INTORNO A EMILIO VILLA
Sarebbe certo tutta da studiare e da rivedere la zona “alternativa” e “sperimentale” della poesia italiana del secondo Novecento, e ancora di più– se ci fossero critici adatti e se non ci fosse una generale disaffezione alle direzioni altre – sarebbero da rivedere quegli autori che neppure ai “bei tempi”, quando l’avanguardia andava di moda, hanno ricevuto attenzione. E dunque ben venga la ripresa di interesse attorno all’opera di Emilio Villa, propiziata dalla recente pubblicazione, nel novembre 2014, dell’intera Opera poetica, per la casa editrice L’Orma, con la cura di Cecilia Bello Minciacchi, nella collana diretta da Andrea Cortellessa.
La trascuratezza della critica verso Emilio Villa, della quale faccio ammenda io stesso in prima persona, non è dovuta soltanto al fatto che il Gruppo 63 ha invaso per intero la scena degli anni Sessanta e si è impadronito della bandiera dell’alternativa letteraria anche nelle successive occasioni anniversarie; si è aggiunta anche l’indole dell’autore, schivo quant’altri mai e talmente insofferente del pubblico dal preferire la dissipazione dei suoi propri testi con pubblicazioni di scarsa circolazione. Se stiamo alla biografia curata da Aldo Tagliaferri (Il clandestino, pubblicato da DeriveApprodi nel 2004), il nostro autore manifestava antipatie a destra e a sinistra. Verso Pasolini: «Ai suoi occhi Pasolini incarna una eresia perniciosa e basta l’evocazione di questo nome per infiammare l’animo di Emilio, come accade una volta in casa dell’amico Marotta a Saxa Rubra, dove una ignara signora osa parlare con ammirazione del poeta friulano ed Emilio, inviperito, si produce in una scenataccia indecorosa, inveisce contro coloro che condividono la tesi della reproba e se ne va sbattendo la porta dopo avere sputato per terra e aver annunciato all’esterrefatto ospite che mai più rimetterà piede in quella casa» (ivi, p. 116). Non meno vivace è stata l’avversione per Sanguineti, «la cui presenza ha, e conserva nel tempo, la proprietà di mettere in agitazione Emilio» (ivi, p. 118). Estraneo ai raggruppamenti, dunque, anche perché essendo un po’ più anziano pensava non fosse stata adeguatamente riconosciuta la sua funzione di apripista, alieno da compromessi e in cattivi rapporti con il denaro e con la mondanità, vocato al disordine e al nomadismo, Emilio Villa preferirà le vie traverse, gli studi biblici, oppure la collaborazione con i pittori, manifestando per altro una assoluta disistima per il sistema istituzionale e per i critici in quanto tali («i critici sono la merda», è il suo apoftegma che compare in una lettera).
Tornare a Villa significherà anche distinguere le sue diverse fisionomie, i suoi diversi periodi. Nella prima parte della sua attività (fino circa agli anni Cinquanta, ma la datazione è resa problematica dalla differenza tra le date di stesura e quelle di edizione) c’è un Villa poeta civile, che muove dal disincanto del dopoguerra per le occasioni mancate, cogliendo lucidamente il configurarsi furbesco di un’Italia all’arrangiata (che egli scrive spesso con dizioni ironiche «Ytalya» o «Itaglia»), al di fuori di ogni mito reazionario o progressista. Dalla guerra che trascina indifferente il povero soldatino, la «minuta recluta da niente» (Dichiarazione del soldato morto, in Opera poetica, p. 85), al paesaggio e al «corpo lombardo» nelle stagioni dell’incertezza («una stagione sempre un po’ più in là»), in un tessuto poetico puntuto e disarmonico con guizzi popolari. Vedi:
e quanta masserizia più venale, e il rame, e i litri
con la tacca, e il bollo come un sole
di giustizia e libertà: muta
ormai la Singer:
e amene piantagioni dove a minger
rivavano le cagne, i cani-lusso: gli spadoni belli
e i mobili frasconi della tempra
dei prati dopopranzo con i giro esanofele, e la botani-
ca rionale dentro ceste marce, a chili e chili
E si noti come Villa, che aveva iniziato dal “Frontespizio” degli ermetici, abbia qui già bruciato l’impostazione tradizionale mediante l’uso di versi di lunghezza abnorme, gli apporti dialettali («rivavano») accanto a modernismi (la sintesi «cani-lusso»), le rime inusuali ad alto differenziale (Singer/minger: per i più giovani, ricordo che la Singer era la macchina da cucire, all’epoca immancabile attrezzo domestico), e persino la rottura della tmesi.
Ma già in E ma dopo (1950), qualsiasi residuo “contenuto” evapora in favore di una ritmica dialettica, che si qualifica esattamente come dialettica della contraddizione irriducibile, esemplare in Luogo e impulso: «Metà idea e metà frutto / metà rischio metà fame metà intero metà tutto / metà morte metà pane», ecc. (ivi, p. 139). E, pure, come disarmonia delle immagini:
L’oscura punta d’essere l’essere dell’essere
del crescere del salire: e struggere e segregare
senza pietà
senza armonia
il punto emblematico
della freccia disgiunta dallo sforzo
con impulso decrescente, verso il lacero
Senza nessuna fiducia nella società dei consumi, anzi, scontato il fatto dell’avanzante desertificazione culturale (sapendo che «non ci sono più pascoli inteneriti, più reliquie / di santi mastodontici misteriosissimi generosi disumani»), la poesia prende strade disagiate, inaccessibili. Procedendo nel tempo Villa perviene all’apice di un plurilinguismo inarrivabile (che mette davvero in scacco il critico, impossibilitato a eguagliare le competenze dell’autore), fatto di lingue straniere e di lingue morte come il latino e il greco, straniate anche le vive mediante un uso molto personale. E la fase tra virgolette più “sperimentale” sarà quella del Villa scrittore in francese, proprio nel periodo del riaccendersi delle pulsioni avanguardistiche degli anni ’60-70, in raccolte come Heurarium o sulle pagine della rivista “Ex”. Qui Villa sviluppa un accentuato intervento sul corpo della parola che lo porta a rivaleggiare con gli interventi più estremi, fino a fuoriuscire dall’ordine lineare della scrittura verso le prove della poesia verbovisiva. Da un lato, si ha un processo di frammentazione e smembramento che approda alla sillabazione e al balbettamento fonetico, molto spesso andando a scoprire le parole che giacciono mute, incastrate dentro le parole consuete, in una sorta di impazzimento etimologico (vedi un titolo come Hisse toi re / d’amour / da mou rire). Dall’altro lato si punta sulla disposizione grafica e sulla forma della figura, spostando nella pagina blocchi di testo, in colonne, in spirali, in incroci, in diagonali e quant’altro, tanto che alcuni testi, se li si vuole citare, è necessario riprodurli in anastatica per non perdere l’impostazione originale. Nei due esempi che ho collocato in appendice abbiamo: nella Fig. 1, tratta da un testo in prosa (L’homme qui descend quelque roman metamytique, ivi, p. 341), il testo è inserito dentro al disegno di un fiore a sei petali, per cui le frasi si leggono in una raggera di direzioni, da giramento di testa; ed è difficile capire da dove cominciare a leggere, mentre in fondo, nel gambo, troviamo brandelli di eco e tracce di negatività («âm gam gamme agam elle / âmgâmique / gr âm né ghâtive»). Nel caso della Fig. 2, che si trova nella sopra citata Histoire (1975, la VII soirée, ivi, p. 391), si possono notare tutte le diverse angolazioni, un po’ da calligramme, culminanti in quell’«oblique» scritto per l’appunto obliquamente, che è un termine programmatico della “obliquità” della scrittura; più diverse spezzature significative (tipo «per pet u elle»).
Linee di ricerca tributarie in parte dalle esperienze dada-surrealiste (e ci si mettano anche certe scritture di Artaud); in parte dalla spaziatura dei Cantos poundiani. Il tutto dentro una produzione, ancorché gettata al vento di plaquettes con gli artisti o in piccole riviste, tuttavia profluviante che trova infine alveo nella forma della “letania”, non solo quella, in francese, dedicata a Carmelo Bene, ma anche quella in italiano, dalla quale ricavo una strofa esemplificativa:
Ah, madonna imbambolata, imbambanita
in drappeggio in ovazione in tre pest’io!
Dopo il duemila stuona e perisce il firmamento, le trebisondole
tiran fuori da le balle la testa gli angioletti del water,
scappano le ombre omogenee del pater, grattate
le croste depositarie, la ruffa, lo sfaccimme, investite
le ghiandole per arie, per siepi, per calvari, per gondole
in vesti di Eredi Correnti, madona gandula
che il totem ti svenera, ti indora, ti adùla!
fiaccola accantonata in un cantone, va là va là.
Da cui si vede la magmatica del testo, gli apporti del dialetto e del parlato, l’azione combinata dei vari procedimenti linguistici di scomposizione (“tre pest’io”), deformazione (“rebisondole”), eco (“accantonata in un cantone”), associazione sonora (“water”-“pater”). In questo caso si comprende bene come la forma religiosa della litania si applichi a un processo di dissacrazione. Del resto, sia pure in attesa di più attente e capillari analisi testuali, la mia impressione è che al fondo della poesia di Emilio Villa ci sia una tensione complessa tra una spinta oracolare al superamento della lingua d’uso verso un coacervo extratemporale dalla oscurità invincibile e un gesto fortemente autoironico di abbassamento e di fallimento, nell’incespicare del testo, nel suo balbettare, nello sprofondare nel trou (per usare un termine-chiave dell’ultimo Villa). La voce profetica della “Sibylla” non corrisponde a quella della poesia – c’è tra di loro un “patto” che si è rotto – e comunque si ritrova a mal partito, in altalene ossimoriche (così: «Ti chiamo a gestire questo rotolante imperversante silenzioso / caos la limitata tempesta del nostro indiavolato nascondimento»). Insomma, la poesia è un verboraculum, per usare il titolo dei pezzi villiani in latino, sia nel senso del verbo+oracolo, che in quello del verbo-gracula, la pronuncia imitativa e gracchiante di un “merlo parlante”.
Come ha scritto Mario Lunetta, uno che ha sempre seguito l’autore con interesse e compartecipazione, «Villa è un poeta sempre in caccia – di parole e di afasie, di nessi sintattico-ritmici inediti e inauditi, di alterazioni possibili e impossibili, in una tensione poverissima di speranze a buon mercato, e tuttavia incredibilmente ricca di ipotesi indicibili: costruzione continuamente destrutturata di un’ipercomunicazione autogenerativa e perturbata da incessanti flussi di provenienza svariata, ridotti a (instabile) sintesi, a unità che anela allo smembramento. Ciò spiega perché in questa poesia l’abisso non è mai attrazione spiritualizzante ma “cosa” perdutamente mondana, segno nichilistico della materia» (Invasione di campo, Lithos, 2001, p. 153).
Difficile è trovare conferme nelle dichiarazioni dell’autore, essendone stato egli assai parsimonioso, se la sbrighi il lettore da sé senza “aiutini”. Tuttavia, nella raccolta complessiva si può leggere un tasto, databile attorno agli anni Ottanta, intitolato Poesia è, che contiene una poetica in versi. Il titolo promette una predicazione, però la tiene in sospeso mentre il testo risponde con una quantità di definizioni e di direzioni nelle quali è assai difficile raccapezzarsi. Prendiamone alcune dall’inizio:
poesia è evanescenza
(…)
poesia è guida cieca a un antico
enigma, a un segreto inaccessibile
(…)
poesia è se-parare sé dal sé
(…)
poesia è svuotamento senza
esaurimento
Dove si vede il progetto di distanziamento dal mondo pratico in una condizione fantasmatica e indefinibile, profondamente contraddittoria, dove il massimo si rovescia nel minimo, una esperienza-limite alla Blanchot. E leggiamo ancora verso la fine:
poetare è fare spiragli, produrre crepe,
segnare filiture dentro il
sipario, dentro la Parete
Sbarrata
A segnalare il lavoro interstiziale della scrittura. Concludendo infine:
poesia è così
è così e così
e così via
ironica riaffermazione della pluralità della scrittura che solo in quanto dispersa per mille rivoli può sperare di non essere afferrata e asservita al senso comune.