LUIGI MALERBA

IL NARRATORE DIVISO, OVVERO I SALTI MORTALI DELLA SCRITTURA

A proposito di Luigi Malerba uno dei ritornelli critici più frequenti è quello della sua appartenenza o meno all’area delle nuove avanguardie e del romanzo sperimentale. Affiliarlo o affrancarlo? Questo è il problema, ovviamente dipendente dalle simpatie o meno di ciascun critico per quella tendenza letteraria. Ed è chiaro che, così posta, la questione non si risolve altro che relativamente, e potremmo starcene contenti con l’esito di Maria Corti, con il suo qui «si deforma, ma si racconta», che ha il merito di fornire all’autore un lasciapassare nell’epoca in cui si  esige per prima cosa il racconto, conservandogli al contempo un quanto di deformazione. Il tentativo che vorrei fare, tuttavia, è di rovesciare le proporzioni, magari allargando un po’ la prospettiva. Il modo invalso di vedere l’evoluzione narrativa del secondo Novecento è quello di considerare il romanzo sperimentale come una patologia momentanea (qualcuno ebbe a dire “una glaciazione”), da cui ci si è poi ripresi con gloria e vittoria della scrittura scorrevole fino ai recenti fasti della fiction. In questo quadro, Malerba, magari un po’ infettato di influenza giovanile, se ne uscirebbe anche lui verso il suo periodo maturo di narratore autentico, anche se con qualche traccia di paradossismo rimasta sparsa qua e là. Ma, se le cose andassero diversamente? Se provassimo a comprendere il romanzo sperimentale in una tradizione più larga? Una tradizione dove, io dico, l’antitesi – con buona pace dell’uso dialettico consueto – precede la tesi? Proviamo a pensare che lo sperimentare narrativo corrisponda fin dall’origine all’uso libero della prosa, anarchico, anormale e mostruoso; e che su questo fondo caotico e ribelle si venga a stabilire poi l’ordine del romanzo, come riduzione alla realtà, obbligo di verosimiglianza e di omogeneità, controllo delle trasgressioni e via dicendo. Se ripassiamo le indicazioni di Bachtin sulla nascita del romanzo «nell’alveo delle forze centrifughe decentralizzanti» e sulla sua natura di ibrido, «interamente stilizzato, meditato, soppesato, distanziato», o se pensiamo anche solo a quel “quarto genere” che Frye separa dal romanzo vero e proprio per definirlo con il termine di anatomia, in cui «la struttura intellettuale che emerge dalla storia raccontata provoca violente alterazioni nella normale logica narrativa», oppure chiamiamola la linea-Yorick dei «linguaggi deformati e funambolici», per dirla con un titolo del nostro Mazzacurati; comunque la si voglia mettere, abbiamo di fronte una tendenza alla anomalia prosastica che emerge soprattutto nei periodi di tensioni antagoniste e utopiche, una tendenza il cui carattere affermativo (positivo) è realizzato in forme parodistiche (negative) proprio allo scopo di rompere la crosta di omologazione che si è solidificata sul pasticcio letterario; la crosta, direi, antropomorfa: quella che deve trasformare la scatenata avventura delle parole nella simil-vita di un simil-uomo.
I capisaldi di questa emergenza sono fin troppo facili da trovare, da Rabelais a Cervantes, da Sterne fino a Joyce, Kafka e Beckett (in Italia, l’umorismo con Bini, Dossi, Pirandello, Savinio e compagni). La linea, per definirla ancora, del rapsodico, dell’arabesco e del capriccio. Come punti di interferenza sulla norma o normalità narrativa le potremmo riconoscere diverse procedure: a) la formazione di un non-luogo o ambiente libero da obblighi mimetici, un mondo impossibile, per lo meno un mondo imprecisato; b) la mescolanza dei fili e degli stili o generi di scrittura, volta all’eterogeneo, per saturazione o montaggio, oggettivante i suoi lacerti, che finisce per mettere in primo piano il linguaggio e la composizione, protagonisti al posto dei personaggi; c) il narratore sulla scena, ovvero l’evidenza critica della finzione.
Questa logica, per quale si tratta non di cementare i modelli né di assumere il senso comune, bensì di recuperare disinvoltura e indipendenza, è chiara in Malerba fin dall’inizio, tanto che già in una delle sue prime interviste egli parla di «modelli di libertà»: la formula è messa tra parentesi, ma il suo tendenziale “anarchismo” è chiarissimo nel rapporto tra forma narrativa e esemplarità sociale, finendo dritta nella “lotta di classe”: «Lo scrittore consapevole – afferma Malerba, rispondendo a Paolo Mauri nel 1977 – si trova quindi nella necessità di operare con strumenti che deve inventare di volta in volta, creando modelli linguistici e perciò di pensiero e di comportamento (modelli di libertà) che spezzino il processo di standardizzazione imposto dalle classi dominanti». Il punto di aggancio di Malerba con quella linea di tendenza che ho rapidamente indicato, non sta tanto nel non-luogo (i suoi luoghi sono identificabili, almeno in apparenza) e neppure nel protagonismo del linguaggio (sebbene non se ne stia certo a far da lente trasparente), quanto nella esibizione del narratore. Ora, per capire la posizione di tale aspetto e la sua valenza metanarrativa, occorre considerare preliminarmente le due soluzioni classiche della esposizione del narratore, cioè Jacques le fataliste di Diderot e Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij. Nei termini di una certa narratologia, potremmo definire la prima eterodiegetica e la seconda omodiegetica: in Diderot il narratore esce fuori dal suo nascondiglio e si “appalesa” per entrare in dialogo con i lettori sulle “possibilità del racconto” con interruzioni, obiezioni e digressioni continue; in Dostoevskij, invece, il narratore parla rivolto al pubblico, debordando nello sproloquio e avvolgendosi in contraddizioni, smentite e “scappatoie” .[7] Le modalità del narratore malerbiano, per un verso si collocano nell’alveo del “sottosuolo”, in quanto si svolgono all’interno della voce dell’io narrante (l’Ich-form direbbe Doležel); e tuttavia riportano in quella sede la discutibilità del narrato e la conseguente riduzione del dato a mera possibilità, caratteristiche del modello diderotiano. Si tratta, quindi, di una interessante interferenza delle due linee, che definirei come il caso del narratore diviso o, per usare un termine dell’autore stesso, “sdoppiato”. Questo si riscontrerà in modo particolarmente radicale in Salto mortale, un testo che partecipa – come indica la stessa data, 1968 – a un periodo alquanto radicale della storia e della cultura non solo in Italia, un momento in cui le stesse neoavanguardie incontravano stimoli concorrenziali nei movimenti contestativi, che le spingevano a osare di più (vedi anche i testi coevi di Sanguineti, Leonetti, Di Marco, ecc.). Ma il procedimento non è isolato a quel solo libro. Se vogliamo vedere il prima e il dopo: per il prima possiamo risalire al racconto de La scoperta dell’alfabeto intitolato Le ruote della civiltà. Il narratore qui viene messo in scena di fronte ai suoi narratari, ma questi non ne vogliono sapere di essere semplicemente evocati come astanti silenziosi (con le locuzioni, ad hoc, del tipo: “il lettore si starà chiedendo”, “il lettore obietterà”, e simili). I narratari malerbiani prendono apertamente la parola e interrompono con le loro proteste il filo del racconto, che procede in modo asmatico e poco convincente per loro («Questa è una storia per modo di dire», protesta uno del pubblico). L’aspetto interessante è che questa crisi del narrato non viene affatto ambientata in una situazione di modernità avanzata, ma esplode nello stesso mondo contadino, nella situazione enunciativa di un raccontatore orale (un Hablador, alla Vargas Llosa), che dovrebbe essere del tutto omogeneo alla sua comunità. Ciò dimostra che non c’è originario che tenga, se non piuttosto che la problematicità della narrazione è, proprio lei, l’origine più profonda. Intanto, l’operazione sull’io narrante inizia subito dopo con Il serpente. Il Serpente è il romanzo del narratore screditato, che scava nell’identità-differenza tra finzione e falsità. Il narratore confessa di aver mentito e alla fine lo troviamo ricoverato in preda alle allucinazioni: si è dunque inventato tutto dalla prima all’ultima riga? Il lettore dovrebbe buttare via il libro perché non c’è niente di vero? (Ma qualsiasi testo di finzione non dice precisamente il vero, come già ben sapeva Platone; e quindi?). Notiamo innanzitutto che Malerba colpisce proprio la sede a cui noi demandiamo la credulità del “come se”. In realtà il “narratore inattendibile” è tutt’altro che un fallimento o un errore estetico; come ha spiegato Chatman sulla scia di Booth, la narrazione inattendibile è un modo con cui il narratore implicito ci rivela la sua presenza, altrimenti dissimulata: in altre parole, se colui che racconta risulta menzognero, dovrò domandarmi per forza chi ha costruito un narratore menzognero e perché, invece di cullarmi nella illusione del simil-vissuto. La narrazione inattendibile assume una significazione al quadrato, diventa una sorta di allegoria.
Inoltre Il serpente interessa qui anche per un altro aspetto, il dialogo del narratore con se stesso. Il personaggio malerbiano è uno che vive isolato nelle proprie fantasie. Mentre la sua voce della coscienza si fa sempre più patologica, i personaggi che lo attorniano si rivelano immaginari. I tratti dei continui “mi dicevo” sono dunque la traccia di tale chiusura endogena, in cui appunto falsità e finzione si danno il cambio di continuo. Sarà un personaggio delirante, però è altresì la prova di una dialogicità della coscienza che non sarebbe dispiaciuta a Bachtin. E che tra l’altro ritroveremo, dopo l’exploit di Salto mortale, ancora nel Pianeta azzurro.
Un breve esempio dal Serpente, dove la voce interna è già divenuta quasi-esterna, una seconda voce:

E tu dove stai andando adesso? Ero sul Ponte Garibaldi. Niente, sto andando in giro per la città, sto facendo una passeggiata. Arrivai a piazza Belli e poi a piazza Santa Maria in Trastevere. Allora stai camminando verso il Gianicolo. Infatti stavo camminando verso il Gianicolo, avevo incominciato a fare la salita. Chi ti credi di trovare al Gianicolo? Non illuderti, mi dicevo.

Si proseguirà, poi, oltre il Salto, con il semi-dialogo de Il protagonista tra il “sesso-protagonista” e il Capoccia (il corpo e la mente, la pulsione e la presunta ragione). Nel Pianeta azzurro, il gioco di domanda e risposta interne («mi facevo domande e risposte da solo, dialoghi che duravano delle ore») viene inserito nella distribuzione del ruolo del narratore tra le figure del Diarista e del Chiosatore, inquadrate infine tutt’e due dalla nota dell’Autore, che ne ipotizza per altro la coincidenza, e quindi lo sdoppiamento interno. Ancora narratori alternati (questa volta nel gioco di ping-pong tra il personaggio maschile e il femminile) in Itaca per sempre e, fino all’ultimo, nei Fantasmi romani.
Mi pare che Salto mortale costituisca la prova decisiva e più radicale, proprio perché nel suo caso, il dialogismo del narratore viene costretto alla convivenza coatta in un’unica sede, invasa da una voce disturbante, una «voce alle mie spalle» che interloquisce e collabora al farsi della narrazione. Al farsi e al disfarsi, perché è ovvio che l’uno che diventa due, ovverosia la dialettica, non è fatto per una narrazione scorrevole e tranquilla. Per vedere da vicino cosa accade, partiamo dal brano iniziale; è vero che è stato citato molte volte, però è il più significativo perché è quello che immette da subito il lettore in questo universo dal paradossale “patto narrativo”:

Me lo sogno o lo senti anche tu? Questo ronzio questo ronzare. Da dove viene? Dal Cielo, dalla Ter­ra? Stai calmo non è niente. Allora sono le mie orec­chie. Ma no, viene da fuori. Questo ronzio questo ronzare non sono le mie orecchie. Allora te lo dico io che cos’è, sono le antenne di Santa Palomba della Radio Televisione,

STA PARLANDO IL PAPA.

Forse hai ragione, ho sentito delle parole in latino, ha detto magis magisque in questo momento. Certo che il Papa parla in latino, come vuoi che parli? Quella è la sua lingua come il francese per i francesi, sono secoli e secoli che i Papi parlano in latino. Ma è una lingua morta, per piacere. Il Papa parla come vuole lui. Va bene il latino ma non può essere il Papa che fa tutto questo ronzio questo ronzare. Guarda che il Papa quando si arrabbia è come il temporale. Uno sciame di mosche sta volando nel Cielo di Pavona, secondo me sono loro. E invece ti sbagli, vedrai che è il Papa che parla alla Radio Vaticana.

Notiamo innanzitutto una narrazione principalmente interrogativa, cosa che ha costituito un vanto dell’autore, e che lo rende – malgrado la differente impostazione – assai prossimo al «Toujours des questions» del Jacques diderotiano. Notiamo poi che, nello sdoppiamento del narratore è possibile una, sia pur ipotetica, distribuzione delle parti, tra chi registra il dato (il ronzio) e chi spiega la causa (sta parlando il Papa), ovvero tra un soggetto percipiente e un soggetto interpretante. Notiamo che l’interpretazione del ronzio con le presunte onde della radio (e quindi con le parole dell’autorità religiosa) rende la causa immateriale e quindi sfuggente quanto l’effetto. Notiamo che il punto di partenza è una sensazione di disagio (l’autore lo ha dichiarato: «Ogni mio libro nasce da una indignazione o da un grave disagio»), se non di fastidio, è costituito esattamente da una interferenza, da una comunicazione incomprensibile e gravida di minaccia. Notiamo infine l’indubbia strategia del comico, si ride di sicuro qui, tuttavia di uno humour piuttosto nero, innestato su di un corpo irritato e scorbutico.
Ma a chi appartiene la seconda voce? Si tratta del narratario della Scoperta dell’alfabeto che è divenuto talmente invasivo (o introiettato) da occupare una metà della sede enunciativa? Sarebbe proprio un narratario paritario. O non si tratta invece dell’autore implicito che sta alle spalle di un personaggio talmente privo di credito, da doverlo seguire passo passo e controllarlo a bacchetta? Queste ipotesi rimangono tali, perché non vi è mai una parabasi dell’autore che le disbrighi, rivolgendosi direttamente al di fuori del testo. E il congedo finale (quando la voce, distaccandosi, acquista una fisionomia personale che piange e singhiozza) non sembra agevolare né l’uno né l’altro corno. E nemmeno l’unica spiegazione verosimile, che rimandasse ad una psiche in disordine: il classico “diario di un pazzo”. Allora la fine, con il suo congedo del coabitante, sarebbe una guarigione, un esorcismo riuscito? Ciò che sembra, piuttosto è che il testo si provi a continuare, ma non possa proprio farlo con un narratore solo: poco dopo aver evocato un probabile “ritorno del rimosso” («UNA VOCE DA LONTANO. // Si avvicina alle mie spalle»), il testo conclude:

Mi volto a guardare tutta quella gente sul prato, forse tutto ricomincia da capo. E invece secondo me questa è proprio

LA FINE

Non per niente siamo nella linea delle scritture “senza capo né coda”: l’unico modo di finire è quello di ricominciare, oppure l’imposizione arbitraria della fine, tranciata di netto con la sua stessa parola evidenziata in maiuscole. Ciò suona ancora, come critica della forma buona e dell’aspettativa del senso comune e come intervento (di secondo grado) sul codice della letteratura stessa.
Prima di arrivare al congedo finale, però, interroghiamoci un poco sulla funzione della seconda voce. A livello dell’azione, la seconda voce sembra avere una sorta di funzione di controllo del personaggio, o forse meglio di “mantenimento in corso”. Più spesso il suo compito appare quello di calmare l’eccesso di agitazione e di rabbia, quindi con una attenuazione tranquillizzante («Stai calmo Giuseppe che la guerra è finita»); ma si rintraccia anche l’inverso, quando il personaggio si mostra troppo inerte o inerme («Adesso corri Giuseppe, alzati e corri perché è molto tardi»). Si potrebbe quindi concludere che la funzione della seconda voce è quella di contrastare un personaggio protagonista riottoso e divagante, per farlo stare adeguatamente in scena. Se consideriamo, però, la prospettiva del dialogo, la funzione del “doppio” risulta all’inverso non pro-narrativa, ma anti-narrativa, o meglio anti-finzionale. Infatti, la prima voce si prova – bene o male che sia – a porre i dati di una storia, che sono anche dati esattamente realistici, per esempio riguardo all’ambiente, la pianura di Pavona, percorsa addirittura con la legittimazione della carta topografica. Ma la seconda voce si incarica di mettere in forse ogni certezza, tanto da trasformare in un non-luogo quel territorio così acribicamente descritto. È da notare che Malerba costruisce, nel contenzioso della due voci (ma era già presente nel racconto della Scoperta tra il raccontatore e i “raccontatari” popolari), un paradossale dissidio tra senso comune e buon senso. Il senso comune dovrebbe essere quello che accetta senza discutere quanto posto dal racconto sotto l’egida del “come se”: qui invece il senso comune, dal suo osservatorio letterale-terra terra, obietta e smonta le pretese di esistenza. Ad esempio:

Qualcuno si allontana ma ci sono altri invece che continuano ad arrivare, i padroni delle case e delle ville dei dintorni, i servitori i giardinieri i salariati fissi. Ma Giuseppe, che cosa stai dicendo? Non ci sono case non ci sono ville da queste parti. Se non ci sono si possono costruire (…).

Oppure:

C’è gente invece che sta lì con il fucile puntato, forse mentre io guardo intorno tranquillo, il campo di patate, lui è nascosto dietro quella siepe e sta di nuovo prendendo la mira per sparare. Ma quale siepe? Io non vedo siepi da queste parti. Non è la siepe che conta ma l’assassino che c’è nascosto dietro.

La logica della finzione (anche se si difende con le sue “scappatoie”) viene interdetta a colpi di iperrealismo. Parlando freudianamente in termini di principio di piacere e principio di realtà, la finzione corrisponde al principio di piacere, è ciò che vorremmo sentirci raccontare, anche nel caso di una finzione “realistica” (piace sentirsi dire che c’è, comunque sia, una realtà); allora il principio di realtà corrisponde all’annullamento della finzione. Consiste, in buona sostanza, in una funzione decostruttiva. Le voci narranti di Salto mortale, come abbiamo visto, sono in continuo diverbio, ma questo carattere del soggetto “dividuo” contagia anche tutti i rapporti dei personaggi. Il diverbio continua, infatti, sia tra il protagonista (già di suo tautologicamente doppio nel nome di «Giuseppe detto Giuseppe») e gli altri omonimi “Giuseppi”, sia con il personaggio femminile, dal nome continuamente variato (sinonimia vs. omonimia) dalla radice Rosa. Spesso non ci accorgiamo se la discussione sui fatti sia condotta dalle voci interne o dalle voci esterne (visto poi che queste potrebbero non essere altro che proiezioni fantasmatiche dell’io). Di qui, come già nel Serpente, lo “svaporare” della realtà, lo svanire del dato, malgrado la puntigliosa enumerazione, fino a momenti di vera e propria cancellazione, come il famoso brano – spesso citato – che provvede a togliere a breve distanza, ciò che era stato posto sulla scena:

Camminavo al Sole in mezzo a un prato e il prato era deserto. C’era l’erba alta, ogni tanto il piede affondava nei buchi del terreno. Avanti vai avanti va bene vado avanti. Camminavo al Sole in mezzo a un prato, avevo le scarpe con la suola leggera quelle che metto d’estate cioè delle scarpe di tela. Un po’ più in là c’erano le viti e gli ulivi tutti in fila, un cachi un traliccio dell’Alta tensione un albero di mele.
(…)
Non camminavo in mezzo a un prato e il prato non era deserto. Non c’era l’erba alta, ogni tanto il piede  non affondava nei buchi del terreno. Avanti vai avanti. Non avevo le scarpe con la suola leggera cioè non erano scarpe di tela. Un po’ più in là non c’erano le viti e gli ulivi tutti in fila, nemmeno un cachi un traliccio dell’Alta tensione un albero di mele.

Un riavvolgimento del nastro che costituisce una clamorosa impasse narrativa. Questa condizione incerta – particolarmente grave a petto del tentativo di instaurare un impianto “giallistico” completo di cadavere e assassino – si riverbera anche sui tempi del racconto. La solidità del passato è esclusa, il tempo storico assume, semmai, la vaghezza dell’imperfetto. Ma è il presente il tempo adatto a questo racconto che si sta facendo (o almeno prova a farsi) sotto i nostri occhi: un tempo che, se dedicato all’azione, sarebbe sostanzialmente impossibile, perché il narratore dovrebbe agire e scrivere contemporaneamente. Dei vari esempi, questo è uno interessante:

C’è una macchina per impastare la calce un pezzo di rete un rotolo di filo spinato qualche pezzo di travertino una bicicletta arrugginita. Mi avvicino. È la stessa marca della mia che conduco per mano, la stessa forma e lo stesso colore, anche il campanello è uguale e anche il fanale ma questa è un rottame. La guardo bene, c’è una ammaccatura nella canna trasversale del telaio co­me nella mia, identica uguale. Sarebbe la mia se non ce l’avessi per mano. Questa simmetria. Il parafango è rotto dove il mio è appena incrinato. Sono passati dei mesi o degli anni da quando è stata abbandonata.

Interessante perché contiene più “esistenti” che “eventi”, come se il tempo narrativo del presente potesse davvero garantire la loro presenza; mentre poi ciò che emerge subito è una nuova inopinata “simmetria”, per cui lo pseudo-reale si deforma nel perturbante onirico. Insomma, il vero tempo di questa scrittura interrogativa, che non può supportare altra esistenza di quella ipotetica, sarebbe il condizionale. Sebbene anch’esso, quando è utilizzato, non riesca a liberarsi del tormento della smentita:

Eravamo soli io e lui. Avrebbero potuto passare automobili e biciclette su quella strada e avrebbero sollevato molta polvere se ci fosse stata della polvere, invece non passavano e quindi non sollevavano nien­te. Avrebbe potuto piovere e allora la polvere si sa­rebbe inzuppata, le gocce si sarebbero smorzate nella polvere e poi questa sarebbe diventata fango. Le scar­pe mie e quelle del vecchio sarebbero affondate nel fango e avremmo finito per mettere un piede dentro una pozzanghera. Allora avrei detto kappa mi è en­trato il fango in una scarpa. Invece non pioveva e non aveva in mente di piovere a giudicare dalle nu­vole che non c’erano perché il Cielo era sereno e silenzioso.

Da questo procedere zoppicante la convenzione narrativa esce debitamente smascherata, l’enunciazione è resa visibile (secondo il modello-Diderot, che indica in particolare l’arbitrio del narratore). Ed è resa ardua, se non impossibile, l’identificazione del lettore – rischierebbe ad ogni momento di vedersi portare via il proprio oggetto. Forse sarebbe meglio dire che sono impediti alcuni tipi di identificazione; molto opportunamente, infatti, l’ermeneutica di Jauss ci ha ricordato che di modelli di identificazione estetica ce ne sono vari e ad un testo come Salto mortale ne resta aperta ancora una di quelle indicate da Jauss, precisamente l’identificazione ironica: «negando l’identificazione con il rappresentato secondo ciò che è nella loro aspettativa, lo spettatore o il lettore vengono strappati all’immediatezza del loro atteggiamento estetico, in modo da obbligare alla riflessione la coscienza percettiva e da renderla libera per la sua attività peculiare». Se un altro teorico tedesco, Habermas, ha formulato una Etica del discorso, riguardante le pratiche argomentative, ritengo che l’unica etica possibile del discorso narrativo risieda in una critica della ragione finzionale condotta all’interno della finzione stessa. In questo senso ho dichiarato Malerba uno scrittore “educativo” – non senza qualche remora dell’autore che temeva l’associazione con “noioso”. Se proprio non si volesse parlare di etica dell’antiromanzo, atteniamoci anche soltanto alla richiesta di attenzione che un  testo del genere esige; ad esso potrebbe accordarsi assai bene l’imperativo formulato da Wayne Booth, «Deep Readers of the World, Beware!», lettori profondi di tutto il mondo, attenti!
Non ho qui il tempo per approfondire un’altra funzione del narratore internamente dialogizzato, quella indubbia conseguenza ritmica di contrappunto che nasce dal gioco di botta e risposta e dal susseguirsi degli intercalari, i frequentissimi «amico caro» e «carissimo amico», le interiezioni del «kappa», le formule avversative e quelle concessive («Guarda che ti sbagli e tu lasciami sbagliare»). In generale si può osservare che il racconto diviso tra le “voci” prende una forma colloquiale e orale, andando a collocarsi nella linea sperimentale dei linguaggi bassi – e mettiamoci pure le frasi raddoppiate tra forma constativa e allocuzione («Resteranno fulminati un giorno o l’altro, resterete fulminati») e la distorsione sintattica del relativo messo in fine di frase («Se sapevo così mi portavo un maglione di lana e una candela per fare un po’ di luce con la quale»); uno stilcritico non avrebbe alcuna difficoltà ad avere altri “clic” e ad allungare la lista degli stilemi malerbiani, dei “malerbemi”.
Vorrei invece sviluppare almeno un poco il lato ideologico-politico. Che la realtà costruita dal senso comune venga messa in crisi, non impedisce che della realtà sia questione, anzi, sia la questione. La parola “bivoca” del narratore malerbiano ha una evidente carica impulsiva e protestatria. Certo, affidata com’è a un corpo umoristico e umorale la protesta di Salto mortale è a doppio taglio. Mettendo in scena la follia del «paranoico protagonista», «mitomane piccolo-borghese» (l’unica spiegazione che torni al verosimile è che si tratti di un pazzo), il testo sembra svalutare precisamente le mirabolanti pretese dei sogni di contestazione politica “globale”, probabilmente altrettanto pazzi; eppure, dall’altra parte, la parola del fool è accreditata per dire delle verità scomode (potremmo riportare questa doppia funzione insieme di fallimento e di veridicità della follia al modello-Quijote, ancora un caposaldo della narrazione digressiva e metaletteraria, che ha dato «forma a tutta la narratività moderna»; non a caso il libro che Malerba ha dichiarato che avrebbe voluto scrivere).
Lo stesso narratore diviso potrebbe essere interpretato in due modi: l’altro sono io,  quindi non ci sono che io; oppure: io sono altro, non ci sono che altri. Il primo modo, con la sua onnipotenza narcisistica potrebbe essere accreditato come stigma del postmoderno, dell’esaltante edonismo consumista. Il secondo modo, invece, per i suoi connotati di svuotamento e di contrasto, ci riporterebbe dalle parti del moderno. Del resto, l’idea che gli anni Sessanta italiani siano l’anticamera del postmoderno successivo è ormai un luogo abbastanza accettato. Malerba moderno e postmoderno? Saremmo di nuovo alle prese con un “non solo, ma anche”, magari confortati dal Jameson quando parla di Baudelaire as modernist and postmodernist? Sarà che ho da tempo un partito preso avverso alla formula del postmoderno (oggi magari attenuato dalla ondata regressiva tradizionalista che gli si va sostituendo), ma propenderei a privilegiare, per il Salto mortale, il lato della modernità: una modernità radicale, portata all’estremo, a fondo (una catamodernità, forse). È indubbia, infatti, nel testo malerbiano la complicazione e la critica del proprio mezzo. E vi è indubbia anche una forte pulsione politica antagonista: non politicamente ortodossa beninteso, anzi Malerba si preoccupa di dare ai suoi personaggi degli statuti lavorativi strampalati (il venditore di francobolli, il cercatore di metalli) e comunque decisamente non “tipici”; si tratta piuttosto di una pulsione anarchica e di una istanza di dissenso che percorrono il testo, sulle onde di uno stato di rabbia incoercibile, producendo alcune denunce assai anticipate dei mali sociali, ad esempio sui temi ecologici e ambientali:

Io vi avviso cioè vi ho avvisati, Roma fra poco scoppia, è lì lì per scoppiare.
In via Nazionale il terreno ha ceduto e si sono aper­te delle crepe, così dicono i giornali. Invece no, le cose stanno diversamente, cioè il terreno non ha ceduto si è gonfiato. Questo si può vedere da certe fessure nel catrame aperte verso l’alto e non verso il basso.
Circa a metà di via dei Serpenti a guardare con at­tenzione le commessure fra le lastre dei marciapiedi si sono allargate. Questo significa che la Terra cresce e si gonfia, per piacere. Qualcosa si muove sottoterra sot­toroma. Anche in altri punti della città si possono notare piccoli segni dello stesso fenomeno, crepe sot­tilissime rigonfiamenti quasi impercettibili. Chi passa tutti i giorni non se ne accorge ma intanto

LA TERRA SI MUOVE

Dove colpisce non tanto o non solo il degrado delle vie romane, quanto il riferimento ad un dissesto planetario, l’irritazione della Terra.
Inoltre è facile notare, lungo tutto il testo, l’incombere sul dialogo di una intenzione inquisitoria. L’impianto “giallistico” fa sì che la parola del narratore, che parli con se stesso, con i sosia o con le partner, sia sottoposta costantemente a una domanda  indagatrice, che tende ad ottenere una confessione: la puntigliosità di appurare l’esistente, insomma, non ha soltanto una valenza anti-narrativa, ma rivela la “volontà di sapere” che sostiene l’ordine sociale.

Ecco, fate delle domande e io vi rispondo. Inco­minciamo a dire che sono arrivato qui alle sette e mez­zo del pomeriggio verso sera e ti ho trovata che guar­davi la Televisione. Telefunken. No caro, bisogna es­sere precisi con la polizia che cosa guardavo? Va be­ne allora guardavi i Caroselli li guardi tutte le sere. Per niente affatto i Caroselli non li ho visti ieri sera c’era una commedia. Allora diciamo che c’era una commedia non ricordo il nome della quale. Guarda che la polizia è pignola da morire, guarda che dopo vuole sapere la trama si può inventare, dicevo, tanto sono tutte uguali.
Saranno tutte uguali come dici tu queste tra­me, diceva Rosina, invece non sono uguali per niente. La polizia la guarda la Televisione e non si lascia in­gannare così tanto facilmente. Va bene allora non ce l’hai questa trama da raccontare di questa comme­dia, pazienza, non capisco la Televisione che cosa l’hai comprata a fare. La lascio sempre accesa, diceva, ma non ci faccio molta attenzione.

In fondo, nel suo perdere di consistenza, la trama gialla lascia in mano il problema “elementare” di un corpo in situazione di pericolo nello spazio circostante e nei suoi rapporti con gli altri. Emergere nella società (stavo per dire emergere alla società: cioè porsi al centro come fa il narratore di una storia) contiene il rischio di esporsi alle fonti del controllo. L’onnipresenza della polizia (ironizzata come soggetto femminile e però sempre in agguato in Salto mortale con «camionette» e «pantere») evidenzia l’agente riconosciuto in quell’epoca come il rappresentante principale (l’apparato di stato) della repressione.
Quell’epoca, dunque, sì, il Sessantotto, gli anni della contestazione. Gli anni in cui vigeva tra gli studenti il Ma-Ma-Ma (Marx, Mao, Marcuse). Io mi aggiravo nel movimento sempre un po’ per conto mio, sfidando i rimproveri dei “duri e puri”, con un quarto Ma, Malerba. Devo dire, a distanza di anni, che spero di essere rimasto fedele a questo valore aggiunto. Cioè al tentativo di affiancare la critica dell’economia politica e la critica della cultura egemone con l’ipotesi di una scrittura libera e liberante, capace di continui “salti mortali”.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: