Nessuna speranza, nessuna paura”, ha trovato le sue risorse nel riso sarcastico: quanto più è asserragliato nel proprio corpo individuale e tanto più il soggetto che non ha più niente da perdere può giocare la sua partita con assoluta libertà.
L’aspetto forse più straordinario dell’opera di Lunetta in tutte le sue sfaccettature sta nell’esercizio eroico di una ragione negativa (fino al massimo di visione al nero) che coincide però con l’esplosione della massima creatività, secondo quella pluralità di investimenti formali da cui siamo partiti. È proprio questa carica eticamente disforica e nello stesso tempo esteticamente euforica che siamo chiamati a raccogliere, facendo parlare di nuovo i testi di Mario Lunetta. Egli stesso del resto pensava in proiezione futura quando sottotitolava uno dei suoi testi principali, La forma dell’Italia, come “poema da compiere”.