LA POESIA DELLA PLURALITÀ
Dico subito che quella di Gaetano delli Santi è una poesia della pluralità. Della pluralità del mondo, della pluralità dei mali del mondo, della pluralità dell’io, ma soprattutto della pluralità del linguaggio. È proprio la logica della pluralità a determinare la quantità, la mole infinita di un libro come Acque da squarto, che comprende diacronicamente un periodo di attività dello scrittore della durata più che ventennale, ma che si presenta anche sincronicamente come macrotesto composito e multipolare. Davvero, secondo la nota massima aristotelica, qui “l’essere si dice in molti modi”, con un rilancio inesauribile delle sue disposizioni creative, anche al di là di quelli che si erano configurati come i tratti, i contrassegni, gli stilemi tipici dell’autore.
In tutto il percorso di delli Santi, passato attraverso l’esperienza della Terza Ondata e caratterizzato altresì dalla doppia competenza nella scrittura e nell’opera d’arte figurativa, sta alla base una mastodontica ricerca del lessico, del lessico perduto e del lessico marginale, raccogliendo elementi e varianti, sia dal lato del passato che da quello del presente. Si potrebbe parlare, applicando la formula freudiana dedicata al fantastico, di un “ritorno del superato” nella lingua, tendente a rimettere in circolo tutta la carica espressiva sprecata nel processo di omologazione e di riduzione linguistica vigente. La “lingua di plastica” della comunicazione viene così contestata attraverso l’emersione congestionata del ribollente magma di una “lingua globale” composta e ibridata da tutti i rimasugli che è possibile raccogliere, amalgamare e restituire.
Dunque le parole obsolete costituiscono il primo livello di difficoltà di questa poesia che esigerebbe un lettore sempre pronto a consultare il dizionario (anzi, più di un dizionario) e comunque reso consapevole di essere stato lasciato in una condizione di comprensione deficitaria dalla società che avrebbe dovuto istruirlo; ma, per giunta, c’è un secondo livello di difficoltà, ancora più profondo, che è quello determinato dalla correlazione dell’incongruo. Se a livello della scelta lessicale (l’asse della selezione) vige il criterio della mescolanza dei codici e dei registri, al livello della costruzione della frase (l’asse della combinazione) la regola principale seguita in questi testi è l’accostamento per discrepanza. Il sostantivo deve essere pronto ad accogliere l’attributo improprio che non gli si confà, anzi ne andrà alla golosa ricerca. E questo si vede chiaramente là dove diminuisce la distanza dalla lingua d’uso, cioè quando il repertorio lessicale si adatta di più al livello normale; diventa allora evidente che anche le parole comprensibili non hanno intenzione di star lì a farsi consumare tranquillamente. Lo vediamo proprio dal testo iniziale: «Tra un po’ mi vesto di mobília vuota / di legni animali / di brezze che se ne vanno a pranzo con l’orologio / di famiglie incasinate / bevute da parolacce / di bassa tappezzería / urlata dalle proprie sottoascelle». Ed è subito una poetica dello stupore, tutta interrogativa: come si fa a vestirsi con i mobili? come fanno le brezze ad andare a pranzo e per giunta accompagnate da un orologio? Che piatto ordinerà l’orologio? Come fanno le parolacce a “bere” intere famiglie, sia pure in crisi? E via di questo passo. L’astratto con il concreto e viceversa, questa è la mésalliance preferita, di marca surrealista e novecentesca in genere, che garantisce un alto tasso di straniamento. Due ordini di difficoltà cosa sono, un respingimento intimidatorio del lettore? Niente affatto: il lettore che abbandona la partita perché non ha capito, forse ha capito benissimo: in questa poesia si tratta di saltare d’un balzo ogni difficoltà per cogliere di colpo, in sintonia con il testo, il gesto eversivo che questo linguaggio compie sulla pelle del patrimonio comune della lingua.
E il gesto è costituito, innanzitutto, da un allargamento delle modalità poetiche, condotte verso un generale “impulso” che può realizzarsi con l’ausilio della prosa altrettanto che con un verso libero contenente sparsi rari residui metrici come rime o endecasillabi. Semmai, l’istanza costruttiva viene affidata prevalentemente alla ripetizione iniziale dell’anafora, in qualità di rilancio ritmico del discorso; sicché, se nel complesso il libro appare dominato dalla frammentarietà, in quanto i singoli componimenti spesso non sono altro che un montaggio di brani più brevi, tuttavia il grande sconfinato puzzle, quasi uno sciame di meteoriti, viene attraversato, proprio grazie al ribattere della posizione di partenza, da insorgenze e impennate quasi-epiche. Così, tanto per fare un esempio tra tanti, in Ci sarà, dove a far ritorno è il titolo stesso: «Ci sarà chi inguanterà / di febbre / la mano ornata di morfina / (…) / Ci saran borri di grassume / (…) / Ci sarà distuonamento / (…) / Ci sarà sempre l’universal brigata / di fòrfici predatrici».
Che valga il gesto, però, non significa che i dizionari si possano del tutto lasciare a casa. E vale la pena di rilevare che, accanto all’opera meticolosa e insaziabile del reperimento di vocaboli desueti (riportati con puntigliosa esattezza anche con i debiti accenti di modo che non ci siano dubbi sulla corretta pronuncia), si compie, forse meno vistosa ma pertinace, anche un’opera di invenzione, di manipolazione della lingua. Frequenti sono le parole composte, gli agglutinamenti del tipo «caricacialtrone», «votateste», «cavafango» o lo straordinario «sguazzigongolo». E molto numerosi i derivati, tra i quali segnalo ai lessicografi «rinficosecchita», cioè rinsecchita come un fico secco (dove poi il fico secco, può significare “nulla”). E soprattutto mi è occorso spesso di notare – e questa nuova raccolta me ne dà conferma – l’abbondanza dei derivati attraverso i suffissi in -iccio e in -accio: per citare soltanto i più strani, della prima lista fanno parte «fracidiccio», «escrementiccio», «cenericcio», «balordiccio»; mentre la seconda lista comprende «bardassonaccio», «fiumaccio», «anticagliaccia», «ladronaccia». E c’è anche un vocabolo come «discorsucciaccio» che sta in tutt’e due le liste… Dunque, -iccio e -accio sono l’uno un attenuativo peggiorativo e l’altro un peggiorativo intensivo: quindi hanno qualcosa in comune e nello stesso tempo sono divergenti. A me pare che corrispondano come un guanto ai due pedali fondamentali della poesia dellisantiana, l’ironia e l’irrisione. Si potrebbe anche dire: trattamento da dentro e trattamento da fuori. Passando da dentro il bersaglio la voce esce in falsetto, in modo riduttivo, mentre colpendolo da fuori trova la via diretta dell’invettiva. Insomma, i suffissi in -iccio e in -accio paiono costellare e accompagnare la duplice direzione della polemica.
Allo stesso modo, attorno alla direzione della polemica si compongono a ventaglio le tre persone: l’io, il tu e l’egli. L’io è in grado di porsi al di qua del male sistemico, al modo modernista di implacabile osservatore e critico, testimone visuale e verbale che si assume la responsabilità della parola (io vedo, io dico) e rivela l’esistente dietro i paraventi ideologici («Così è») con funzione demistificatrice forte. Dall’altra parte, invece, la terza persona, l’egli, è il personaggio ritratto dall’esterno con una presa di distanza che marca per l’appunto la polemica verso la “mutazione antropologica” e il degrado culturale: ed ecco l’uomo alienato («Quest’uomo a me pare / senza numerazione, / fuor di sé, / … / È copiato dal vero / da spettacoli fatiscenti / … / E non ha più nulla in sé / che provi pietà per se stesso»); ecco l’uomo artificiale, dal corpo scolpito e ricoperto da marchi: «Ha un corpo che si muove / a sponsor personalizzato / (…) / Si regge su accessòri muscolosi / di ottimismi / sofisticati / acciaiati / modellati per mercati esigenti / su addominali indispensabili / agli stravizi gassati / e alla fisicità impomatata». A metà tra l’io e l’egli – tra il soggetto e l’oggetto – c’è la seconda persona del tu; il tu è a sua volta implicato nei tentacoli del sistema, coinvolto in quanto ignaro riproduttore della stupidità instillata («Tu intèrsechi fagottelli / di microrganismi / alla velocità accomodati / d’una poltrona estetizzante // e ora li vivífichi / e ora li cristallizzi / nell’immondezza aperta / sullo schermo televisivo / ove la lor faccia / è notizia rovesciata / e sperperata / da la travatura armata / di sfacciate panzane». Il tu è esplicitamente chiamato per essere messo in stato di accusa: «Tu / sei col mattino intrauterìno / e con l’aguzzíno papalíno / l’estensione / del gabbione / perpendicolare / a questa lazza». Eppure, che non tutto sia perduto lo dimostra il fatto che il tu è precisamente l’interlocutore del discorso ammonitore e perciò rappresenta la speranza che il discorso stesso riesca ad incidere. E sarebbe interessante vedere come questa poesia invettivale faccia uso del “nota bene” oppure dell’imperativo, però in maniera morbida, perché si tratta di mostrare che la creatura «è più viva di quanto crede di essere»; e quindi: «Ingraniscilo allora lo spettro / ch’è in te, / pòrtalo alla stessa altezza / d’una divinità / infedele, / nel piccolissimo / làscialo star vivo, / adòperalo / insieme al fermento di tanti mutamenti / per contraddire que’ privilegiati / sgozzini». In fondo, anche quando non si tratta di consigli ma di deprecazioni, come dicevo, l’apostrofe indica che comunque, malgrado tutto, con quella persona ancora si parla. Tanto più che il tu – lo si sa – contiene vari risvolti e potrebbe anche riferirsi al dialogo interno dell’io, in funzione di presa di coscienza. Perché poi, alla fine, nemmeno l’osservatorio dell’io può dirsi completamente immune dal dilagare della subcultura: è significativo l’andamento di uno degli ultimi testi, Abbiam visto, in cui lo sguardo passa dalla terza plurale («hanno visto») rivolta alla seconda («ti vedono»), alla soggettività della seconda persona («hai visto»), fino a una riflessiva prima persona («mi son visto») che assume il preciso carattere dello sdoppiamento autocritico.
A questo punto si sarà capito che la “spinta propulsiva” che attraversa questo magma linguistico ribollente è un’istanza etica. Fin dal titolo lo “squarto” indica un pessimo taglio, ma insieme una animosa virulenza. La stupidità culturale e il disfacimento sociale ne sono gli obiettivi sotto tiro. È proprio la capillarità con cui stupidità e disfacimento sono innervati dappertutto a causare la pluralità dei testi, pari alla moltiplicazione infinita dei frammenti che costellano il “mondo a pezzi”, al cui computo la poesia può soltanto tendere e mai completare. Vediamo, un po’ a caso, alcune emergenze della vis polemica, cariche di umoralità indubbiamente espressionista: vediamo lo «schiavo del sistema» che «si piace… / e piace perché è idiota»; vediamo lo stuolo dei «dominati-dominanti»; e ancora gli omologati che «rècitano sorrisi / come fossero allegrie / circonfuse di pece morta // e si slungano nello sfinimento / degli affaroni». E poi c’è la corruzione, in tutte le sue forme, private e pubbliche e perfino storiche: l’imperial corruzione della sequenza che attraversa le decadenze di Roma, Bisanzio e Mosca, e segnatamente la corruzione della politica, ormai ridotta a interesse personale e pratica di malversazione. Proprio fin dalle prime battute l’«urlo» che esprime la tensione della rabbia, riguarda l’uso della cosa pubblica: «urlo da questa carogna insultante / politica imbevuta di servi incrudeliti / zàcchera d’uomini // e pillacchere / di stracotti infamanti»; e più avanti troviamo ancora stigmatizzati i «politicastri».
La corruzione finisce per contaminare tutto, ormai virano al grottesco parodico anche quelle armi culturali che alcuni dei maestri novecenteschi avevano orientato il senso alternativo, ad esempio il carnevalesco di Bachtin o l’erotismo di Bataille, rovesciati in epoca postmoderna in funzione di sfogo previsto e controllato sotto il comando del godimento di massa. Nella sequenza dei mesi, il carnevale arriva come l’appuntamento della festosità obnubilante e dell’arrabattamento del potere: «a carnevale ogni scherzo è fotogiornale / ogni pitale è liberale. // Capitan Fracassa dà supertassa / alla scassata carcassa della bagassa»; nel gioco di maschere che è ormai la realtà. Mentre l’eros è derogato in priapo (per dirla con Gadda) e l’orgia generale – in consumistica consumazione – sprigiona la lingua volgare in funzione non più di scandalo trasgressivo, bensì al contrario di livellamento normalizzante: «hanno visto… corpi sussultavano a scosse / a balzi a scatti / e vibravano sotto slappate di lingue / che guizzavano come cagnette… / uccelli scodinzolavano svettanti / e sguainati / a salsiccioni torcetti e moccolotti che ardevano rizzati a fusti / tra sorche vogliose e imbufalite…». Perfino l’operazione più elementare e naturale, quella dell’ingestione del cibo, diventa oggetto di acuta contestazione. Ciò avviene nel passaggio più antiantropocentrico del libro e non a caso in corrispondenza dell’Expo milanese, grande e strombazzata mostra del gastronomismo universale: sotto il titolo Un giorno saremo mangiati, il testo dellisantiano trova modo di smarcarsi dall’euforia collettiva per raggiungere il suo vertice critico, dove è l’aggressività dell’animale uomo a venire sanzionata come voracità eccessiva e “oggettivazione” del mondo esterno ridotto a cibo (o a vantaggio personale) senza riguardi e senza rispetti. «La natura del mio mangiare / sta nell’arrogarmi il diritto di mangiare / ciò che ho stabilito / che dev’essere da me mangiato», scrive delli Santi; e però questo si ritorcerà contro: «Impossibile mangiare e sperare / di non essere mangiati. / Impossibile non essere mangiati / prima o poi da chi a cui abbiamo / sottratto molto da mangiare»; unico modo «Ecco allora che ti dico: / per non farti mangiare da ciò che hai mangiato / datti in pasto al mangiato / senza darti da mangiare / ciò che hai dovuto uccidere / per mangiarlo…».
E però è vero che la degenerazione è insita nel mutamento della materia stessa e spesso linguaggio e tonalità si acconciano al ritmo di un farsi e disfarsi in certo qual modo ontologico, ad esempio: «Tutto si rattaccona a cartoni / nel gemitivo di ripetuti esseri… / son moncherini di mar rabbuffato / penitenti per cui tu eri vil peccato d’ogni dannato / tutto / è peso in bilance rotte / e non sai se tutto è giudizio o pregiudizio / semi degni di guardare / o buffi d’accarezzati…». In alcuni punti, la poesia della pluralità si fa poesia del caos. E in essa risuona lo sperdimento della domanda di identità, «Chi sono io?». Interessante notare che qui – forse in misura maggiore che in altri testi dello stesso autore – il soggetto dell’invettiva si coglie, a momenti, in stato di stallo, quasi in una ipnotica immobilità, segno di una speranza sospesa e di una ridotta fiducia sull’effetto stesso della parola. Lo sguardo della coscienza si ritrova in una impasse: «Ciò che vedo di me in me / è solo ciò che mi impongo di vedere / senza preoccuparmi se ciò che di me vedo / sia ciò che vedo in me. / Ciò che di me vedo è sempre ciò che risulta / dal fatto che non riesca mai a vedermi».
La parte finale della raccolta è, in questo senso, oltremodo significativa, in quanto abbandona la ricerca della rarità linguistica (la passione per l’hapax, potremmo dire) per entrare dentro la dialettica del paradosso e del chiasma, che è una dialettica senza uscita, dove il logico corrisponde all’illogico e viceversa. Tuttavia, proprio nel momento in cui tocca il limite della sua propria poetica («a parole lorde / orecchie sorde…», con tanto di rima baciata), la poesia tocca nello stesso tempo il suo fulcro. Infatti, la dialettica della contraddizione è proprio quella che apre la chiusura dell’io e lo pone di fronte alla sua radicale alterità: «L’altro da te lo vivi ogni giorno, / poiché sei tu l’altro, / e l’altro sei tu che nell’altro da te / ti dà te stesso / come altro da te». E, ancora, proprio nelle pagine finali, questo avvertimento davvero attuale in tempi di becero parafascismo “sovranista”: «Liberarsi dell’altro da sé / non porta a sé. / Là dove c’è l’altro da sé / ci sei tu. / Là dove ci sei tu / c’è l’altro da sé». Notiamo qui un uso del tu in un senso molto ravvicinato all’io, in quanto l’io è appunto aperto all’altro. E questa poetica dell’alterità ci dà, infine, la chiave della pluralità dalla quale eravamo partiti: «Io sono: / tu / noi / essi». Allora, se «Tutto è contenuto nell’altro / e il tutto dell’altro / è contenuto nel tutto», è evidente che il testo poetico non potrà che ripartire e rinnovarsi di continuo, e di qui la mole esorbitante della raccolta e in genere dell’opera dellisantiana. Malgrado tutte le difficoltà e le difese identitarie del mondo di oggi, quello che resta da fare ai poeti non è soltanto “fare la poesia onesta” come proponeva Saba, ma provare pezzo per pezzo, frammento per frammento a intaccare i “muri” vecchi e nuovi, anche a costo che sembri un “parlare al muro”. Perché ogni istante può essere quello del “risveglio”; nel conclusivo “elogio della luce” (una ripresa dell’Illuminismo, ma non solo), è proprio lo scarto rispetto all’orizzonte dato a essere auspicato: «La luce è risveglio e visione risvegliata. / Il mondo è cosa risvegliata / dal risveglio, che è luce». Esclusa, naturalmente, ogni facile e consolante speranza. Benjamin diceva che “solo per i disperati è data la speranza”; per delli Santi, l’impulso psicofisico attinge un garbuglio dialettico dove «La speranza spera che la disperazione / non giunga a disperare; / che la disperazione non smetta di sperare / e non giunga a disperare più di quanto / la speranza non speri».
In questi tempi desertificati in cui esistono sì poeti validi, ma che non danno segno di tendenziosità consapevole, anzi quasi quasi la tendenza viene considerata un’inutile limitazione, sicché la loro qualità appare – come dire – sprecata, Gaetano delli Santi si muove, rara avis, secondo una poetica ben distinta (antipetrarchista: vedi l’avversione per «il pressapochista / petrarchista») ed esclusiva di tenore assolutamente non allineato. Una poesia “fuori di sé”, non interessata a un mero percorso di promozione individuale, per quanto dotato. Se l’io è “con tutti”, allora conseguentemente la poesia deve rivendicare, malgrado ogni opinione contraria, la sua valenza di discorso pubblico e collettivo; e deve farlo senza smettere mai di dirsi sempre “in altro modo”.