LAMBERTO PIGNOTTI

UN DIARIO CORALE

Lamberto Pignotti, pioniere e capofila della poesia verbovisiva, ci ha abituati a produzioni artistiche ibride, composte di immagini e parole, trattate con procedimenti di avanguardia e di straniamento. Con diversi modi nel corso del tempo: dall’aggiunta del fumetto alle immagini dei francobolli, all’utilizzo delle foto di moda volutamente sfumate e accompagnate dalla sovrascrittura di versi della poesia della grande tradizione. A volte, come nelle serie Souvenir, Living Theatre, Kolossal, limitandosi a scrivere sulla foto il titolo della serie. Anche in questo recente Diario corale. 1962-2015, dove sono riunite 53 foto ritagliate dai giornali, rappresentativa ciascuna di un anno, l’autore si riserva un minimo intervento: minimo, che tuttavia dà parecchio da pensare.
Qui Pignotti non fa altro che segnare la data e apporre la firma, manifestando con ciò una forte pulsione ostensiva, come se le immagini fossero deputate a parlare da sole. In realtà, l’interferenza della scrittura non è poi così piccola come potrebbe sembrare. Carlo Alberto Augieri, nella sua interessante introduzione, fa notare che «il nome del soggetto diventa un soggetto della scena, che, rapportandosi diversamente in relazione ai soggetti degli eventi fotografati, si connette in una sorta di ‘grammatica’ del vedere, del congiungersi, dell’identificarsi». Gli è che la firma (il nome dell’autore), intanto cambia formato (può essere corsiva o in stampatello, completa del nome o solo cognome, scritta a penna o con un pennarello, ecc.); e poi si colloca diversamente scegliendo la sua posizione nella foto talvolta con più discrezione, talaltra entrando invece a pieno titolo nell’immagine, come ad esempio quando viene scritta sulla serranda di una macelleria quasi facesse parte dell’insegna del negozio, o quando finisce sulla testata di un treno quasi ne fosse la destinazione.
Naturalmente il soggetto può farsi piccolo quanto vuole, ma non scompare: perché in suo potere resta pur sempre la scelta della fotografia più rappresentativa per ogni anno; e possiamo pensare che tale designazione di significatività avvenga al cospetto di un archivio molto ampio. Un giorno solo con l’episodio che vi è fissato è chiamato a diventare l’emblema di un intero anno! A ben vedere questa scelta avviene con una grande varietà di criteri, secondo una gamma che va dall’evento più rilevante alla quotidianità più minuta. Si potrebbero anche ripartire le foto contenute nel libro secondo le diverse figure retoriche: funzione di sineddoche (la foto che coglie un istante di un evento); di metonimia, quando la foto allude evidentemente a problemi sociali, ad esempio una lunga coda in attesa, il negozio con la serranda abbassata, le prostitute sulla strada; ma non manca la metafora come la foto dell’eclisse di sole che rappresenta il 1999; e ancora l’ossimoro, cioè il contrasto, come nell’immagine del 1987, in cui un piccolo bambino di origine africana allunga la manina a toccare un grande manifesto di Madonna, la cantante, che ha gli occhi rivolti al cielo – e anche in altri casi Pignotti sceglie immagini solcate da una divisione.
In uno scritto di apertura, situato dopo il contributo di Salvatore Luperto su Il linguaggio del tempo, l’autore stesso allude al paradosso e all’ossimoro. E naturalmente l’ironia, che ha sostenuto da sempre l’operazione di Pignotti. Un’ironia, addirittura oggettiva, che l’operatore scopre già contenuta nell’immagine senza bisogno d’altro intervento: penso alla foto scelta per il 2013, con un fulmine che centra la cupola di San Pietro (che sia un’allusione alla crisi dell’istituzione religiosa, oppure la materializzazione di un desiderio distruttivo, poco importa). Ed è significativa, fin dalla copertina, la presenza di immagini forti, di contestazione politica, nemmeno limitate agli anni fatidici del ’68 e del ’77. Sono immagini che Pignotti ha utilizzato anche in altre composizioni, specialmente nel suo primo periodo, quello della “guerriglia semiologica”. Ed è chiaro ancora oggi che nel prelievo delle immagini c’è una tendenza, c’è un detournement e non la resa all’indifferenza della semiosfera; sebbene emerga anche la consapevolezza che quelle immagini bellicose, nel mentre funzionano da “turbativa”, nello stesso tempo spariscono nello “spettacolo generalizzato” e sono riassorbite diventando l’equivalente di qualsiasi altro innocuo evento. Di qui l’ironia, che tuttavia conserva il proprio aculeo, contrariamente a quella tutta allineata e indifferenziata del postmoderno.
Insomma, recuperando e dando durata artistica al materiale deperibile del giornale, il Diario corale è costituito, appunto, da plurimi apporti, provenienti dai vari “objets trouvées”. A comporre una storia, la storia di questi nostri anni. Una narrazione per immagini, dunque? Sì, però frammentaria, discontinua, desultoria (si potrebbe dire “per allegorie”). Pignotti stesso s’interroga: «Romanzo, antiromanzo, non romanzo?». Diciamo: un diario molto originale e molto impersonale, anche. Nell’epoca dell’autobiografismo dilagante, un diario che mima il narcisismo (il nome dell’autore è dappertutto), senza però confessare nulla ed esprimendosi invece mediante estimità, attraverso la valenza semiotica dei segni, compreso il loro carattere estetico e il loro indice temporale.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: