IL ROMANZO ECCESSIVO
Con Il regionale delle sei e quarantatré Marcello Carlino ci offre un perfetto esempio di romanzo costruito per “dilatazione”. Al centro c’è un aneddoto in qualche modo “elementare”, che viene presentato come tratto dal vissuto, frutto dell’esperienza e quindi fin da subito estraneo o poco interessato agli espedienti della fiction; per altro un’esperienza ripetuta ad abundantiam, quale il viaggio quotidiano nel treno dei pendolari verso la capitale. Fatto qualche passo nella lettura si scoprirà che la giornata in questione non è proprio uguale alle altre volte e il disagio “normale” virerà verso l’iperbole (le toilettes sono tutte intasate, il treno accumula ritardo e via via la situazione si fa insostenibile), diventando perciò non un evento iterativo grigio-abitudinario, ma un “bizzarro caso” di conio umoristico o per meglio dire tragicomico. La dilatazione dunque procede nel senso del peggioramento, fino ad un finale in cui il percorso si perde nel nulla, dove a sua volta l’iniziale impianto di “registrazione di eventi” si spappola nell’onirico.
Trattasi di un romanzo di viaggio: ma questo tema tanto antico e pressoché canonico, da poter essere considerato costitutivo della letteratura e della lettura, essa stessa concepibile come viaggio, subisce in questa occasione una inopinata spinta verso il basso-parodico: non abbiamo, infatti, la coraggiosa esplorazione verso l’ignoto, gli argonauti di adesso sono disgraziati utenti di seconda classe che vorrebbero soltanto arrivare a destinazione, bistrattati e dimenticati dall’amministrazione ferroviaria che li considera un ingombro superfluo; ugualmente il protagonista non ha nulla di eroico, sopraffatto com’è dalla stanchezza senile, malgrado a tratti venga preso da ventate di attività organizzativa. Può essere capitato a chiunque, a petto di consimili situazioni di inefficienza dei trasporti, di proferire frasi come “questo viaggio è un’odissea”, oppure “questo viaggio è un inferno”… Vedi un po’, proprio quelli, l’Odissea e l’Inferno, sono i grandi modelli di questo romanzo, per quanto poi vengano accuratamente distorti: se non altro, l’ulissismo per la mancanza dell’arrivo e soprattutto della nostalgia del ritorno; dall’altra parte, lo stato dei dannati essendo costituito, a differenza di un dantesco girone escrementizio, da una pena compressiva e ritentiva proprio delle funzioni escretorie. Comunque sia, ecco una consistente dilatazione, nel confronto obbligato dell’episodio particolare con i grandi schemi letterari. E ancor di più il romanzo si dilata per una, ben presto evidente, portata allegorica: quel modesto treno di linea secondaria, colto in un momento di collasso, è la definitiva rappresentazione della condizione catamoderna, caratterizzata da una lucidità residuale ma vivissima, resa vana nella globalità della catastrofe.
Ma la dilatazione agisce anche su un terreno più interno alla logica narrativa, come dilatazione temporale. Il tempo è in questione, qui. E non si tratta solo dell’uso del presente, provocatoriamente eletto a deroga del tradizionale statuto retrospettivo della narrazione, del racconto come memoria maturata. Per giunta, Carlino si lascia portare da quella “ragion digressiva” che lui stesso, in veste di critico, ha ritrovato in Lucini. Invece di “prendere” il lettore attraverso la rapidità stringente e il ritmo serrato, come da cinema d’azione, lo tiene in esercizio riflessivo mediante la pausa e non a caso il riferimento al campaniano “tempo sospeso” sta a cuore e sta nel cuore del romanzo. Qui il tempo della storia e il tempo del racconto vanno a braccetto; e così come quella dice di un treno che rallenta e si allontana dalla meta invece di avvicinarlesi, altrettanto quello mette in pausa i fatti (“i fatti, i fatti!”, direbbe spazientito il consulente dell’industria narrativa) per magari ripetere due volte la stessa azione vista da prospettive diverse o per dilungarsi in vie collaterali di elucubrazioni, quando non siano le legittime invettive sulle cause del malfunzionamento. Proprio la situazione (non c’è possibilità di liberarsi di corpo e quindi la cosa migliore per non avvertire stimoli è pensare ad altro) chiama in causa la logica della distrazione e rende consentaneo un percorso che deraglia (sebbene l’uscire dalle rotaie sia l’unico incidente che Carlino risparmia al suo treno).
Si potrebbe parlare di un romanzo caleidoscopico, o forse ancora meglio «battant comme les portes», per dirla con Breton. Perché ad ogni capitolo la narrazione ci sorprende con un cambio di prospettiva o di stile, con uno scarto inatteso. In particolare, di volta in volta, viene messa in gioco quella che Genette ha chiamato la “voce narrante”, distribuita alternamente tra un narratore di terza persona (sostanzialmente onnisciente, ma talvolta ristretto nella veste del testimone) e il personaggio che dice “io” e che si intesta la diretta espressione della vicenda. Punti di vista, in termini gaddiani, ab interiore e ab exteriore, si passano la parola e quasi si sovrappongono con un non equivoco effetto di straniamento. Aggiungendosi, a complicare il gioco, come terzo termine, l’autore medesimo. Sì, perché il personaggio protagonista è costruito senza problemi (anche qui puntando sull’elementare e quasi sul disinteresse per il finzionale) sul profilo dell’autore: ci sono la sua fisionomia, la sua età, perfino i suoi abiti, nonché le sue idee. È chiaro che questo lo potrebbe dire soltanto chi lo conosce di persona, tuttavia il romanzo lo lascia supporre volentieri: ma, allora, ecco che si apre nell’impianto una fessura paradossale: se il personaggio è l’autore, chi è il narratore? Il narratore diventa una sorta di intruso, oppure di sponda per una salutare presa di distanza. È quella infatti la sede in cui passano la critica e l’autocritica (sul tipo: «Il narratore sente di doversi giustificare con il lettore»; oppure: «Il narratore sa che lui avrebbe potuto fare di meglio») e dove quindi si stabilisce la consapevolezza del metaromanzo. Tutta la distanza dall’autobiografismo si scava nel testardo anonimato: «Il nome, il nome. (…) il nome di lui, il protagonista di queste pagine, è taciuto a tutta tutela della privacy. Volontariamente taciuto». A Proust un Marcel una tantum gli scappa; a Carlino no, Marcello risulta solo sul frontespizio e il suo personaggio è, fino in fondo e anche in questo senso, un eroe della ritenzione. Faccio notare che il testo termina con la sparizione del signore col blazer blu: rigorosamente, qui – come ho sempre pensato – si scrive per scomparire, alla faccia di tutta la pletora attuale di scriventi del “mi racconto, dunque sono”.
Oltre che caleidoscopico, il romanzo del Regionale può essere definito camaleontico, tanti sono i colori nei quali muta la sua pelle, capace di riprodurre modelli e di interpolare materiali letterari – i primonovecenteschi, le avanguardie, ecc. – che si potrebbe bandire un concorso a premi per chi ne abbia a riconoscere il maggior numero. Non disdegnando nemmeno i contributi provenienti da strati
culturali più bassi, appropriati al livello del convoglio descritto. Il tutto trascinato, come in un vortice, da una lingua “sontuosa”, nelle spire di una sintassi ampia e di un lessico abbondante fuori la norma, ricco di parole “perdute” dalla lingua d’uso, che il testo mette in conto ironicamente ai ghiribizzi dello strano personaggio “d’altri tempi”. Con veri e propri pezzi di bravura, dei quali si può dare qui solo minimo conto. Bastino due esempi, in stile opposto. Il primo è un brano “freddo”, fissato impassibilmente sulla notazione dettagliata del comportamento, behaviorismo puro:
Chiude la porta di casa. Una sola mandata. Fa cinque passi verso le scale. Si arresta. È davanti ai due ascensori. Preme il pulsante dell’ascensore di destra. Il pulsante può comandare anche l’ascensore di sinistra. Il pulsante di sinistra può comandare anche l’ascensore di destra. I due ascensori funzionano con un unico sistema di prenotazione. Il tempo d’attesa è di pochi secondi, di solito non più di quaranta. Toglie di mano la borsa e se la stringe tra le gambe.
Il cerchio dell’anello è a due giri. Da uno dei due tagli dei cerchi concentrici sono passati gli occhielli delle chiavi. Con la mano destra distanzia uno dei due cerchi e allarga l’anello che tiene il mazzo delle chiavi. Con la mano sinistra tiene fermo il passante. Con la mano destra infila il cerchio dell’anello nel passante dei pantaloni. Fa scorrere l’anello finché anche il secondo cerchio entra nel passante. I due cerchi dell’anello delle chiavi tornano a stringersi. Le chiavi sono appese ai pantaloni. Riprende nella mano sinistra la borsa.
Dall’altra parte, ecco un esempio “caldo” nella descrizione elencativa della discarica (luogo conclusivo della discesa agli inferi del capitalismo contemporaneo) dove la ripetizione incalzante dello stile è caricata dalla prorompente vis polemica:
E nella serra catorci, rottami, bucce di mandarini, torsoli di mele, guanti da ospedali, carcasse, morti ammazzati mai trovati, sanie rappresa, spurghi umani, oli senza riciclo, scarti di produzione, aborti, tossiche escrezioni, cacche industriali, alieni prossimi venturi e chi più ne ha più ne metta: il tutto ben composto, trattenuto da quel surrogato di arborea parete liscia liscia e tirata a lucido più di uno specchio. E comportato da mal compostaggio, il tutto, tanto da fare gigantesco materassone e balloso bolloso ecomostro che assomma mostruose ecoballe che ci puoi camminare sopra e affondarci i piedi come nei pagliericci d’antan, e saltarci finanche, tutti spoglie di granturco i pagliericci in fodere con fessura per braccio rassettante. E sotto nella serra si spingono si spingono le radici della flora chimicamente macerata e comportata dai coprofagi banchettatori indistruttibili mutanti sinistri, che allignano che crescono che mostrificano che mica tu supponi ci impiegano molto ad arrivare al centro della terra, dove si congiungono con le radici spinte e rispinte al punto opposto di nostra madre terra, completando le une e completando le altre corsa pari al raggio della sfera; e il rizoma di suo s’allarga e fa rete, e fa sistema, e nella terra dove non mancano mai di accendersi i fuochi e i fuochi corrono sotto pelle della terra, il rizoma ti sforna un altro germoglio, e baccelli e fagioloni da serra a chilometri di distanza.
Se se ne volesse ricavare la ricetta, direi: stampo joyciano, impasto gaddiano, pilottatura poetica (Campana, Gozzano, ecc.), spolveratura sanguinetiana nei momenti di ritorno del rimosso pulsionale; ma naturalmente il segreto della ricetta è nella mano che la realizza e nel calcolo dei tempi degli inserimenti e delle mescidazioni. Dopodiché, il citazionismo insistito potrebbe far pensare a un postmodernismo resistente, ripreso quando non è più di moda; se non addirittura a un vorace compendio del Novecento, che farebbe quindi del Regionale una sorta di summa, un libro conclusivo. Ora, è vero che Carlino approda tardi al romanzo, dopo una lunga carriera di critico; tuttavia, malgrado la filosofia del tramonto che vi si enuncia e che si sottolinea infine nel conclusivo abbandono del mondo-treno, questo libro ha, a ben guardare, la fisionomia di un inizio: dopotutto è un esordio (Carlino sarà sempre da considerare, in barba all’anagrafe, uno scrittore degli anni Dieci). Un’opera prima che, col piglio che compete a chi rompe il silenzio, dà una dimostrazione decisamente vitale di come sia ancora possibile narrare senza perdere la complessità e densità di una scrittura degna del nome.
Si tratta di un critico prestato al romanzo? Questo dopotutto non sarebbe negativo, di simili imprestiti la piattezza della narrativa prodotta dalle case editrici maggiori ne avrebbe gran giovamento. Tuttavia il caso è un po’ diverso: poiché Carlino ha sempre praticato la critica con una grande cura della scrittura, tanto da essere un esempio molto efficace di critico-scrittore, è chiaro che ha dovuto fare solo un piccolo passo oltre i confini dei generi per diventare un scrittore con alta valenza critica. E come il Carlino critico ha recentemente ribadito (nel suo La costituzione del testo) che la responsabilità dell’autore e quindi il suo impegno risiedono nello specifico letterario della produzione di polisenso, così non ci si deve sorprendere di rintracciare nel suo romanzo il profilo di una polemica civile che sottende l’intero procedimento del romanzo eccessivo. Senza una spinta propulsiva sostanzialmente politica nessun ritrovato tecnico funzionerebbe, nessuna dilatazione prenderebbe spazio, ma nemmeno vedrebbe la luce. Affacciandosi talvolta, questo movente implicito, a farsi esplicito proprio là dove il degrado spande più intensa coltre, nella forma dell’invettiva. Tale è la rivendicazione del corpo, ritenuto ormai scarto da non considerare nel mondo virtuale e immateriale del capitale finanziario; e tale è questa, quanto mai opportuna, presa di posizione contro la riduzione di tutto a “operazione commerciale”:
Tutto è un’offerta commerciale. Tutto si vende. (…) Commercializzazione global, gestione dovunque e comunque in luogo di progetto, alienazione da neocolonialismo e imperialismo finanziario, esautoramento della politica vicariata da una neopolitica monetaria decisa unilateralmente dal mercato e dalle borse. Commercializzazione global contro le politiche sociali, commercializzazione sopra e contro le sovranità degli stati, esecutivismo eterodiretto a matrice commerciale (altro che nuovo, buon vento che porta il fare) contro ideazione e programmazione, esecutivismo linguistico che tutto traduce, servizi e viaggi, in offerte commerciali impositive, esecutiviste, tanto non mi scappi. Tutto vero, tutto verificato, convalidato, obliterato dal linguaggio in uso. (…) E certo che è fondamentalismo anch’esso, fondamentalismo subdolo che ci accorcia la vista, che ci toglie i pochi risparmi di cultura sociale a fatica accantonati, che ci spegne il futuro; e certo che ci stringe, ci prende alla gola, ci soffoca. No, se il viaggio è un’offerta commerciale, niente più che regolato da un’offerta commerciale, meglio non viaggiare.
E ancora meglio sarà un viaggio emblematicamente problematico, con i reietti della porta accanto, au bout de la nuit, in una “allegoria del peggio”, dilapidando le ricchezze della lingua a fronte della gaglioffaggine del presente e intrecciando come si deve criticità e inventività, ironia e contrasto.
(Su Il regionale delle sei e quarantatré, Robin, Roma, 2017).