L’ESPLORATORE DELLA “TERRA DI MEZZO”
Franco, il suo viso scolpito, i suoi occhi acuti e ironici. Lo ricordo come un custode di passaggi. Il mondo, ovviamente, è quello della letteratura e il viaggio è quello di quella strana “esperienza”, di quella pratica magica e difficile che potremmo chiamare ricerca letteraria. Dopo che si era chiuso il regno delle avanguardie organizzate in Gruppo, si è aperta la “Terra-di-mezzo” di una attività di resistenza della scrittura, segreta e clandestina, senza clamori e manifesti, ma con implacabile costanza di testi. Lontano dalle vie battute dei potenti trafficanti di parole, rimanevano sentieri impervi o deserti desolati, conosciuti da pochi esploratori. Franco era uno di quelli, un custode di passaggi solido e buono, che ha continuato con consapevolezza il suo ingrato lavoro di scavo di gallerie, ha continuato a portare, su quei percorsi extravaganti e di massima evitati, i più giovani che fossero disposti a qualcosa di diverso e vogliosi di fare. Franco era anche un esperto di linguaggi, uno che sapeva bene come fosse necessario parlare sempre con “Altri termini”. E tale fu il titolo del suo veicolo da battaglia, uso a periodiche uscite di intervento, e pure aperto come spazio alle prove di nuovi talenti, che ebbe ad ospitare spesso anche noi, per incursioni nelle regioni dell’alternativa. Era bianco e univa candore a rigore. Lui,uomo-roccia, imperturbabile alle lusinghe dei simulacri, il Franco esploratore indicava i passaggi. Come fare per non essere catturati dalle trappole del banale, per non finire a sprofondare nelle paludi dei codici e dei linguaggi standardizzati. Ammoniva a non seguire il richiamo cosparso di miele del nume del numero, che tutti attira per infine decerebrarli. Offriva su richiesta scialuppe di salvataggio: ovviamente, però, sulle rapide.
Gli antenati di Franco erano non solo i grandi inventori e artefici di visioni, ma anche i giocosi acrobati formati di fumo, gli antilirici balbuzienti; lui aveva come pochi imparato a maneggiare gli archetipi e le sostanze elementari, e a cavarne i succhi venefici, però con un guizzo improvviso gettava via il suo mantello di sciamano, le stelle e tutto, resistendo a corpo nudo alla fottuta freddura, in ossequio al suo primo principio: l’irriverenza. A Franco non era sufficiente la bacchetta della poesia: batteva il terreno con i piedi alla ricerca delle radici perdute, oppure vi appoggiava l’orecchio alla maniera indiana, per sentire risuonare l’eco delle popolazioni morte. C’erano ancora voci, in fondo, in attesa di essere sprigionate. La notte, sognava piramidi a scalini di tipo babilonese e sentiva nel vento canti aborigeni. All’alba, con lucidità crudele, lasciava nelle carte le frammentazioni che vi fossero ancora rimaste. Poi le metteva in disordine e le faceva dirimere a suon di rime. Nelle cabalette demenziali delle sue quartine sperava che esplodesse tutta la risibilità che ormai minava le fondamenta della casa della poesia. Ne faceva non un impacco, ma un boomerang.
Animale anomalo, come volle chiamarsi con una straordinaria e significantissima paronomasia, sapeva stanare con grande astuzia quelle bestie delle parole e guardava sotto il pelame dei loro strani versi. Le faceva accoppiare, spesso, ottenendo ibridi sbalorditi e irruenti. Era convinto che qualcosa di nuovo potesse nascere soltanto dal moltiplicarsi della diversità e per questo evocava le lingue, le spostava, le provocava a moltiplicarsi. Non aveva nessuna misura, in ciò.
Abitava i vulcani. Portava i messaggi dell’utopia, addirittura in duplice copia: una utopia del linguaggio, che dice che si possa ancora parlare una lingua che non sia già tutta parlata nella lingua; e una utopia sociale, che dice la speranza che anche i corpi umani arrivino ad essere liberi. Ma erano messaggi sghembi, ben incapsulati nelle pallottole di un consapevole nichilismo, ovvero librati nell’aria zodiacale, appesi a racconti volanti. L’allegria del viaggio e l’allegoria del fallimento erano le due bandiere sovrapposte di questo infiltrato, al quale, nei varchi rischiosi, avrebbero sparato tutti, da destra e da sinistra. Inoltre, se l’utopia prevedeva la conclusione che “la Terra-di-mezzo ha una fine” e si tratta scoprire dov’è e arrivarci, Franco lo faceva intendere, ma senza illusioni e forse sapeva fin dal principio che non c’è altro che “Terra-di-mezzo”. Eppure molto ha fatto per contrabbandare i germi della patologia dell’antagonismo e per dimostrare, anche se solo nel “piccolo” – ma non è poco: anche perché tanto diventando grandi non è più possibile far quello – che la logica dei potenti trafficanti di parole, i dominatori incontrastati delle terre note e degli scaffali delle librerie, ebbene, non è poi mica l’unica possibile.
Certo, quanto a noi, non abbiamo intenzione di arrenderci e forse non sappiamo più farlo. Continueremo a cercare i passaggi della “Terra-di-mezzo”. Ma adesso, senza Franco, saremo più soli