GERMANO LOMBARDI

GERMANO LOMBARDI E L’ANTIROMANZO

Potrà sembrare che Germano Lombardi, malgrado la sua inclusione nel Gruppo 63, non rientri nella categoria dell’antiromanzo per nulla o comunque molto poco, essendo – come si suol dire – un “narratore di razza”. Ed è vero che i due modelli dai quali sono partito per questa ricerca (il romanzo che si fa sotto i nostri occhi, prototipo il diderotiano Jacques; e lo sproloquio della voce narrante, prototipo il dostoevskiano Sottosuolo) non riescono a contenerlo e anche il problema del “mondo impossibile” (tipo Manganelli) appare estraneo a Lombardi, poiché nelle sue pagine i luoghi sono reali e verificabili, gli eventi storici corrispondono alle date puntigliosamente dichiarate e non è assente la possibilità di autobiografismo. Allora? Allora, non di meno, c’è qualcosa di anomalo alla base della narrazione lombardiana, qualcosa che recalcitra d’altra parte allo schema di fiction. Precisamente, secondo le diverse fasi che adesso affronteremo, qualcosa di meno e qualcosa di troppo. In ogni caso, per difetto o per eccesso, Lombardi sottrae sempre all’“indiscrezione” del lettore il nocciolo essenziale. A dirla in estrema sintesi, la “beatitudine” (la Beatrix) del reale appare solo per scomparire, oppure risulta deludente. Dopo un po’ il lettore di Lombardi capisce che non raggiungerà nessun porto, semplicemente perché la navigazione è infinita. E capisce che il vero contenuto non è affatto quel quid che veniva cercando, bensì la ricerca stessa e il suo percorso plurale, aperto e contorto.

La prima fase, che si svolge negli anni Sessanta in sintonia con le esperienze delle nuove avanguardie, potremmo collocarla sotto il segno della “reticenza”. Il narratore riduce al minimo la sua ingerenza e si interdice l’interiorità dei personaggio, limitandosi a una “focalizzazione esterna” fondamentalmente descrittiva di corpi, di gesti e di cose. Non senza un riverbero della francese École du regard, l’organo principale della narrazione è lo sguardo. Il testo procede invariabilmente al ritmo dei “c’è”, “si vede” (oppure: “c’era”… “si vedeva”), ovvero seguendo mere constatazioni oggettive, principalmente visive. Barcelona, il romanzo-cardine di questo primo periodo, funziona così fin dalle prime pagine:

C’era una luce riflessa e tutto era opaco: i pali e i fili, le macchine in parcheggio, in bilico fra il bordo sopraelevato del marciapiede  e la strada, e spento l’impianto al neon, proprio di fronte a lui, con scritte rosse e azzurre, accanto all’insegna gialla di un caffè. Si vedeva la vetrata e il battente di metallo e i basamenti di ferro smaltato; un solo lumino acceso in alto, sul soffitto, una piccola lampada, i tavoli e le seggiole accatastate.

A chi appartiene questo occhio? È evidente che, quando indica – perfino in un suo titolo – quanto “si può vedere”, il narratore si mette nella prospettiva di un personaggio. Anche nel breve brano riportato, la precisazione «proprio di fronte a lui» suggerisce che il personaggio è nella posizione giusta per vedere quello che vede il narratore. I due punti di vista si avvicinano. Ma questa coincidenza, se aggiunge un po’ di soggettività al narratore, nello stesso tempo trascina il personaggio verso l’impersonalità. Lo vediamo in una scena che – senza bisogno di scomodare la psicoanalisi – diventa rivelatrice; è quella in cui Giovanni Zevi (personaggio protagonista, sia pure non assoluto, della prima fase, né mai abbandonato del tutto) si mette davanti allo specchio, ed ecco che il suo stesso corpo gli si mostra come fosse visto da un estraneo:

Giovanni si sfilò gli slip. Fissava la sua immagine nello specchio, vedeva sotto la pelle il gioco dei muscoli della braccia bianche e chiazzate da piccole macchie ancora più bianche. Ce n’erano tre anche sul collo, al di sotto della carotide, più grandi. Le macchie sulle braccia erano meno visibili, più piccole ma non meno intense. Si reggeva con una mano al bordo del lavandino, con l’altra tirava l’elastico, prima sul fianco, poi sul ventre, sollevava le gambe, piegava volta a volta un ginocchio e poi l’altro.
Sotto l’ombelico la pelle era pallida, e così pure sulle gambe fin quasi al ginocchio. I polpacci erano più scuri, molto lisci e con le vene in rilievo sulle caviglie e sul dorso del piede.

Nella “scena dello specchio” l’intreccio tra narratore e personaggio è davvero forte: certamente l’ispezione della alterità corporea è fatta con gli occhi di Giovanni che osserva il suo stato di salute, mentre le notazioni sui gesti potrebbero appartenere all’attenzione “comportamentistica” del narratore. Da un lato, la descrizione delle cose sottolinea il loro puro e indifferente “esserci”, dall’altro, la visione “epidermica” del personaggio esprime il vuoto del sé. Il soggetto è un soggetto in crisi, cha va alla deriva (all’autore una simile metafora nautica non sarebbe spiaciuta). I luoghi preferiti di Giovanni Zevi sono il letto di una stanza d’albergo o il bar, contrassegno del nomadismo e dell’inerzia. Di tale dispersione fa parte la difficoltà di creare rapporti e legami stabili: il corrispettivo femminile (Ann, o poi Beatrix) è perduto o distante, mentre una scena ripetuta è quella del dialogo complicato con una donna mezza addormentata che Giovanni sta per lasciare. Un altro episodio significativo è quello onirico della maglietta troppo corta:

Giovanni tentò più volte di coprirsi, il lembo della maglia gli sfuggiva e lui tirava, tirava con gesti violenti, dall’alto verso il basso, la mano ben stretta.
(…) [la donna] Lo stringeva; aveva afferrato il suo braccio con entrambe le mani, aveva piegato all’indietro il corpo puntando i piedi contro lo stipite. Rideva e tirava mentre lui tentava di resistere, cercando di coprirsi in qualche modo, serrando le gambe nude, le mani impegnate da quella maglia non abbastanza lunga.

Una resistenza alla nudità che ben si addice al racconto reticente; ma anche, altrettanto chiaramente, una resistenza all’eros e al rapporto con l’altro. Questa abrasione esistenziale è però sempre in relazione con il livello storico del racconto, che rimanda alla lotta partigiana e alla trama clandestina di un gruppo anarchico. Precisamente l’uccisione di un prete durante la resistenza (in La linea che si può vedere, ma anche altrove) e l’attentato da compiere a Barcellona contro un truculento generale franchista. Questi fili narrativi periodicamente affioranti spiegano il problema umano della coscienza combattuta e la costellazione complice di tutta una serie di personaggi (come Blasto, Berthús, e altri), nonché l’affioramento di una quantità di luoghi che allarga la prospettiva geografica ad un orizzonte, in un primo momento, europeo (Parigi, Londra, la Spagna).
È da notare che i passaggi “di confine” avvengono senza i debiti segnali, per cui il lettore si trova improvvisamente spostato senza nemmeno accorgersene e deve tornare indietro per capire in che punto è cambiata la scena. In questo modo saltano i confini tra il sogno e la realtà: tutta la scena iniziale del romanzo, con una folla vociferante di reduci, si scopre dopo un po’ essere un ricordo o, più probabilmente un sogno, quando leggiamo: «Aprì gli occhi sollevando con lentezza le palpebre, per un momento le riabbassò, poi sbattendole più volte girò il capo. Infine li spalancò e li tenne fissi»; anche se il testo non ci dice mai che il personaggio abbia sognato. Sicuramente sono ricordi gli inserti della adolescenza di Giovanni con il grandpère Columbus, esempio di antifascismo. L’instabilità cronologica del racconto è completata, infine, dagli sbalzi espressivi tra il verbo al passato (ma spesso l’imperfetto: «La primavera era precoce quell’anno») e il presente, che è il tempo proprio di uno sguardo impersonale, in presa diretta. Si noti questo scarto, dove il passato riprende con la voce del personaggio:

Dicono brevi frasi a chi sta di fronte, oltre lo sportello aperto. Di nuovo si guardano e discorrono pronunciando le parole con rapidità, gli occhi sempre in moto.
“Sono italiano,” disse Giovanni, “soltanto che il visto è stato concesso in Inghilterra.”

Questo smozzicare le parole non è solo in relazione, come qui, all’interrogatorio della dogana. Il linguaggio dei personaggi è sempre ridotto in pezzi. Segno, certo, della difficoltà a dire (una balbuzie interiore) e della difficoltà a comprendere altro che parti di frase simili a gesti enigmatici; ma anche funzione ritmica di ripresa e di contrappunto. Qualcosa manca sempre nella narrazione reticente, qualcosa continuamente allude ma elude il centro della questione.

Il punto centrale nel percorso narrativo di Germano Lombardi è Il confine, titolo che esprime bene questo stare in mezzo alle due fasi, anche se l’autore non poteva saperlo e lo ha scelto per altri (altrettanto buoni) motivi. Il confine, pubblicato nel 1971, viene composto nella seconda metà degli anni Sessanta e quindi nel periodo di maggiore concentrazione e agitazione delle poetiche avanguardistiche. In questa fase “calda”, anche Lombardi tenta la scommessa più alta, quella del confronto con il reale: come La linea che si può vedere si concludeva, sia pure sfumando, con l’esecuzione di Padre Piero, così Il confine termina con il grido lacerante (forse anche l’invocazione di un nome di donna) che accompagna la scena della evirazione e della morte di Berthús. L’incubo («vide il suo sesso, il membro eretto cadere») passa la frontiera dell’immaginario per raggiungere il corpo fisico; e questo avviene senza che però si possa ricostruire il perché e il percome: il reale irrompe proprio al confine, al confine del deserto: e un altro confine superato è quello dell’Europa, in quanto ormai siamo in una geografia extraoccidentale.
Gli slittamenti di luogo sono sempre improvvisi ma si appoggiano soprattutto sui nomi, sulla loro forza evocativa: non appena è fatto oggetto di discorso il personaggio lontano viene raggiunto dalla narrazione dovunque si trovi e diventa immediatamente soggetto. Facciamo un esempio: quanto ai personaggi, ancora compare Giovanni Zevi, ma un ruolo importante comincia ad assumere il signor China (che, in quanto scrittore, diventerà un alter ego dell’autore, soprattutto negli ultimi libri), mentre come anello intermedio agisce l’irlandese Pat Osborne. Dunque, a un certo punto, Zevi e Blasto, parlando in un bar di Londra, nominano Osborne («A Osborne sarebbe piaciuto…») e il testo si sposta su Osborne arrivato a Roma, dove a una cameriera fa il nome di Berthús; subito il testo raggiunge Berthús febbricitante nel deserto tunisino; Berthús ricorda un amuleto di China, ed eccoci tornati a Roma con China che incontra Osborne, il loro dialogo dura varie pagine, finché non viene evocato il bar di Londra dove si recano di solito Zevi e Blasto; quindi obiettivo su Londra e dialogo tra i due, nel quale cade la notizia di una lettera di Osborne; la palla torna e Roma, in una fiaschetteria dove Osborne chiede di Berthús; questo il passaggio:

– È amico del signor Berthús? – domandò la donna.
Osborne scosse la testa. – Amico di amici – disse e sorrise.
– Bene… – disse la donna – …si accomodi… però… però il signor Berthús è partito… è lontano – disse. – Il signor Berthús non c’è: è lontano… – ripeté.
Berthús fece un gesto con la mano mutilata, poi la passò sulla fronte tergendo il sudore.

Attraverso il personaggio di Ann il testo tornerà su Zevi, poi ancora su Osborne. In questo caso Osborne (un personaggio che non verrà poi ripreso), ha un ruolo di perno, anche perché, straniero un po’ impacciato funziona soprattutto da ricettore del coro di discorsi che circondano. Comincia ad assumere importanza l’orecchio, che deve registrare l’accelerazione plurilinguista del mondo. E si fanno strada le voci dei narratori intradiegetici, con i loro tic verbali e l’atteggiamento retorico-enfatico che tende a colmare il “vuoto del sé”: troviamo l’avvocato Artàn, con il suo intercalare «zittino», e anche le voci strane o straniere di Antonio l’emigrante, e dell’arabo Sherif. Più che il parlato, interessa a Lombardi la “parlata”, cioè l’amplificazione dimostrativa del discorso. Sentiamo Antonio, che qui parla con Osborne:

– Appunto ser – disse Antonio Tre – la condizione…
Può apparire… succede così.
Lei, irlandese, cita un nome di amico italiano. Nella mia condizione di ignoranza, con idea piccola di paese, io dico: lo conosco. Ma non è così. Sempre l’italiano pensa: se parla di un italiano io lo conosco.
Perché?
Le spiego.
In primis: perché è idea piccola di paese. Se un italiano è in un luogo (lei appunto citava il giovane Julian e un certo Aprico, ser, conosciuti in Arezzo). Ben so, dico… e affermo: li conosco. Italiani sono: li conosco. E so, ser, so: mai non fui in Arezzo. Eppu­re per mentalità di paese, non essendo stato, non cono­scendo giovani di questa fatta, lei, straniero, parlan­done, mi dà diritto, come dire improprio, mi dà pos­sibile affermazione di affermare: essendo italiani an­che costoro, li conosco! Inesattezza, abitudine di cam­pagna, familiarità, paura, realtà di dire: in ogni paese in cui si lavora con mani, lì, l’italiano. Poca conoscenza, anche, di verità geografiche, di, come dire, grande ab­bondanza di abitanti, paesi impropri, ser, Arezzo stes­so che lei citò: non la conosco. Arezzo che è, ser? Pae­se improprio, forse? E ben ho detto: Julian e l’altro, entrambi giovani: li conosco!

Non è tanto linguaggio “basso”, ma lo sforzo “improprio” di alzarsi di livello, ad esempio con l’uso del passato remoto. Nel caso del lungo monologo di Ezzeline Sherif, la prosa lombardiana sconfina nell’esotico, anche in questo caso però usando piuttosto la postura, l’atteggiamento oratorio, magari condito con acconci proverbi. Un passo:

Nasce e cresce, o Monseigneur, la fiducia.
O fiducia, fiducia, non sei un sommesso peto emesso da chiappa nigeriana, oltre i confini dell’Islam…
Ci conoscemmo, o Signore, bevemmo e beviamo… la mia voce può essere sommessa o tonante, a seconda.
Può essere un sussurro, quando è giusto. O sonorità concava della bocca, monumento, palazzo, villa, aia e cortile di infiniti alterchi che rimbalzano fra un dente e l’altro mentre il liquido infedele allevia la fatica bagnando là dove è secco.

Comincia a insinuarsi il segno della teatralità.
Abbiamo ancora il “discorso a pezzi” però, più che all’indecisione esistenziale, viene collegato alle tecniche di montaggio dell’avanguardia, e in tal senso è interessante l’apparizione dei giovani Aprico e Julian fautori del poema «fonico-mimico-matematico». Il testo ospita svariati materiali prodotti dai personaggi: pagine di diario, lettere, perfino una sceneggiatura cinematografica di China dedicata agli eroi anarchici Sacco e Vanzetti – alle didascalie della quale ben si adatta la descrizione al presente del “c’è” e del “si vede”,[17] e ciò ci fa capire che lo stile di Lombardi era cinematografico fin dall’inizio. Questo inserto metaletterario del “testo nel testo” serve anche a chiarire, se ce ne fosse bisogno, l’incompatibilità con la logica della fiction: i produttori, infatti, non sono soddisfatti, e ribadiscono la spietata regola della “società dello spettacolo”: «È inutile fare drammi complicati (….). Il cinema è spettacolo, non è dramma…».[18] L’industria dell’immaginario vuole meno analisi sociale e più sesso. Ma un anarchico che racconta non può che raccontare in modo anarchico (la tesi della mia ricerca è, appunto, che l’antiromanzo sia originario e sia l’anarchia del racconto). Con un linguaggio che, tra il letto e il bicchiere, si moltiplica e parte per la tangente, fino al delirio. Né l’anarchia può essere ridotta a ideologia o a istanza morale. Nel finale, Lombardi inserisce il discorso di Blasto alla sala Bakunin, ma alla proclamazione dell’utopia

La fratellanza è l’uomo e l’uomo non è simile a un altro ma è pari a un altro. Non ci sono simili nel mondo ma solo pari che si rispettano nella diversità perché rifiutano il potere…

fa seguire il contraltare dell’ironia («– Un retore – disse – un retore con prosopopea da retore») nei farfugliamenti di Giovanni Zevi. Il romanzo sperimentale, problematico e complesso, ha cercato di cogliere il suo centro, ma ha scoperto che il suo centro è dappertutto.

La seconda fase della narrativa lombardiana include la trilogia di Beatrix, Cercando Beatrix (1976), Villa con prato all’inglese (1977), Chi è Beatrix (1979), e si estende fino ai romanzi di conclusivi incentrati su Enrico China, come China il vecchio (1987) e anche L’instabile Atlantico (1993), dove China risulta scomparso, ma è presente attraverso i suoi manoscritti. Soprattutto nella trilogia di Beatrix, alla fine degli anni Settanta, Lombardi si destreggia con la trama, inserendo il suo solito cast di personaggi negli ingranaggi della spy-story e del giallo, tra trucidi agenti dell’Intelligence Service e detectives dal volto umano, alle prese con la famiglia malavitosa di Duc Recanizo, di cui la stessa Beatrix sembrerebbe essere una discendente adottiva, dietro i mitici diamanti della la collana Potocki. Sebbene su Beatrix si diano di volta in volta svariate precisazioni (le si attribuisce anche una figlia di nome Athena, nata alle 10 del 6 gennaio 1955 – perbacco che esattezza anagrafica!), la sua figura resta comunque sempre nell’ombra dello sfondo, sfuggente oggetto del desiderio narrativo, forse segnacolo del “reale” irrappresentabile. «Beatrix l’ineffabile»: L’IS crede addirittura che si tratti del codice di una operazione segreta, altri sostengono che sia «un nome simbolico».
Sarebbe allora questo, che lavora ironicamente dentro ai generi di consumo, un Lombardi postmoderno? Sebbene gli anni siano quelli, il postmoderno di Lombardi è parziale o quanto meno molto sui generis. Non vi è infatti, in lui, un blando rifacimento, quanto piuttosto l’uso straniato dei modelli e il loro accavallarsi scomposto. Se consideriamo la parodia, che il postmoderno nella sua linea vincente vuole moderata e “neutra”, Lombardi ci regala invece una parodia scatenata e demistificante, assolutamente di avanguardia, come nel classico Pinocchio, rivisitato dal Gran Teatro Rivoluzionario, nel sunto dall’avvocato Artàn:

Il Pinocchio, come dire, rivisitato in chiave rivoluziona­ria, sadica e dissenziente. Una fatina che in effetti è un fatino, un Pinocchio, se si vuole, un po’ ambiguo… Zittino… una capretta adultera, un grande pescecane finoc­chio, un grillo ruffiano, una Mangiafuoco coprofilo, si sa, la licenza… (Vai!) da non confondere con la libertà. Zittino… Un Geppetto irresoluto e riformista, usa così. Il potere è… Zitto… Un gatto che ricorda un papa defunto, una volpe che può in effetti essere simile alla effigie di Togliatti vivo… Poi… poi… ermafroditi, travestiti… Luci acconce (Vai !), salamelecchi, giochi d’estro, di movi­mento… Citazioni… La fatina diventa uno psicanalista, un avvocato napoletano, Eduardo De Filippo; solo al­l’ultimo ritorna fatina, ninfomane e drogata. Nel frat­tempo Pinocchio è stato Richard Burton, Carlo Marx, Amleto… Mentre il grillo è stato un banchiere, un segre­tario e un ubriacone della Quinta strada a New York, ex amante del vecchio Fred Astaire che canta alcuni a solo della Bohème.
Mangiafuoco prima è Fellini, poi il proprietario di un bordello militare di La Spezia. Poi il presidente di una società di audiovisivi che convive con un antiquario barese, in effetti rigattiere, baro al poker, che gioca con tre pittori milanesi, tutti ricchissimi, mentre Mangiafuo­co sta con un serpente boa nel letto. Zittino… C’è un ca­rabiniere che passa ogni tanto… Zittino… poi c’è uno scioperante di Salerno, poi uno che assomiglia all’ono­revole Almirante. Quello che assomiglia ad Almirante porta sulla scena una enciclopedia dei Fratelli Fabbri, dei mortaretti napoletani, la maglia di una squadra di calcio, tre chilogrammi di spaghetti, una cassetta di Co­ca Cola, un bidone di nafta vuoto, una bottiglia di fe­tente acqua di mare, un cieco di guerra, del filo spinato, un sacco di merda… Zittino… porta anche Topolino tra­vestito da marine con Pietro Gambadilegno travestito da Fidel Castro, un gatto randagio bianco e nero che piscia dappertutto, un contenitore di plastica Montedison ri­pieno di peti africani… Ssst… Arriva Lucignolo che rac­conta la sua vita esordendo… Zittino!… “Alla prima ac­qua d’agosto cadono le mosche, lei che rimane morde come cane”. Lì Lucignolo abbaia e arriva un cane di pelo lungo, rognoso, sporco, prudente, ladro, falso e bugiar­do: il cane è Melampo che cita Platone: “Ti dirò in proposito una mia supposizione: i primi abitatori della Grecia secondo me, ritenevano iddii quelli soltanto che molti popoli barbari oggi ritengono tali: sole, luna, ter­ra, cielo e stelle”. Eccetera.
Melampo se ne va.

Se si pensa che il libro di Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo) è del 1977, si potrebbe ipotizzare una convergenza sul nostro classico burattino da parte dei narratori sperimentali. Ma senza che ci sia nessun nessunissimo recupero del mito o della ingenuità fabulatrice. Il brano di Lombardi, che ho citato fin troppo abbondantemente, ricorda, semmai, lo stile di una recensione di Arbasino… Semmai è una parodia dell’avanguardia, ma non un ritorno indietro. È un modo per sottolineare ancora una volta la teatralità del linguaggio con l’esorbitanza e l’esagerazione della retorica. Siamo entrati nella fase del “troppo”, dove dovremmo parlare di un Lombardi gaddiano.
Insistite performaces verbali, discorsi stralunati e strampalati sono affidati alla pletora dei narratori “intradiegetici”, che sono specialmente dei raccontatori orali (habladores avrebbe detto Vargas Llosa). Il passaggio da uno all’altro (oppure anche l’inserimento di testi interpolati) comporta una poetica della digressione. E dunque, riassumiamo: mentre nella prima fase la reticenza sottolineava il fatto che il nucleo autentico dell’esperienza non è dicibile, nella seconda fase la digressione dimostra la stessa cosa, ma applicandosi all’estensione di tutte le vite: bisognerebbe infatti che ciascuno si raccontasse, ma i racconti non si sommano, si sottraggono e alla fine la «storia» rimane «nascosta dalle mille parole». Tanto più che i narratori sono improbabili e poco accreditati, i nomi dei personaggi diventano sempre più grotteschi e caricaturali (Ciacco Galòp, Banjo Balocco, Basilicò Machiavelli, Pliniús Zampogna, ecc.).
In questo, il narratore “extradiegetico”, che prima era tutto dentro il punto di vista, emerge ora palesemente, con non poca ironia, per segnalare il proprio comportamento a beneficio dei lettori: «Abbiamo qui riepilogato questi fatti e le considerazioni che se ne traggono perché serviranno e servono alla comprensione di quanto accadde ed è accaduto nei giorni fra il carnevale e la quaresima del 1977». Senonché, ancora qui in Villa con prato all’inglese, il finale ci rivela a sorpresa che il narratore era interno alla storia (“omodiegetico” nei termini di Genette), non era altro che un raccontatore tra gli altri, nel caso quel Demetrios Mitopulos, biscazziere greco, che comparirà negli ultimi romanzi alla ricerca dei famigerati diamanti. In questi ultimi testi, il narratore e il suo commento emergeranno in piena consapevolezza, non già per marcare un punto di vista superiore, ma in funzione ancora parodistica, come aiuto non richiesto alla confusione del lettore, o anche come ulteriore performance retorica. Come in questa tirata sull’ingegno, con tanto di allocuzione, che funziona in un gioco di scatole cinesi (è un dattiloscritto di Aprico letto da China davanti a Zevi):

Così, come sempre, l’umana intelligen­za ebbe l’equivoco privilegio di mediare fra l’ottusa violenza dei padroni e la cieca fame di riscatto, di libertà e di dignità degli schia­vi. Ma che può questo ingranaggio fragile e leggero, aereo e solitario che è l’ingegno, che può in un mondo in cui l’ottuso è ed è forte, e il non ottuso sa solo di non esserlo e sta con gli occhi tondi e sgranati, le mani impa­zienti e smaniose, il cuore in tumulto e una bocca piena di arida sabbia che trattiene l’ur­lo di furore e di rabbia? O ingegno, che puoi contro l’insulto dei tempi, contro l’insolen­za del potere, contro la fragilità tua stessa fatta di dubbi, reticenze, critiche, ripensa­menti, visioni, sogni, ambiguità, paura e insi­curezza? Che puoi ? Un bel nulla.

Siamo qui nella zona dell’esotico, ma anche e soprattutto della critica alla globalizzazione e della polemica anticolonialista. Lo stesso slittamento della scena, tipico della scrittura lombardiana, si accompagna adesso a un segnale esplicito, che sottolinea la distanza geografica degli eventi contemporanei: «Oui… – disse Socratés e scosse il capo. In quel preciso momento, lontano sei ore nei fusi orari verso oriente, ed essendo lì, in quel luogo, ormai il sole al tramonto, il signor China guardò i due cipressi». La saga squinternata di Lombardi raggiunge i meridiani di Haiti (chiamata Petite Espagne) o il Brasile della gente Carranza. Le sei ore sono lo iato di un Oceano.

Nella fase conclusiva del percorso lombardiano il filo-conduttore Giovanni Zevi diminuisce d’importanza, ma non scompare del tutto, va ad inserirsi nello sfondo degli enigmi. Lombardi gli regala pure un episodio finalmente erotico, dandogli a condividere il letto con l’esperta Miciabella. Si tratta però di una spia e si noti come la precisione dello sguardo si insinui nella seduzione (lo sguardo raggiunge ciò “che non si può vedere”, ma l’oggetto è fin troppo concreto):

Giovanni con la guancia, premendo forte, fece scivolare più in basso l’elastico che tratteneva i piccoli slips di Miciabella. Sul pube fra i ciuffi di peli scuri e arricciolati si potevano vedere cicatrici tenui e bianche intorno al monte di Venere che era rugoso, prominente e anomalo nelle grandi e screpolate labbra scure.

Per giunta, spunta fuori una siringa e il coito di Giovanni se ne parte – tanto per cambiare – per la tangente dell’allucinazione, tra sogni e ricordi.
Il ruolo centrale nell’ultimo Lombardi è tenuto dal signor China, «China o viejo», “China il vecchio”, nella parte dello scrittore ormai pienamente cosciente dei mali e dei limiti del mondo, cui risponde con un tenace alcoolismo. A China, l’autore implicito accoppia una compagna gradevole e consenziente (Tewma, che ha «un corpo tondo e armonioso»), ma non lo distoglie per questo dallo stato approssimativo, incerto e scombinato che giustifica tutte le lacunosità e gli slittamenti del racconto. Alla dedizione all’alcool, appunto, può essere fatta risalire la deformazione delle immagini e la presa problematica sulla realtà. Se la serie dei “raccontatori” portava Lombardi verso il modello-sottosuolo, moltiplicato per “n” le voci sproloquianti, l’obiettivo posto sullo scrittore-China lo conduce in prossimità del metaromanzo e del racconto nel racconto. Sicché, proprio gli ultimi testi consentono a Lombardi di esplicitare due aspetti molto importanti della sua raggiunta consapevolezza, vale a dire l’allegoria e la poetica dell’instabilità.
Mi sono occupato molto e per molto tempo della questione dell’allegoria (sulla scia delle fondamentali riflessioni di Benjamin), rendendomi conto di come la nozione sia scivolosa e multiforme. L’uso che Lombardi ne fa, per di più in pagine non teoriche ma narrative, è piuttosto particolare e sorprendente, perché avviene al di fuori del dibattito degli anni Ottanta. La sua comparsa è legata alla questione della storia:

Ma poiché non sono tempi di storie, ma solo e soltanto di storia, trascureremo questa fatica che fatica non dovrebbe essere ma è, essendo il mondo, ormai, come è detto, una storia, cioè politica che della storia è calcolo, e non delle storie, che della storia sono allegorie.

L’allegoria, dunque, è per Lombardi una aggiunta necessaria alla storia, la quale anzi, in quanto storia politico-economica globale, incarna ormai un potere minaccioso. Di contro stanno le finzioni (le “balle” dei racconti, le “storie” plurali), che tuttavia non sono slegate dalla storia, ma ne sono la produttiva “allegoria”. Più avanti il testo dirà che «l’allegoria è solo vestire il reale». Il reale è insostenibile (è, lacaninamente, ciò che sfugge alla rappresentazione) e non può che presentarsi nelle crepe di una superficie. Ne L’instabile atlantico il tema dell’allegoria ritorna nella questione della pittura, nel discorso per immagini che rimandano a un significato diverso da quello della cosa rappresentata, sicché «aiutano a capire ciò che non si vede». Queste sono allegorie moderne che, al contrario di quelle classiche, hanno perduto la chiave; perciò si pongono come enigmi e si moltiplicano, contagiando ogni cosa, in un défilé senza fine. Così appaiono agli occhi demoralizzati di Demetrios Mitopulos, l’estremo lettore:

Sentiva in lui stesso, lui, il Demetrios di sempre, qualche cosa cedere. La ragione e i fatti non erano più tali. L’analisi degli stessi poteva portare a qualsiasi ipotesi poiché le ipotesi erano divenute allegorie, ombre grigie e nebbiose in situazioni assurde come sogni e infine, e questo più lo indignava, erano divenute migliaia e migliaia di inutili parole dette, cantata e recitate.

L’instabile Atlantico, questo titolo così chiaro e forte, per altro miniaturizzato nel testo, dove è anche un quadro ed è il titolo («Aspetti dell’instabile Atlantico») del dattiloscritto di China lasciato in una scatola da scarpe. La poetica della reticenza e la poetica della digressione sono infine superate e inverate dalla poetica dell’instabilità. Lombardi, lui ligure, amava il mare e ha posto il suo moto informe come allegoria della instabilità dell’esistenza; come pure dell’instabilità del linguaggio. L’erranza del soggetto pone la sua etica “eccentrica” contro la costrizione delle identità fisse. Se una strategia della confusione mirata e subdola («una croce che invece di esser croce era una spada insanguinata») è alla base dell’imperialismo coloniale e in generale del controllo sull’anarchia (sulla diversità, molteplicità e variabilità del desiderio), solo una strategia di confusione contraria può cercare di restituire spazio alla autentica libertà.
Nell’ultimo libro, China scompare: l’autore è (derridianamente) assente dalla sua scrittura. Le sue carte sono vanamente indagate da Mitopulos. China, Mitopulos, nomi da farne un emblema conclusivo: diremo, allora, che per Lombardi la traccia di China (l’inchiostro, la scrittura) è irriducibile alla semplificazione e alla appropriazione del mito.

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