GIUSEPPE GUGLIELMI

POESIA E POLEMICA

 

Giuseppe Guglielmi è il fratello, il maggiore, dei due critici Angelo e Guido. È stato autore di poesia e molto attivo traduttore dal francese. Pur essendo incluso nell’antologia fondativa del Gruppo ’63, Guglielmi è rimasto abbastanza ai margini del movimento, ed è stato sostanzialmente dimenticato. La sua figura è invece importante nel panorama dello sperimentalismo italiano che stiamo tracciando. In particolare Guglielmi si segnala per la carica polemica dei suoi versi che vanno a colpire, con grande lucidità, la questione nodale della mercificazione del linguaggio. Ma cominciamo a riportare un suo testo-campione che s’intitola La lingua rubata, datato 1962 e compreso in Panglosse:

Si va dal niente al niente passando dal niente
albero scure coltello in tutto ubbidiente
al buio abbietto all’io che c’ingola
della poetica della parola.
De aestu libidinis dal fuoco il sacro
e l’osso duole. Potere indurci a ragione
potere come si vuole
negare ogni spessore d’errore,
suono e sintassi nei sargassi
del mio e vostro sotto,
romper di scatto l’antica prigione
l’interior vitae il buio l’occasione
che ci fa macro il corpo del reale
e poi mortale il sacro l’accesso
privato alla vuota dipintura
del foro insensato,
fu dura impasse degli anni cinquanta.
Qui il morto decennio in tutto ci agguanta
a un nulla in pugno di ben pochi poemi
ancor nell’ottica questi del sublime,
vedi un corto libello in rime
scarse con l’e commerciale
ma consapevole questo il commerciale
e amaro quello il libello
come l’abbraccio professionale
alla decima ora salariale
(riportato da Marx per gli ouvriers del ’44,
l’ora della prostituzione dicevano
quella da cui le mogli e le figlie…);
il cielo della mente a solo obbietto
è l’eros osceno dell’intelletto.
Con l’e commerciale ma ancor viscerale
senza passar in eresia,
senza passare andare o fornicare
per figura nessuna di storia o sociale,
il vuoto significava significar la poesia.
Poi infine il trapasso e fu il decesso
per molto ancora illegale,
quasi un cadavere virtuale,
immoto lo sfondo intellettuale
nel tutto tondo dell’antico complesso.
Franar di lingua è dire di non dire
sciolta che sia in teologico fasto
d’agonia
(sacre strutture fioriscon nel segno).
Oscuro servivo il mito e in puro sdegno
il vero il capitale
per la mia lingua che l’impingua il capitale,
in condizione di sempre maggior
dipendenza da tutte le oscillazioni
di prezzo e di mercato
(c’è una lingua e anche per lei un mercato),
io inconscio buio tribale per numero
d’anni non male
io sull’orlo annientato del niente.
Non ero per servire che lo stesso
nemico
quale qui tutto contraddico
per la mia morta vita che è morta
e non è morta
per la mia vita in buone stampe andata
per la mia povera lingua rubata,
commento dolente del ragazzo non male
di giusta afasia, buon custode del niente
buono all’etica della poesia.

La polemica di Guglielmi si rivolge contro un’intera epoca: gli anni cinquanta, gli anni dell’«impasse», il «morto decennio». Quindi contro l’immobilismo culturale, il moderatismo e la conservazione. L’uso del latino e la conseguente assunzione di un tono sacrale vuole ironizzare appunto la persistenza del dogma e di una casta intellettuale sopraelevata, oltre che, naturalmente, della ideologia religiosa (che l’autore affronterà direttamente in un altro testo, Proverbi romani, prendendo di mira la «folla cristiana ororinante» ). Di questo decennio depresso fa parte, per forza di cose, anche la letteratura, in cui persiste la vecchia tendenza alla elevazione nel «sublime», sebbene non manchi il rilevamento dell’aura tecnologica delle nuove semiotiche: non a caso Guglielmi scrive – tra parentesi, ma qui la parentesi è un indicatore di importanza, perché lo sperimentalismo dà rilievo al tassello inserito a forza – scrive, dunque: «(sacre strutture fioriscon nel segno)», modificando le sacre scritture in ironico elogio dello strutturalismo avanzante. Insomma, parola diretta, invettiva che stigmatizza pesantemente (il «buio abietto», l’«eros osceno», il male, l’agonia, ecc.) e insieme la parola camuffata (sia pure in modi abbastanza decifrabili) dell’ironia e della parodia; con il risultato di un’«acre satira», come dice Curi.
La polemica di Guglielmi si pone come risentimento etico (l’«etica della poesia», enunciata nell’ultimo verso), ma soprattutto espone il desolato panorama di una consapevolezza radicale, ossia la consapevolezza dell’invasione del mercato e della logica del capitale fin dentro ai gangli della vita quotidiana. Da cui lo “sdegno” per la prostituzione, reale e metaforica, ribadito anche in un altro componimeto-chiave della raccolta, La coscienza infelice. Di questa consapevolezza è indice anche la ripetuta autocitazione del «libello» con la «e commerciale» che è la prima pubblicazione dell’autore, Essere & non avere, del 1954. La «e commerciale» nel titolo è appunto l’indice di una ormai avvenuta economicizzazione del mondo, nonché la negazione di qualsiasi illusoria contrapposizione dell’essere all’avere (e viene preventivamente stoppata la domanda retorica di Fromm). Quando scrive – ancora tra parentesi, ma in lapidaria sentenza – «(c’è una lingua e anche per lei un mercato)», Guglielmi è in anticipo (a meno di contatti a voce che non conosciamo, oppure a meno di ritocchi sulla data di composizione) anche sulla teoria di Ferruccio Rossi-Landi del linguaggio come lavoro e come mercato, che farà la sua prima comparsa solo nel 1965. La semiotica materialista di Rossi-Landi, cui ho accennato nel primo capitolo, nel suo corto circuito di produzione e discorso è assai vicina a questa lingua rubata di Giuseppe Guglielmi, “rubata” nel senso di espropriata, o meglio sfruttata, in un meccanismo che, volendolo paragonare al pluslavoro dell’operaio, potremmo chiamare di “plusparola”. Del resto, basterebbe il nome di Marx in una poesia a consentirci di indicare una tendenza prosaica e antilirica.
Domandiamoci però adesso: quale sperimentalismo? La consapevolezza del fatto che la comunicazione è in mano al capitale, porta in un vicolo cieco: non si può parlare, infatti, senza impinguare il capitale linguistico e quindi senza soggiacere all’alienazione linguistica. L’unica soluzione è ridurre a zero il senso, cioè il valore del prodotto. Ecco perché il testo si apre e si chiude sul tema del «niente». «Romper di scatto» i serrami della prigione vuol dire sconfinare nella «giusta afasia». L’unica soluzione è l’annullamento del significato, lo svuotamento della comunicazione. E il “niente” può essere prodotto anche attraverso l’uso di una vuota forma. Si comprende, allora, la pratica della rima: questo uso delle rime, sebbene non regolare, tuttavia insistito, che ha un valore prettamente parodistico. E parodistico tanto più quanto più ravvicinata è la rima, come nelle frequenti rime baciate (niente/ubbidiente; ingola/parola; prigione/occasione; cinquanta/agguanta; perfino sublime/rime; ecc. ecc.); o addirittura nelle ravvicinatissime rime interne: «negare ogni spessore d’errore, / suono e sintassi nei sargassi» (dove per giunta la rima con «sargassi» serve a ridurre la «sintassi», ovvero la costruzione stessa del periodo, a una buffa eco sonora). La metaletterarietà è qui diffusa e profonda, in quanto il poeta non può più dire altro che la mercificazione della poesia e quindi l’impossibilità del suo stesso dire: perciò è esplicitamente provocatoria. Non rimane che esibire la propria contraddizione, anche in questo caso con ossimori basilari: « qui tutto contraddico / per la mia morta vita che è morta / e non è morta». Ma del resto, la contraddizione funziona da allegoria di un sistema economico e simbolico intrinsecamente contraddittorio.

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