IL SONETTO COME “PROVA DI SOPRAVVIVENZA”
Dopo essere stato uno dei principali rappresentanti del movimento della poesia attorno agli anni Ottanta-Novanta, tra Gruppo Baldus, Gruppo 93 e Terza Ondata, negli ultimi tempi Mariano Bàino aveva mostrato la propensione di dedicarsi alla prosa, a modo suo, anzi da par suo, cioè in maniera inedita, eccentrica ed estrosa: gli aforismi da humour noir de Le anatre di ghiaccio (2004); il frammentario neo-Robinson de L’uomo avanzato (2008); il giallo d’autore di Dal rumore bianco (2012); l’odeporica digressiva di In (nessuna) Patagonia (2014). Con Prova d’inchiostro e altri sonetti (Nino Aragno, 2017) Bàino torna alla poesia, che per altro non aveva mai abbandonato, dato che il libro risulta composto in un ampio arco di tempo.
Ma la cosa interessante è che ritorna proprio alla “forma chiusa” e non soltanto per la sazietà di un verso libero ormai ridotto a portata di blog e stremato da un uso comune della lirica come “diario in versi”, ma anche con la convinzione di voler saggiare la resistenza di modi fin troppo costituiti. Per altro questo esperimento è stato preceduto da una analoga messa alla prova con il libro dedicato ai limerick (Amarellimerick, 2003): solo che, mentre in quel caso Bàino operava una sorta di “mossa del cavallo”, appoggiandosi su un genere proveniente da una tradizione esterna e marginale, questa volta è andato a fare i conti con il genere assolutamente centrale nella tradizione indigena, consacrato con gran squilli e patenti ufficiali – basti pensare a Carducci («Dante il mover gli diè del cherubino»… e compagnia cantante) oppure a d’Annunzio («Otto e sei verghe d’oro, o Musa, io batto»…, alla faccia della modestia). Con la differenza, rispetto al limerick, che lì aveva già l’ironia prevista dal copione, mentre adesso, con il sonetto, era al contrario tutta da inventare. Arrivando talmente “postremo” – ormai molto più di Carducci che già si sentiva tale – Bàino non può che operare nel senso dell’abbassamento, anche se il genere breve lo costringe a mettere in campo una capacità tecnica non minore rispetto a quella della tradizione, sicché la sua prova assume i caratteri di un elaboratissimo tour de force.
Lo spazio limitato dei 14 versi obbliga alla sintesi e anche alla compressione, al taglio della frase attraverso enjambements e rejets drastici, cui Bàino aggiunge, tanto per complicarsi un altro po’ la vita, un uso curioso della punteggiatura: infatti, l’eliminazione della maiuscola fa funzionare il punto fermo piuttosto come indicazione di pausa, con un effetto di frammentazione e di disgiunzione della parola dalla frase. Ciò accentua l’impressione del montaggio, della composizione di un puzzle. Nella gabbia del sonetto – ma Bàino preferisce il paragone con la “tensostruttura” (vedi «Nella tensostruttura di un sonetto»…) – il linguaggio preme, si agita, sprizza scorci repentini. E non manca neppure di costringere la vecchia forma ad adattarsi alla bisogna con deroghe e reinvenzioni: sono tali il sonetto rovesciato, che anticipa le due terzine (schema: 3-3-4-4), il sonetto incrociato (4-3-3-4) e un caso particolare di sonetto che chiamerei replicato o speculare (3-3-4-4-3-3). Altre deroghe riguardano le rime, talvolta imperfette, talaltra spostate dalla collocazione comunemente assegnata loro. Ma se il libro di Bàino è in generale consigliabile per lo studio dei metricisti, lo è specialmente per riguardo alle rime: perché il nostro sonettista le prova tutte, esaurendo quasi le risorse del manuale: c’è perfino al rima per l’occhio (mercé/querce), c’è la rima in tmesi («giu-sto» che fa rima con «blu»), ed è adottata in gran copia la rima ipermetra (già di Pascoli, Montale, Pasolini, ecc.) quella che fa rimare una parola piana con una sdrucciola non considerando l’ultima sillaba della sdrucciola (la prima che si incontra nel libro è raggi/sbadataggine; poi ne seguono tante altre, rompendo gli argini soprattutto nell’ultima sezione che ne abbonda particolarmente). Ci sono rime tradizionali (come oro/alloro) ed altre talmente originali da poter scommettere che compaiano in poesia per la prima volta qui, ad esempio dna/oggettività, ufo/gufo, libera/ribes. Una particolare ricerca è quella delle rime interlinguistiche, come serve/verve, sei/holiday, addirittura papa/napalm e beethoven/eindhoven (che alla differente nazionalità aggiunge il décalage di accostare uno dei maestri della musica a una squadra di calcio). Né poteva mancare il rimando alla madre di tutte le rime interlinguistiche, quella gozzaniana di Nietzsche/camicie, per altro rovesciata di senso perché l’odierna Felicita bainiana, al contrario di quella originaria, tiene il libro del filosofo tedesco proprio sul comodino.
Una rima che è chiaramente una citazione. Ecco, da bravo “poeta della tardività” – come egli stesso si definisce – Bàino passa attraverso le reminiscenze letterarie con una modalità parodica che non è né della vecchia parodia che derideva l’autore precedente, né di quella postmoderna, neutra o di omaggio. Vediamo, infatti, come procede l’abbassamento in due casi emblematici: nel caso di Michelangelo, la ripresa della voce “petrosa” attribuita alla Notte («caro mi è il sonno e più l’essere un sasso») ne conserva l’indirizzo polemico, ma adattato a un obiettivo ancora più desolante, l’elezione di un impresentabile presidente americano. Ancora, nella citazione di Leopardi, la ginestra sembra avere perso, o stare perdendo, anche le sue residue capacità di stoica resistenza: «– c’è una ginestra, ma non sembra molto // lenta, odorata – no, nella sterpazza, / scontenta dei deserti ha in filigrana / i segni della sete. e la nerezza.» Insomma, la parodia non colpisce l’ipotesto, bensì il contesto attuale che implica un passo in più nel degrado.
Abbassamento dunque e non solo nel tono («e tu non mi destare, parla basso», ancora ricordando Michelangelo) davvero poco trionfalistico, ma più in generale nel rifiuto di qualsiasi superiorità sacrale della poesia. Remando controcorrente rispetto all’andazzo attuale, Bàino ironizza in particolare sul sentimentalismo e ne sottolinea la banalità e falsità con una magistrale scomposizione («senti? mento!»); piuttosto il suo tema è quello materialistico del corpo e dell’eros e insieme la questione sociale, l’indifferenza per le vittime del sistema economico, per la distruzione dell’ambiente, quindi da un lato la caducità e la precarietà della vita e però dall’altro l’indignazione che vorrebbe rendere la poesia un «osso in gola» al capitalismo imperante (aggiungendo in una ironica parentesi: «avesse l’osso forma di pistola…»).
In questo quadro, che senso assume la scelta della forma chiusa? È una dimissione, un ritiro come su un’isola deserta dell’intellettuale circondato dai nuovi barbari? Sarebbe di nuovo il residuale «uomo avanzato», oppure, qui, la figura del «naufrago volontario», il dottor Bombard. Ma proprio l’elogio di questo curioso personaggio impegnato in una estrema prova di sopravvivenza si conclude con una sorta di assurda speranza, che sembra sorgere da una estrema insorgenza corporea («se gli /resta saldo l’intendere, se nuova / forza sa darsi a sperare una riva»).
L’uso del sonetto, in fondo, fa parte proprio di una “prova di sopravvivenza”: serve per tenersi in esercizio, un po’ come la ginnastica dei carcerati, e vedere quali strade si possano aprire (e come abbiamo visto il risultato tecnico è particolarmente vistoso e direi fortemente vitale). Altra figura indicativa è quella del Mattopardo, che con la sua comicità sghemba inserisce comunque un clinamen, un minimo spiazzamento nella piattezza dell’omologazione. Prendiamolo come campione:
tranquillo te ne stai come un pupazzo
di segatura che scuote la testa
ogni tanto, quel tanto che rispazzoli
i sonagli che in cima fanno cresta.
quel berrettino a punta ha un suono pazzo
– se il suono senti bene è un po’ una festa
del morto o vita che tintinna a cazzica
– ti dice di un destino cartapesta,
che incarni una finzione di te stesso,
un sogno d’altri ch’è un quadro sconnesso
di fiori, tutti finti, che strapazzi
solo per imitare una protesta
sensifera, di linfe, un breve sprazzo
nulleo nel nulla della luce pesta.
Si notano nel libro diverse poesie dedicate agli artisti, segno che l’autore considera il linguaggio poetico come l’equivalente di una figurazione. Già dal titolo, la “prova” è riferita all’inchiostrazione che riguarda la stampa, sia del testo che dell’incisione o, oggi, del fumetto. È forse questa connessione con le arti e con la loro tecnica materiale lo sperimentalismo praticabile oggi?
Mi piace sottolineare soprattutto l’ultima sezione, quella più difficile, perché lì Bàino si propone una misura ancora più costipata, scrivendo sonetti in settenari. È la parte dedicata al carnevale veneziano e vi emerge il tema della maschera: «ti nascondi e si vede, / sei uno che non c’è». Ecco emergere tutto il paradosso dell’autore sperimentale che non dice nulla del suo intimo, non si confida alla scrittura, eppure c’è nel suo non esserci (Carmelo Bene diceva: “Non esisto, dunque sono”), ossia si trova precisamente nella piegatura data al linguaggio. Davvero molto questo mascheramento dichiarato stride nel panorama odierno della poesia da esibizionismo di senso comune, quella sì mascherata, ma inconsapevole di esserlo.