LE IPERFETAZIONI DI UN MATERIALISTA STOICO
Diciamolo subito: la scrittura poetica di Marco Palladini è di taglio fortemente polemico. Non ha paura di esercitare il verso come colpo sferzante, come affondo pieno di sarcasmo e di disprezzo, di sound and fury. Qui ci troviamo di fronte ad un autore che non considera affatto la poesia il regno della pace e neppure vuol vederla atteggiata a tentativo di sublimazione immaginaria del male. Men che meno la dà in mano al piccolo cabotaggio della espressione intima e privata del quotidiano. La viene invece articolando, la poesia dico, in chiave di alternativa “forte”, voce alta fino al grido protestatario e ribelle.
Mentre una buona quota della poesia attuale (e anche presso i giovani, purtroppo) si avvicina all’esercizio poetico convertendolo secondo la tradizione lirica dominante in sonda d’introspezione e adottando la cifra minimalista del diario in versi, della confessione o comunque del ristagno su minime percezioni, al contrario Palladini procede all’esternazione, sia nel senso di un discorso rivolto con decisione a un destinatario (spesso ce n’è uno individuato precisamente dal testo stesso), sia nel senso di un confronto persino virulento con l’esteriorità e l’alterità sociale. Senza evitare lo scontro e semmai – come crudeltà vuole – sfidando l’interlocutore, a costo dell’eccesso, partendo anzi volentieri per la tangente delle insistenze e del soprammercato, come dichiara il titolo stesso di Iperfetazioni.
Gli è che la realtà del mondo globale ci arriva addosso ormai in quantità assommante e quindi il gesto di chi voglia liberarsene è costretto a far appello al massimo vigore. La scena della poesia di Palladini non si sottrae alla attuale ressa-di-massa di persone, informazioni, richiami, richieste e quant’altro, la evoca per respingerla e per rielaborarne l’urto in urto linguistico. Perciò il soggetto gioca di schivate e ribattute in uno scenario che si gonfia e s’ingolfa («e intanto ti sommerge un fiume verbale / logorrea atrabiliare che ammorba il cuore»), che travalica, che confonde e obnubila («la città è un vortice di corpi in lotta e in metastasi»), che si degrada sempre più ai livelli bassi, nell’orizzonte di una «Itaglia» sgangherata e gaglioffa (non a caso storpiata con la variante cara a Emilio Villa), fino alla allegoria principe della discarica definitiva, rivolta verso il peggio, verso la «distopia totale» e il «collasso planetario». L’etica di guardare l’orrore contrasta così con qualsiasi allestimento di rosei scenari o di scorci tranquillizzanti, si rifiuta all’esercizio della copertura e della rassicurazione.
Su questo panorama di rovine, neanche più reattivo (dove «sibila rumore di peto nemmeno di tempesta») batte l’«opera eccentrica» di una poesia decisamente e senza alibi politica. E vale la pena di riflettere sul fatto che il periodo di formazione di Palladini è quello degli anni Settanta, e dunque i suoi caratteri principali nascono nei dintorni della controcultura dei movimenti, ossia vicino ai due versanti dell’autonomia e dei flussi desideranti. C’è da chiedersi cosa possa essere rimasto di tali presupposti, oggi, negli anni della scomparsa della sinistra – o, se volessimo essere ancora più ironici, della sinistra mandata “in tribuna”. Al termine della lettura di questo libro, la mia risposta è che intanto il primo aspetto (l’autonomia, ovvero l’indisciplina anarchica) si rintraccia tuttora come perno costitutivo, costituisce testardamente il punto di partenza che produce il testo, ribadendosi nell’idea che non c’è altro soggetto o soggettività se non nel principio di insubordinazione, per cui si esiste soltanto se ci si distingue da tutti, donde la negazione del ricatto del collettivo e il rifiuto di accodarsi a quello che tutti fanno: da questa “pulsione sovversiva” derivava, all’epoca degli anni Settanta, il sospetto verso i gruppi troppo istituzionalizzati, un atteggiamento che oggi ancora si può leggere nel sottotitolo di questa raccolta, là dove si contesta la linea. “La linea non c’è”, dice Palladini: il che non vuol dire affatto che la poesia vada da qualsiasi parte così come soffia il vento, perché semmai il principio del soggetto insubordinato assegnerebbe a se stesso esattamente l’imperativo ad andare controcorrente; “La linea non c’è” significa piuttosto l’abbandono del cosiddetto centralismo democratico anche per quanto riguarda gli affari letterari, la ripulsa di una direzione prefissata, sia pure stabilita a maggioranza, che poi tutti si debbano sentire forzatamente tenuti a seguire. Questo pericolo della “linea” potrebbe sembrare oggi appannato semplicemente perché il problema non è più la compattezza dell’opposizione, ma la sua stessa esistenza, consistenza e plausibilità: e però, in ogni caso, l’affermazione non perde peso. “La linea non c’è” significa allora che, in uno stallo epocale in cui tutto è fermo e immobile (no direction ti go), bisogna tuttavia e malgrado tutto muoversi in qualche modo. E dunque, al di là delle apparenze, il sottotitolo potrebbe indicare l’imperativo a muoversi comunque antagonisticamente anche se la linea di direzione non c’è più.
A risultare più problematico è il secondo versante della controcultura dei movimenti, quello dei flussi desideranti (consacrato all’epoca dalle ipotesi di Deleuze e Guattari). Non che tale sollecitazione sia scomparsa: nei testi attuali di Palladini è rimasta ben viva l’emergenza della pulsione erotica come “ritorno del represso” e l’istanza libertaria della circolazione del desiderio, solo che queste dimensioni vengono trattate con attenti distinguo, in quanto la trasgressione di un tempo si trova ormai ingabbiata, ricompresa e per certi versi rovesciata dalla parte del potere. Così quel versante notturno dello sperpero giovanile che costituiva un polo di attrazione (qui sta, anche, un po’ di eredità pasoliniana), quel popolo della notte, insomma, che dovrebbe costituire l’altra faccia del decoro borghese e del mondo diurno laborioso e operoso, non è più rappresentante del marginalismo arrischiato di una frangia corrosiva, ma sembra essere divenuto una valvola di sfogo prevista se non addirittura il prototipo della marmellata ideologica in stato confusionale, che alla fine produce elettori videodiretti. Lo “sballo”, fino a che punto è una esperienza abnorme e fino a che punto invece è proprio la norma di un dominio postumano? La risposta non può che scavare la contraddizione, e troveremo allora da un lato la conferma della vitalità della “circolazione libidinale” come unica ragione del flusso poetico stesso («la libido che circola, mi innerva, mi risveglia / e mi fa sentire postremo ma ben vivo»); dall’altro lato, l’avvertimento che ormai il capitale ci è entrato sottopelle e che la forza-lavoro che mettiamo in vendita è (come ha osservato recentemente Juan Carlos Rodríguez) la vita stessa, l’intera vita. Così Palladini: «Il mondo senza se e senza ma / ti mette le mani addosso, ti violenta / fa guerra permanente alla tua acedia».
Ma, contro le certezze ammiccanti del postmoderno, il semplice fatto che Palladini insista nella polemica dimostra che l’utopia non è del tutto finita. E però c’è la necessità di fare i conti, con durezza, con gli errori del passato, per giunta nella consapevolezza che il futuro non sarà per niente rose e fiori («Dall’orripilante mattatoio Novecento / siamo trasecolati in un secolo ancora peggiore»). Con il Novecento si apre quindi un aspro dibattito, un confronto implacabile e proprio verso gli esiti di sinistra e sedicenti rivoluzionari. Una discussione che va a fondo e fino in fondo, che critica tutti i miti e i modelli, compreso quello cinese (che il Sessantotto aveva idolatrato e qui è giocato in tiritera: «Libera nos a Mao»). Perfino Brecht, nel dialogo serrato di uno dei testi più densi della raccolta, Replicando a Brecht (fuori tempo massimo), è messo di fronte alla responsabilità dei mezzi: la richiesta di indulgenza per “non poter essere stati gentili” non giustifica il fallimento del comunismo, la sua realizzazione come incubo dittatoriale e burocratico. La “linea di condotta”, ovvero la regola della sottomissione all’unità e all’utilità collettiva che valeva ancora per Brecht, appare destituita di senso proprio perché nel frattempo i fini erano stati stravolti e giocavano di nuovo a vantaggio di una classe privilegiata al potere. Questa critica amara, non esclude tuttavia, per Palladini, il senso di un rimando al comunismo («ma i compagni nella nebbia li guardo e li comprendo / se il loro cuore rosso ora batte in controtempo») e la necessità di una istanza di mutamento e di giustizia che sia capace purtuttavia di attuare i suoi fini innanzitutto nei mezzi stessi («stavolta vorremmo davvero provare a essere gentili»).
A differenza di quanti tornano semplicemente indietro, rinunciando ad avventurarsi per strade divergenti ed arrendendosi al “pensiero unico” di un Impero in stato di emergenza ma sostanzialmente all’ultimo stadio, Palladini vuole far compiere un salto alle buone intenzioni del Novecento. Ciò significa però sottoporre a critica proprio le “belle bandiere” svettanti nel secolo appena trascorso. Di qui l’obbligo a dire sotto cancellatura le parole-chiave, siano esse il comunismo o la rivoluzione, o l’utopia, o anche soltanto l’avanguardia; sotto cancellatura, sì, ma questo è ben diverso dal non pronunciarle per niente, si tratta piuttosto di farle passare, quasi clandestinamente, attraverso il deserto di prospettive del presente. Questo compito è assunto da quella figura cui Palladini si è riferito ultimamente, con un ritocco ben riuscito, quella del materialista stoico.
Nel deserto dell’oggi – e non mi riferisco solo alle disfatte politiche recenti che sono semmai solo il riflesso nella cronaca di qualcosa di molto più profondo – potremmo dire che qui nel deserto si è, paradossalmente, di casa. Infatti, poiché il soggetto non può che mostrarsi come singolo, in alterità verso il pubblico, contraddicendo il suo referente, quella che ne nasce non può che essere una scrittura della solitudine e del silenzio. L’io si mostra, ma per strapparsi la società di dosso. Ciò porta a una rivendicazione di diversità che rischierebbe il pathos romantico e non poca nostalgia per le prerogative perdute se non fosse di volta in volta virata nell’autocritica e nell’ironia (eh, già, è il testo stesso stigmatizzare «la nostalgia canaglia e il pathos retrodatato»). Se non intervenisse la cifra della crudeltà, il rigore della crudeltà (la linea Sade-Artaud, cui Palladini si mantiene fedele negli anni: sì, questa linea c’è… come pure non si può negare la pro genitura dalla beat generation), che non può risparmiare nessuno e nulla. Per cui la presenza dell’io così spesso ritornante e quasi onnipresente non consente affatto rassicuranti identificazioni né oasi confidenziali. Ogni volta deve essere chiaro che l’io si scava la strada attraverso le identità altrui. Tutte le volte, e sono molte, in cui l’“io sono” prende la scena, l’identità si dimostra un campo di lotta. L’io è un «io irritante» («l’Io irritante ha incorreggibili, insane mire») che scompiglia le carte e cerca di presentarsi dove non è atteso, di essere dove non dovrebbe («Io sono,. cioè, il pensiero che si autopensa. / Ma come essere ciò che non penso?»; e ancora: «Sono comunque e sempre fuori luogo / atopico nel labrinto di me stesso»). Il suo stesso mettersi di fronte al “tu” nell’atto di parola, diventa l’affrontamento di una doppia misinterpretazione («Tu non sai chi penso di essere / tu non sai chi penso che tu sia»), una doppia discrasia, un contrasto incomponibile.
Per di più, non ci si può esprimere che attraverso le parole altrui. La scrittura di Palladini dimostra accanto alla spinta polemica una rilevante coscienza della “basicità” della parola, lo «stigma fatale» del livello linguistico («L’unica patria possibile è il linguaggio»). Mantenendo una forte carica di teatralità (e non dimentichiamo certo di sottolineare le collaborazioni di Palladini con il teatro, la sua stessa attività di esecutore e performer vocale della poesia in scena), la ricerca di un verso libero, ma perseguitato dalla coazione del ritmo e dal ribadimento della rima (anche baciata, se il caso l’esige; ma sarebbe meglio dire cortocircuitata), Palladini procede al ri-uso delle forme letterarie senza omaggi reverenziali (semmai la tradizione è messa a gambe all’aria, come in questo Petrarca rovesciato: «Oscure, calde e amare acque»), ma con una attiva e intemperante mozione d’urto.
Anche a costo di apparire un po’ pedante, voglio fermarmi un momento per sottolineare i diversi livelli linguistici in cui agiscono la deformazione e il gioco, non solo come mezzi di creatività al di là dell’uso comune-pratico, ma anche come irrisione di qualunque egotismo narcisisticamente soddisfatto. Molto rapidamente, possiamo distinguere tra i vari procedimenti messi in atto dall’autore almeno tre livelli, che sono l’accostamento della paronomasia, la neoformazione, il calembour. Vediamoli uno per uno:
1) il contagio del significante («il treno del significante», direbbe l’autore, che trascina le parole in una dietro l’altra), serve da molla compositiva del testo attraverso la sovrabbondanza e la disseminazione del suono, in contestazione della assolutezza del Senso. Rimandi a distanza che valgono come ricorsi ritmici; si veda la trasformazione del “sonno” in “senno”, che assume la posizione della rima («non abbia tolto agli scampati con il sonno / nudi alla meta e senza grazia, anche il panico senno»). Oppure rimbalzi ravvicinati e contatti strettissimi («Torrida l’estate orrida»; e, apertamente sottolineato: «tra GODot e GODzilla»), fino a formare serie insistenti: «il gruppo guappo, il mucchio alla macchia, la ciurma piratesca nonché pilatesca». È evidenziata l’abilità di far sbucare una parola dall’altra, l’una dentro l’altra, in una reiterata gemmazione.
2) i ricalchi di parole nuove e le invenzioni di parole composte: nel primo caso cadono le neoformazioni come «nondove» o «disvita», nel secondo le parole valigia, alcune dai tratti fortemente polemici, come «epocalittico» e soprattutto «italieni», i compatrioti vissuti ormai come alieni. Siamo qui nell’ambito di quelli che chiamerei – e ci sono espliciti rimandi come il «poesimista» – i totemi di Palladini (da Gianni Toti, autore da aggiungere tra i punti di riferimento italiani, insieme alla “poetica dell’orrore” di Mario Lunetta).
3) il parodismo delle frasi fatte e dei titoli. Questo lavoro di deformazione del “già scritto” dimostra la dialogicità intrinseca di questa poesia, in cui il ruolo di soggetto non è dato per acquisito, ma deve essere conquistato attraverso un continuo sforzo di differenziazione. Di qui il linguaggio rigenerato e straniato dal lavoro di trasformazione delle frasi acquisite, citazioni letterarie o modi di dire. Un procedimento che è però fondamentalmente diverso dalle riscritture del postmoderno: mentre nel postmoderno il ri-uso viene inteso prevalentemente come imitazione (pastiche), qui si tratta appunto di spostamento e riconversione niente affatto innocenti. Il gioco non sembra mai a risultato zero: magari sottolinea soltanto la preminenza basilare dello statuto linguistico («Sogno o son testo?»; «l’uomo del banco dei segni»), il che però è già una presa di posizione impegnativa. Oppure entra in discussione con autori precedenti (come il Rivogliamo tutto, che chiama in ballo il Vogliamo tutto di Balestrini e ne riapre le questioni irrisolte). Oppure imprime un movimento verso il basso della demistificazione (ad esempio in «nekropolitana» e ancor più in «nemocrazia»). La stessa formula che menzionavo prima, il “materialismo stoico”, adottata altrove da Palladini, opera nella formula consacrata (e massimamente ortodossa) una lievissima modifica per sottrazione, che è però di grande portata, suggerendo non la conformità all’eredità storica, sibbene l’assunzione di un compito improbo e isolato, di una resistenza assai dura, di una rimuginazione rinnovante.
Tutte queste varie diverse direzioni si intersecano nella ricerca di una dialettica della contraddizione. Così come dialettico è – né potrebbe essere altrimenti – l’atteggiamento verso la poesia, tra l’orgoglio di una pratica dismessa ed emarginata («Allora dove tutto reclama profitto / non è ignobile praticare come ersatz / l’arte povera della poesia no-profit») e lo scherno verso le posizioni illusorie di difesa e di conservazione della sacralità autoriale, di cui fanno le spese i poeti fintamente aureolati, con il loro «ipertrofico quanto esausto Ego interiore», diffusi in tutta «l’italia poetante ed autoreferente», «l’italia poetica e poco noetica», e via polemicando. In questo scontro, in questo attrito, si inarca un verso avverso, carico di tensione.
Infine, una annotazione sul titolo: Iperfetazioni. Qualcosa di troppo, l’eccesso dell’inutile. (Secondo l’etimologia sarebbe: troppi feti!). Mi pare significativo il passaggio dal normale “super” di “superfetazioni” allo spropositato “iper”. Vi si inscrive l’incentivazione folle, l’esagerazione sul vuoto. Un “autore come iperproduttore”, dalla vitalità sregolata, tanto più perché messa fuori mercato, e virata verso l’esasperazione e la crisi, come una voce che ribatte, s’altera, s’impenna, s’attorciglia, freme, urta e risale aggressivamente.