GIOVANNI FONTANA

DELLA POESIA SONORA E VISIVA

Una raccolta poetica di Giovanni Fontana è un libro da leggere con tutti i sensi desti, poiché chiama a collaborare diverse forme artistiche, com’è naturale, essendo l’autore uno dei capofila dell’esperienza sonora e verbovisuale in Italia; la sua opera non potrà che essere interdisciplinare, multimediale e sinestetica. Frammenti d’ombre e penombre, questo il titolo del recente volume edito da Fermenti nella collana “Controsensi”, con una introduzione lucida e partecipante di Mario Lunetta, restituisce sul supporto cartaceo i testi di un evento performativo realizzato a Pavia nel 1999. Anche scritti, i testi recano traccia della loro vocazione alla scena e della loro destinazione “per voce”: le parentesi, le frecce (che si muovono in tutte le direzioni), gli svariati segni di divisione, che vanno dalle normali barrette ai più inusuali spazi puntinati (░), li dobbiamo decifrare attentamente come indicazioni di tonalità e di intonazione, di timbro e di grana. Del resto, chi anche solo una volta ha ascoltato Fontana dal vivo, potrà reimmaginare i versi sulla pagina come se fossero eseguiti dalle molteplici facoltà della sua voce, ora stentorea ora sussurrante, ora sibilata come frusta e ora mancante nel bisbiglio. Ancora in quest’ultima raccolta troviamo ben vivi i caposaldi dell’esperienza verbovisiva, l’esaltazione delle potenzialità sonore, accentuate mediante i procedimenti di spezzatura (la divisione del corpo verbale, secondo quello che Barilli ha chiamato il viaggio al termine della parola) e di prolungamento di alcuni tratti fonematici all’interno della parola stessa. Magari spezzatura e allungamento insieme, ad esempio: «come sbannn → / dar di ciechi → tra cannn → / ti mennn → tali» (cito dal componimento n. 33). Né può mancare l’uso onomatopeico: nel caso del componimento n. 2, troviamo monosillabi presumibilmente anglofoni posti a mimare un calpestio di cavalli («step clump step clump / clump step clump step clump», e via di questo passo). Fontana, insomma, mantiene inalterata la carica vocale della poesia sonora e ne fa scaturire tutta l’implicita utopia di un significante liberato della schiavitù del significato.
Ora, l’operazione, anche solo per il fatto di venire trasposta dall’hic et nunc performativo alla permanenza dello scritto, sviluppa il livello uditivo in un livello visivo. Quella di Fontana è pienamente una scrittura in vista (per usare il titolo dell’ultimo libro di Marcello Carlino che, tra l’altro, dedica all’opera di Fontana una delle letture finali). Visivi sono non solo i segnali che dicevo (una sorta di nuova e creativa marcatura o punteggiatura sonora), che già obbligano a una lettura particolare, tale da trasformare la scrittura in uno spartito. Vi è inoltre la dislocazione dei testi, la composizione direi “mallarmeana”, che crea mediante la spaziatura dei versi svariatissime e curiose figure d’ogni tipo. A ciò contribuisce anche la singolare conformazione ad album della collana, che per altro ha la regola di ospitare in ogni volume, accanto al testo poetico, il contributo grafico di un artista: questa volta, una tantum, non si è dovuto cercare lontano perché i due ruoli coincidono e insieme ai testi linguistici si presentano  le tavole di poesia visiva dello stesso Fontana. Le quali, poi, sono collage ottenuti con frammenti verbali ritagliati e linee oscillanti di un precario rigo musicale che in tal modo riconducono, in una sorta di circolarità sinestetica senza fine, al momento sonoro. Da un lato, l’uditivo rimanda al visivo (in quanto è proprio la struttura di ripetizione – su cui poi tornerò – a determinare gli incolonnamenti dei versi) dall’altro lato, il visivo rimanda all’uditivo (così nel rinvio alla notazione musicale delle tavole e dei brandelli figurativi interpolati negli spazi lasciati liberi dai testi poetici).
Tuttavia, per quanto i fondamenti dell’esperienza verbovisiva vengano confermati e soddisfatti, c’è qualcosa di più e proprio questo qualcosa di più rende particolarmente interessante e significativa l’attività recente di Fontana. Vorrei sottolineare innanzitutto il plurilinguismo lessicale che annovera, oltre agli apporti delle lingue straniere – naturali per un performer in giro per il mondo – anche quelli del dialetto e della lingua antica, che sono molto meno usuali nel dizionario delle avanguardie. Tali apporti fanno consuonare i testi di Fontana con sperimentazioni come quelle della Terza Ondata che, alla fine del Novecento, hanno recuperato le lingue in via di sparizione (tale il dialetto, ma anche la lingua letteraria che, ormai, non è altro che un dialetto la cui comprensione è limitata a gruppi ristretti) come corpo contundente da lanciare in faccia al processo di impoverimento della “lingua di plastica”. Qui già comincia a delinearsi la tendenza “conflittuale”, che anima i testi più recenti di Fontana. La funzione polemica della lingua poetica, il suo vitalismo vocale che assume forma e impeto di invettiva («ora t’accocco l’invettiva», dice il componimento n. 24; e rincalza il n. 30: «accocca l’invettiva e stocca»), per cui la felicità infantile della libera fonazione si converte in attacco contro la lingua dominante e il suo potere persuasivo, in realtà stato di ricezione inerte e depauperamento espressivo.
Da questo lato, la creatività sinestetica si mette al servizio di una funzione critica. E il tono dell’espressione pulsionale si converte in rovesciamento sarcastico. Giustamente, nell’introduzione, Mario Lunetta parla di «riso irrefrenabile» connesso all’«ira» e alla «rivolta». Qui, naturalmente, i significati devono tornare a coagularsi intorno agli oggetti della riprensione e la poesia opera, semmai, a forza di figure “peggiorative” («senti il tiggì che sventola bandelle insulse / e spalma cerone sui come e sui perché del bordello globale»; cito dal componimento n. 8); mentre il gioco, dal canto suo, sperpera ben riconoscibili nominativi prepotenti (così il componimento n. 13: «buratti e bbuffalmacchi & blastemànno… e non sai bene se ber lucconando in pomate e ciprie o ber liccando», dove si parla anche di «cretinèzie» e di un «petto d’oppio», palese allusione a un famoso “doppio petto”; cui rincalza il n. 21 con un insolente «berluscazzo»).
La presenza del tema corporale è implicata per la sua natura stessa nella pratica performativa, visto che essa si basa sull’espressione dell’intero corpo del poeta. Lo stesso Fontana lo ha sottolineato in un suo recente studio critico dedicato a queste aree di sperimentazione (Poesia della voce e del gesto), in cui afferma, tra le altre cose, che «la Poesia Sonora si richiama al corpo come realtà primigenia e ultima, occultato, malgrado frequenti pentimenti, dalla letteratura poetica corrente. (…) Il corpo si riscopre come il solo luogo in cui si opera l’incontro tra il linguaggio e il mondo». Ma qui il riferimento al corpo scivola con tutta evidenza verso il tema economico, per forza, in quanto ormai le vicende del mercato mondiale si scrivono ben dentro la nostra pelle, la nostra vita e la nostra sussistenza fisica. Può essere interessante notare come proprio quel componimento n. 2, che procede per zoccolio onomatopeico come scherzo a suggestione equina («step clod clog cob», ecc.), sia poi interpretabile – assai seriamente, allora – in base alla premessa di un corsivo che parla di «recessione» e di «inflazione»: come dire che “i cavalli siamo noi”, ormai addestrati e incolonnati nel dressage del cammino cieco della società dei consumi.
Aggiungo una notazione non di poco conto riguardo alla questione dell’io. L’io è ormai divenuto immancabile, non solo nel senso comune poetico di una poesia che si fa sempre più valvola di sfogo del vissuto, ma proprio in quel linguaggio standard che è la koinè mondiale della poesia. Invece, nei testi di Fontana, che ha ben assimilato la “riduzione” delle neoavanguardie, l’io è praticamente assente: rigorosamente, come vuole la pratica verbovisiva, l’io è l’operatore che sta al di qua dell’operazione (è sulla scena ma non nel testo). Là dove l’io emerge è in funzione metapoetica e allora dice quello che sta facendo («io sciolgo legami funzionali / acciunnolato spiango e spiano sotto le voci», componimento n. 30); oppure si ribalta in uno svuotamento autodenigratorio e si dichiara «fantoccio sghembo», «aborto floscio», «un disastro davvero» (componimento n. 21); o ancora prende a carico del soggetto la carica contestatrice dell’invettiva. In ogni caso siamo sempre ben lontani – per fortuna – dalle melense atmosfere della confessione lirica.
Il titolo del libro nonché spesso e volentieri i titoli dei singoli brani rimandano alla cifra del “frammento”. Segno di un mondo fatto a pezzi e di un processo non di ricomposizione, ma di esplorazione dell’infranto. E sappiamo bene, con Benjamin, quanto la frammentarietà sia propria dell’allegoria moderna. L’allegoria, come ora ci torna a spiegare Carlino nei lucidi saggi di Scritture in vista, possiede un evidente richiamo alla “figurazione” delle immagini e quindi al senso della “visività”. Così scrive Carlino: «Anche l’allegoria espone le figure al racconto e concretizza, visibilizza le parole (complicandone e arricchendone la diatesi), concettualizza le catene di immagini (distraendole dalla loro funzione usuale)». L’incontro tra “verbovisualità” e “allegoricità” è pertanto un incontro obbligato. E allegorica la poesia di Fontana lo diventa soprattutto per il suo traliccio ritmico-gestuale. A differenza di altre esperienze sonore dove il suono valeva per se stesso, come “suono puro”, qui assume senso in una struttura di ripetizione (una costruttività poematica) sorretta dall’impulso ritmico. E tengo a precisare: malgrado il recupero di forme tradizionali come la rima e come certe misure metriche, la ripetizione non ha mai esito d’ordine, quanto piuttosto si mantiene fedele alla provvisorietà dell’impulso, risulta essere una matrice di disordine, la traccia di una irruzione somatica. Così la metrica misurabile è inglobata e travolta nella libertà del ritmo, ogni volta mutato da testo a testo e nello stesso testo. Uno dei risultati a mio avviso più significativi in tal senso è il componimento n. 20, in cui i versi sono perfettamente inquadrati, all’inizio dall’anafora (che ripete per ciascuno e spesso anche all’interno un enigmatico “che”, rinviante a un verbo sottinteso) e alla fine dalla rima tronca in “e”, nonché da svariate rime interne. E tuttavia – cosa che rende anche un bell’effetto visivo – i versi sono sempre più brevi e decrescenti nella lunghezza. Il tutto marcato da parentesi aperte che non chiudono e che lasciano in sospeso l’andamento, fino alla fine. Vale la pena di andare a vedere, mettendo a confronto i primi tre versi con gli ultimi tre:

(che gli abuticchi non brucino (che grumi scabri di coscienza (che un velo d’unto (che  un punto segni aggiunto l’estro del cuoco al buffet

che il fuoco frulli (e sfrigga e i rognoni dello spirto (che in bilico i carboni (sublimati sulle ceneri (profilino sbaleni (che sguizzino (flambè
(che sfriccichino in braci (che sfumino per rime e fiati (in sogni separati (che inzugliano (nell’umido (le [agricole vaganti (au vin brulé
(…)
(che succulenti (quei sacrifici (quali portenti (come in conturbamenti alé-alé
(che quel poema del cuore (che s’incanti (che canti qui (dove è tutto per te
(che schiarisce all’alba (che consuma i ceri (così com’è nei cimiteri

Dopo questo esempio di sequenza incalzante e dopo quanto riportato dalle analisi precedenti si può tornare a riflettere su un altro elemento del titolo: le ombre (e penombre). E non è soltanto il titolo: a leggere attentamente, ci si accorge che l’“ombra” è onnipresente e viene menzionata soprattutto nella parte finale dei componimenti, spesso nell’ultimo o nel penultimo verso (non diventerà, per questa posizione penultima, una “penombra”, appunto?). In molteplici accezioni, sia come elemento di vivacità che come momento di oppressione. Che cosa rappresenta l’ombra? Intanto, direi che l’ombra nel suo continuo cambiamento tiene fede alla sua caratteristica polimorfa. Inoltre, il ruolo ambivalente dell’ombra si può ricondurre, penso, all’ambivalenza stessa del suono: il suono-segno è l’ombra della cosa, la sua parte apparentemente secondaria e tuttavia non meno reale. In esso si apre lo spazio di libertà di un uso autonomo e svincolato, ma anche la pesante coltre di un tessuto che invade la vita con le dimensioni dominati della sfera comunicativa. E questa contraddizione mi sembra indicata dallo statuto intermedio e doppiamente incerto delle “penombre”. Proprio qui si situa la novità e l’importanza del lavoro recente di Fontana. Dopo aver ricapitolato nell’ampio volume su La voce in movimento (edito nel 2003 da Harta Performing & Momo)  tutte le principali direzioni “storiche” delle operazioni verbovisive, ora proprio la vocazione al “movimento” conduce l’autore oltre gli steccati di genere ad un allargamento che contempli il confronto con i feticci e i poteri della semiosfera (e quindi con le concrezioni dei significati) abbandonando ogni illusione di innocenza ludico-infantile e ogni delibazione puramente estetica della sonorità. Ora, magari in connessione con la musica e sulla scena del teatro, la poesia sinestetica vuole giocare “a tutto campo” la sua partita con il mondo dei segni e dei valori.

(Su Frammenti d’ombre e penombre, Fermenti, Roma, 2005)
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