GIORGIO MOIO

In questo volume, Poesie sparse 1989-2008, Giorgio Moio ci presenta una parte molto rappresentativa della sua produzione e ci consente di leggerne lo sviluppo lungo l’arco di quasi un ventennio. E allora ci rendiamo conto di avere di fronte un autore caparbiamente sperimentale e decisamente inconsueto rispetto alla voga pseudolirica e veterointimistica dominante nelle pubblicazioni correnti e sui social. Si verifica questo fenomeno, solo apparentemente paradossale: quanto più la diagnosi sul presente prende atto della desolazione e della regressione culturale che toglie spazio alle tendenze e quasi ha tarpato l’ascolto alle scritture che esorbitano dal senso comune più sdato (fin dall’esergo del primo brano che riconosce: «la parola non evoca più nulla») e tanto più, al contrario della resa, il testo poetico è chiamato a manifestare il suo proprio isolamento e la sua propria stessa “impossibilità” mediante la reazione di un vertiginoso ampliamento dei procedimenti inventivi e creativi sul corpo del linguaggio.
Nessuna contemplazione ombelicale! L’avvertimento del degrado c’è tutto, magari in parodica storpiatura («mare nostrum / che sei nella merdum») così come c’è tutto lo “stato di emergenza” che ne deriva, certificato dal particolare risguardo dell’osservatorio napoletano (sicché, ancora in parodia: «“ah, ca bella munnezza / sulo a Napule ’a sapimmo fa’»); senonché, a differenza degli scrittori impegnati che si attestano sul realismo fotografico del reportage o sulla reprimenda morale, Moio accompagna la denuncia del male con una «lingua slinguata» – così la chiama l’autore – infarcita di parole difformi, modificate, tormentate nel loro significante, «le parole / che fanno / vedere le / parole / che non si / vedono».
L’intervento di manipolazione verbale è talmente vario che l’elenco rischia giocoforza di essere manchevole e tuttavia vale la pena almeno di provarcisi. Abbiamo dunque:

– trasformazioni della grafia: “k” per “c”, “y” per “i”, “j” per “g” o per “i”, “x” per “s” (tipo «nel byancore koatto»);

– aumento espressivo («nel veeennntooo», «in sileeeennnziooo»);

– giochi di parole come cambi di vocale («solo la senna / il senno / il sonno»), ricombinazioni di sillabe («come una volta divise / vidìse & sidìve & sanza fondo»),

rime («che skazza la mazza di razza»; «un uccello uccella dalla cella») e altre associazioni sonore;

– spezzature mediante parentesi o trattini o apostrofi («in-torno», «cer’uleo», «in(terme)inabili»);

– oppure inversamente amalgami di parole (fino a far coincidere con l’intero verso la parola ottenuta per somma: «unimagemarinariflessasulloscoglio»);

– calchi (ad esempio «putrifero», da “putrido” ricalcato su “fruttifero”) e parole valigia («prodigioioso», «bisbisbisbigliorio»);

– plurilinguismo, con l’utilizzo insieme all’italiano del dialetto e lingue straniere vive e morte («un omme ha la tête cousue / a wommen staare att the skyy / porta i segni della sciagura / (’o linguaggio d’ ’e muorti) / arpiona il fhanthasmha»), in una tendenza generale alla mescolanza e alla contaminazione;

– l’uso anomalo della punteggiatura, in particolare del punto fermo anticipato alla parola; inoltre di barre o di frecce che contribuiscono a dare l’impressione di uno spartito musicale (tanto che c’è un brano intitolato Come uno spartito musicale).

Poi, si trovano molti procedimenti che portano verso una valenza iconico-visuale: calligrammi, differenti corpi di stampa, incolonnamenti verticali, per arrivare – soprattutto nella seconda metà del libro – alle vere e proprie tavole verbovisive e alle composizioni miste che contengono di tutto, parole e immagini, scritte girate, oblique, dentro cornici e quant’altro. Sono i brani che più riconducono alle tracce dell’avanguardia e non vi cadono casuali le menzioni di Emilio Villa e di Lamberto Pignotti.
Per il vero, Moio sembra rifiutare l’eredità dell’avanguardia: «Bisogna fare tutto d’accapo / l’avanguardia è morta: / di sostanze e fibre nuove abbiamo bisogno». Ma lo fa, come si vede dalla pur veloce citazione, non per adattarsi a vie comode alla retromarcia, quanto piuttosto per non essere ingabbiato in schemi precostituiti.  Ed effettivamente sia rispetto al futurismo sia anche alla “poesia tecnologica” è venuta a cadere qualsiasi sicurezza di trovarsi garantiti dall’onda del progresso; semmai è il contrario: l’odierno poeta sperimentale sa bene di stare remando controcorrente, non già per tornare indietro con improbabili nostalgie, ma per contestare la giustezza dell’avanti che il corso della storia ha preso. Una avanguardia dei tempi “bassi”, una cata-avanguardia, mi è occorso di dire. Nella quale la tendenza – che pure insiste – alla rottura e alla frammentazione del discorso nonché all’uso di una semantica astratta e incongrua è risucchiata in un complessivo atteggiamento allegorico spesso alluso esplicitamente dall’autore (vedi titoli come Allegoria, Fibre dallegorie, Rosa allegorica).
Operazione sperimentale quant’altre mai, che risponde al contempo a una evidente missione polemica. Nello scritto che chiude la raccolta, consegnato inizialmente all’antologia Poesia a comizio, Moio non nasconde l’impegno civile contro la cattiva politica (…). Ma altrettanto esplicitamente dichiara che, proprio per questo cattivo stato del sociale, il testo deve utilizzare tutte le vie possibili (…).
Dirà qualcuno: tutti questi procedimenti non sono gesti di malevolenza verso il lettore? Non farebbe prima l’autore a scrivere “l’occhio” invece di “lòkkyo”? Chi si crede di essere per non parlare come tutti gli altri? Rispondo che in realtà il lettore non è chiamato a un grande sforzo per riportare la grafia personale a quella ordinaria e, nel caso di una recitazione a voce, il passo è davvero minimo. Ma basta quel breve intervallo prima del riconoscimento del noto perché il lettore compia una riflessione: se ha capito bene, può aver partecipato a quel gioco serio della poesia che Francesco Orlando ha chiamato il “ritorno del represso formale”; se gliene è mancato il gusto, quanto meno si è reso conto di essere in presenza di un linguaggio diverso, ha capito che si può poetare in “altro modo” (De otro modo, diceva García Lorca). Oggi si parla tanto della “differenza”. Ebbene il linguaggio di cui qui si discute non fa altro che portare alle estreme conseguenze la diversità della poesia, senza adattarla a essere il semplice ripetitore accodato alla retorica di diversità sociologiche già confezionate e standardizzate.

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