ANDARE AVANTI GUARDANDO INDIETRO
Non è stata mai in forse l’adesione di Giorgio Manganelli nel Gruppo 63, per quanto non abbia contribuito molto al dibattito critico-teorico e la sua fisionomia di scrittore fosse affatto particolare. Anche ragioni di età (era un po’ più anziano dei trentenni di allora) probabilmente lo tenevano “a parte”. Tuttavia, un critico di punta del gruppo come Angelo Guglielmi coglieva subito in pieno l’oltranza di Hilarotragoedia, la sua “ferocia immaginativa”, la proliferazione linguistica, la «corrente di espressività incontenibile, sradicante, travolgente». Anche Sanguineti, che pure poteva sentirsi agli antipodi, tanto era convinto della assoluta storicità di ogni gesto, compreso il più semplice ed elementare, rispetto alla manganelliana destituzione della realtà in favore della “menzogna”, però lo stesso Sanguineti dimostrò di apprezzare il “Manga” soprattutto dal punto di vista dell’esuberanza lessicale. Per altro, a ben vedere, la differenza principale di Manganelli dal grosso del Gruppo 63, non risiedeva tanto nell’irrealismo, perché in fondo poteva benissimo andare d’accordo con la narrativa ipotetica di Malerba o con la cancellazione di Balestrini, nonché proprio con l’onirismo di Sanguineti; quanto piuttosto esattamente nel linguaggio. Una buona quota del romanzo sperimentale, infatti, puntava sul “linguaggio basso”, sul parlato o sottoparlato, come antidoto alla letteratura ufficiale. In fondo, vi si potrebbe leggere ancora una volta un legame tra l’avanguardia e l’aggiornamento: mentre i futuristi prevedevano un aggiornamento tematico, per le nuove avanguardie si tratta di fare i conti con un universo linguistico mutato, dove per altro si insinua l’alienazione, il linguaggio-merce; perciò, da un lato occorre tagliare i ponti con l’impostazione tradizionale della letteratura (realismo, minimalismo, sentimentalismo, ecc.), passare attraverso la degenerazione e la patologia della lingua attuale, anche a scopi contestativi, fino all’atomizzazione nei casi estremi (il disturbo come massima informazione). Invece in Manganelli inizia a farsi strada un’altra posizione: coglie il movimento per cui il consumo ha ormai schiacciato la tradizione e l’ha respinta in un ghetto, diminuendo di molto i suoi poteri; insomma, la cultura dominante non è più la “alta”, legata al passato, bensì proprio la cultura popolare, legata all’attualità. Ma allora, non c’è nulla di più “oppositivo” delle parole obsolete e decadute che si ribellano all’annullamento e vengono scagliate come un corpo contundente contro la lingua esistente che le ignora e le scarta. Ci si trova così di fronte a una ben curiosa avanguardia, che avrebbe indispettito Marinetti; un’avanguardia che, a scorno del suo nome, guarda all’indietro e si fa più tradizionale della tradizione e più letteraria della letteratura vigente, e non per recuperare alcun prestigio classico con nostalgia antiquaria conservatrice, ma al contrario – come ben capiva Angelo Guglielmi, – con «valore provocatorio e dissacrante». La scrittura di Manganelli si configura, infatti, come costruzione iper-retorica, per l’uso iperbolico dei procedimenti figurali; come scatenamento parodico, per l’applicazione di un imponente apparato su argomenti indecorosi; come invenzione fantastica, per la costituzione di “mondi impossibili”, extramondani e vacui (Ade, Inferno, Palude, ecc.), popolati da emergenze marginali e mostruose, da ritorno del represso; infine, come operazione “in perdita”, attività disdicevole che non può vantare radiosi Sensi con la maiuscola, ma si avvoltola nell’inferiore.
Proprio sull’abbrivio della azione di gruppo, Hilarotragoedia (1964) sancisce in modo evidente i caratteri distintivi dell’autore e la forza d’urto del suo intento. È infatti subito chiaro che si tratta di un attentato contro la narrativa e il romanzo, tanto il testo è configurato con l’impostazione argomentativa del trattato, con dotte escussioni corredate di chiose, note e postille, dove anche i residui di narratività compaiono appunto come specie di documenti aggiunti agli atti. Prosa dottissima, dove il recupero dai vecchi vocabolari si accompagna all’invenzione incontinente di neo-composti e ibridi vari:
Mi piace fantasiare l’angosciastico o catalievitante come puntiglioso degustatore di spastiche delizie, gastronomo dell’universale decesso; esperto a riconoscere vendemmie d’agonie, e annate di disperazione, giacché, si sappia, si può morire gran cru, o vinello di pochi gradi, affatturato e smorto; dinanzi a costui l’universo dispiega ghiotta estensione di leccornie disperative e luttuosi biancomangiari: colgono le colte papille la frolla delizia di un’anima sfatta, che ancora indugia alla vita e già se ne apparta; per lui la pourriture noble macera mosti di cupa estasi, aspiranti al decoro di vitrea bara verticale; e, come cane da trifola, egli sa rintracciare, infernica gourmandise, il tubero che simula il teschio del bambino, l’osso che mima la tenerezza vegetale.
Si notino il plurilinguismo, le varianti (“fantasiare” per fantasticare, “infernico” per infernale), i derivati (“angosciatico”, “catalievitante”), i composti (“biancomangiari”); e si noti l’ampiezza del movimento sintattico, l’accumulazione che potrebbe andare avanti ad oltranza. Apparato esuberante che si applica, anche in questo passo, ad argomento depressivo: il lessico della degustazione valorizza il disvalore, la discesa verso i regni dell’inutile, dell’improduttivo, dell’infimo (qui anime “sfatte” e resti di cadaveri). Non per nulla, subito in partenza, la questione si attesta sulla «natura discenditiva», trovando per la strada il prefisso “cata-“ (che Manganelli sia già “catamoderno”, secondo la formula che oggi io prediligo?).
Gli argomenti che poi il testo fagocita nelle sue spire micidiali sembrano rimandare alla temperie dell’esistenzialismo: c’è il Trattato delle angosce, con le diverse sottospecie; c’è L’inserto sugli addii, con gli abbandoni, le partenze, compresa una Chiosa sulla donna infedele; più avanti si trova anche un aneddoto con l’incontro-scontro con la madre, di elementare suggestione psicoanalitica. Ma proprio questi spunti dimostrano la volontà di tagliare i ponti con qualsiasi compartecipazione patetica del lettore. Provi pure la critica attuale versata all’autobiografismo a rintracciarne le matrici documentarie; l’autore ha già messo in guardia e dichiarato la sua riprovazione del patetismo: «Ho in odio le nasali lamentazioni autobiografiche, i corrucci lirici e allusivi». E di seguito viene la sua scelta dell’altrove:
Inospite ed irto, io vivo in una gibigianna di tetri prodigi; fuggo le voci registrate dei vivi, indugio in gutturale conversazione con i fiati biascicati, i rochi ronzii dei peluriosi imperfetti; i non nati, i non morti, i misti di vita e morte; annoto gli scricchi compitati dei sassi, le smozzicate ragioni degli insetti, raccolgo le confessioni dei vegetali agonizzanti. Amo la compagnia, tra tutte discretissima, dei morti.
Non quindi il fantastico che si insinua dentro una realtà riconoscibile, ma un fantastico assoluto, che si si situa dall’altra parte del reale, come mondo parallelo incombente. Questo “mondo impossibile”, in questo caso l’Ade, è dato soltanto come direzione della «natura discenditiva», ma di per sé potrebbe anche non esistere. Sicché, ciò che la scrittura ha posto, bene o male, al suo centro, potrebbe scomparire in una vaghezza insondabile:
Resta ora da portare un ragionevole contributo all’ulteriore, e conclusiva, domanda: che cosa è l’Ade? In primo luogo, esiste? Noi sappiamo degli angosciastici assembrati alla periferia di questa ipotesi classica; dovremo dedurne che essi hanno espliciti documenti sulla esistenza di una città o regione o luogo cui sia lecito attribuire questo nome, o non saranno costoro altro che paranoici, mentecatti, cui la nausea dello sgrammaticato universo persuase dell’esistenza di questo atroce eldorado, questo niente compatto, questo ‘no’ affermativo?
Perché il luogo-altro è il nulla. Ecco il nodo della scrittura manganelliana: la parola gioca le sue chances, sperpera, per così dire, tutte le acrobazie del suo repertorio, per dire il nulla. Di qui la tipica dialettica di apoteosi e rovina, in quanto la scrittura trionfa facendo sorgere le sue “creature” dal vuoto, ma questo successo è di breve durata, poiché i fantasmi informi così camuffati sono destinati a crollare e non rimane allora che involversi nelle deiezioni residue, in una sorta di mistica del degrado. I regni del “basso” sono popolati di animali notturni e di mostri, ogni vestigio umano viene sottoposto a indecorose metamorfosi, che qui seguiamo in una altro passo dotato di straordinaria foga catalogante:
Ma altro occorre aggiungere: gli adediretti non permangono a lungo nella forma che indossavano al loro giungere; ma la pressione, la intima creatività del luogo, li lavora, ritocca, modifica e sostenta di sangue nutritivo e fantastico. Anche, li consuma. Ecco creature gíà uomini e donne: ma ora cosiffattamente lavorati come sasso per acqua, che appena ne resta un appunto di spina dorsale, una quintupla fosforescenza nell’aria fa loro da mani. Ecco una grafia nerobianca per l’aria tener luogo di anima; e passeggiare un ideogramma che fu uomo di impetuosi e vanissimi amori. Ecco orecchie deformate a larghi imbuti di vetro, manovrate a cogliere i sussurri dell’Ade; o avviluppa taluno una efflorescenza di esteriori minugia, sulle quali si aprono palpi a cogliere bacche e insetti; o le gambe si dicotomizzano via via, così che alla fine vedi frullare disco di uomo tra sassi e dirupi; altri allunga e disossa la magrezza delle braccia, altri delle dita: si fa prensile e sedentario, manovrando le disarticolate membra cattura il cibo, gioca dadi di sasso, gratta-ove sia acqua o sperato accesso agli inferi. Altri si disfa come sorbetto buttato in tempo estivo su asfalto bollente; ed una gran pozza fuma per anni, in cui resistono due sfere di occhi, senza più palpebre; ad altri la bramosa labbia s’ingrugna, e s’ingrifa, e spacca, e ne fuoriesce una folle grazia di zanna; altri si illeggiadrisce di membrane le ascelle, come uccello inefficiente: e ad irrisione dell’attesa gli sventola il vano remeggio. Di molti, quasi nulla rimane: un’unghia con traccia di sangue mai risecco; una palpebra che vibra a cercare occhio da velare; una falange saggia di mummiosa senescenza; un dente infitto in un ombelico, l’uno e l’altro buttati in un canto di una vuota caverna, o librati a mezz’aria.
Una molteplicità di sfigurazioni. L’altrove non è che una zona di transito, dunque adatta agli incroci, abitata da segni meno, i morti e i non-nati (la Storia del non nato è uno del maggiori pezzi di bravura del libro). Il procedimento retorico manganelliano per eccellenza sarà l’ossimoro, ne abbiamo visti gli effetti nel passo citato prima di questo ultimo («atroce eldorado», «‘no’ affermativo»); l’ossimoro e la contraddizione.
«Io non posso tener discorso di me senza che in due batter d’occhio tutto sia piombato nella più inestricabile contraddizione»: così dice il narratore all’inizio di quella parte, verso la fine del testo, che tratta del Disordine delle Favole. Qui si mescolano vari personaggi del repertorio fiabesco classico (Biancaneve, Cenerentola, il lupo) e tutte le loro proppiane “funzioni”. Non è strana questa predilezione sperimentale per lo scritto arcaico della favola (che ritroviamo in Malerba e anche in Germano Lombardi; per Manganelli, poi, farà testo il Pinocchio: un libro parallelo): il rifiuto del ricatto del referente, per cui c’è un contenuto da esprimere prima che la scrittura cominci, fa sì che si possa andare a riprendere lo “schema” più antico ed elementare che ci sia, con tutta la sua profondità antropologica, e la sua posizione “dal basso” rispetto alle pretese fondative del mito. Una riscrittura, poi, che potrebbe far pensare a una parentela con il postmoderno. Non posso qui dilungarmi su una questione che è stata spesso avanzata dagli stessi neoavanguardisti (con dichiarazioni del tipo “eravamo già postmoderni”). Mi limito a osservare che, per quanto Manganelli possa coincidere con l’ottica della “fine della storia”, non ne deriva, tuttavia, alcuna scorrevole e felice riproduzione. Le sue favole sono in “disordine”; e ciò che vi è problematico è nientemeno che il ruolo del narratore, che non riesce a raggiungere alcun confortevole e tranquillo collocamento. Non si tratta quindi del “non c’è più niente da raccontare, solo da riscrivere”, ma ancora una volta di un patrimonio che viene sottoposto all’instabilità, con un vertiginoso incalzare di incertezze:
Presi coscienza di un fondamentale disaccordo, una incapacità di acconciarmi al mio rapinoso destino. Intanto, era chiaro, la confusione era superiore al livello economico. Un certo margine di oscillazione era sempre stato tollerato, e la versatilità incoraggiata: ma nel mio caso si era andato oltre ogni limite di convenienza. Che nel giro di una settimana mi toccasse essere vampiro, padre nobile, matrigna assassina e ammazzata, ragazza virtuosa avvelenata, rospo con anima di principe, serpe innamorato di principessa, principe con animo di orango, tutto ciò era oneroso, sciocco, dispersivo. Ero un buon rospo, un serpe discreto, una mediocre ragazza virtuosa, come vampiro ero di una intollerabile retorica, ero una matrigna da infima filodrammatica. Quando avevo per le mani fatture venefiche, o ammazzavo una casata o causavo niente più che impacci alla digestione; e di qui venivano imbrogli, scambi di parti, il caos di una serie di copioni sconvolti, e da riordinare. Mi capitò inoltre di aggravare queste confusioni oggettive con altre che direi soggettive: mi innamorai di un drago, sbagliai bicchiere e mi avvelenai da me stesso, amai per sentito dire una principessa che ero io in una precedente edizione. Tutto ciò è grottesco.
Il regno dove tutto deve essere a posto (il Bene qui e il Male là) è preda degli scambi peggiori. Ma è tutta Hilarotragoedia a essere contraddittoria, a partire dal suo titolo che unisce positivo e negativo; e a essere costruita sulla congettura e sull’ipotesi, tant’è vero che l’ultima parola è proprio «ipotesi:» seguita dai due punti, che lasciano in sospeso il discorso sull’orlo di possibili prosecuzioni infinite. In un testo fatto di pezzi, aggiunte, corollari (in questo perfettamente in linea con il “montaggio” sperimentale), predomina la digressione, lo scivolamento verso l’imprevisto, a scorno dell’«innervosito lettore» e quindi ben lontano dalla logica della “leggibilità”. Sarà proprio Manganelli a sostenere contro Moravia la validità dell’illeggibile. L’intervento esce su “Quindici” del marzo-aprile 1968 a un passo dal fatidico maggio; e Manganelli (oltre a riassumere con grande lucidità i tratti della sua poetica personale) appare del tutto schierato su un discrimine netto, secondo la logica della tendenza alternativa. Val la pena sentirlo:
Sono ormai generazioni che le due schiere si fronteggiano, si misurano, con varia fortuna si contrastano. Da una parte, la letteratura che il Moravia definisce leggibile e giudica valida; una letteratura che si suppone, ahimé, non senza ragione, “umanistica”, che trae ispirazione “dalla vita”, che teorizza la propria affabilità e non di rado s’immagina o si propone di dar opera al miglioramento dell’umanità. Caratteristica minima della letteratura leggibile in questa interpretazione è la più radicale, e forse lievemente patologica mancanza di ironia.
D’altro canto, esistono scrittori che non coltivano una programmatica affabilità; non lusingano il lettore, anzi non senza protervia aspirano a inventarselo da sé: provocarlo, irretirlo, sfuggirgli; ma insieme costringerlo ad avvertire, o a sospettare, che in quelle pagine oscure, velleitarie, acerbe, in quei libri faticosi, sbagliati, si nasconde una esperienza intellettuale Medita, il trauma notturno e immedicabile di una nascita. Il loro lavoro letterario si concentra su di una tematica linguistica e strutturale; domina la coscienza dell’atto artificiale, anche innaturale della letteratura; e si celebra la fastosa libertà, l’oltraggiosa anarchia dell’invenzione di inedite strutture linguistiche. Discontinue schegge di retorica, coaguli linguistici inadoperabili per compiti di socievole sopravvivenza, infine, carattere supremamente distintivo, una lingua letteraria improbabile, fitta di citazioni, anche maniacale; una lingua morta. Non è letteratura affettuosa, non accarezza i cani, in genere non svolge compiti missionari.
Dunque: “andare avanti guardando indietro” è una configurazione anomala dell’avanguardia. Ma dimostrerà la sua efficacia e attualità in anni successivi, tra Ottanta e Novanta del Novecento, nel movimento di alcuni autori allora emergenti (si possono fare i nomi di delli Santi, Sproccati, nonché del gruppo KB con Ottonieri, Frasca, Durante e Frixione) che daranno vita a una piccola stagione oppositiva non sfociata in una compagine vera e propria, tuttavia contrassegnata proprio dalla ripresa della lingua del passato come contraccolpo sull’impoverimento del codice presente.
Né forse è secondario che oggi a Manganelli si rivolgano gli interessi di critici giovani di buona volontà e di ottima levatura. Guardare indietro: era il gesto dell’angelo di Benjamin, trascinato dalla tempesta della storia; ed è certo una posizione innaturale, alquanto rischiosa, non è certo quella del condottiero dotato di baldanza trionfalistica. Ma il valore critico della letteratura sta proprio nell’abbassare le pretese e le illusioni salvifiche, comprese le proprie.