ELIO PAGLIARANI

MONTAGGIO E STRANIAMENTO: LA MODERNITÀ RADICALE DI PAGLIARANI

C’è una logica corrente che considera l’avanguardia come una lotta della forma contro il contenuto: e su questa base, cerca di strappare all’ambito avanguardistico quegli autori nei quali è riscontrabile e riconoscibile un trattamento dei contenuti — e così accade spesso a Pagliarani, nelle nuove avanguardie degli anni Sessanta, di essere tirato fuori dalla poetica “novissima”, quasi depuratone e fattone salvo, riassorbito in più calme acque. Ma se s’intende l’avanguardia, come sarei propenso a ritenere, come lotta doppia nelle forme e nei contenuti, quella operazione di elisione viene a cadere e si tratta piuttosto di considerare dove e quanto il “senso comune” (formale e contenutistico insieme) venga intaccato e deformato. È quello che mi propongo di accertare riflettendo sul senso di una tecnica come quella del “montaggio”, che mi pare essenziale a caratterizzare il versante della modernità radicale, nozione preferibile e alternativa all’invalsa formula del postmoderno.
È vero, Pagliarani può anche essere con ragione caratterizzato da altri fattori: ad esempio, dall’atteggiamento del narratore in versi che, nella poesia-racconto, costruisce un intreccio, una continuità di personaggi e vicende, e, almeno nel caso della Ragazza Carla, una sorta di percorso di maturazione della coscienza, si potrebbe dire di itinerario di formazione. Ed è altrettanto vero che alcuni suoi testi sono carichi di rabbia, e dunque di un sentimento non a torto attribuibile all’espressione dell’interiorità dell’autore. Tuttavia, questi aspetti della testualità di Pagliarani, siano essi di tipo oggettivo (personaggi e relazioni tra essi) o soggettivo (esplosione della sostanza individuale), non possono accamparsi come centri decisamente unificanti o comunque non sono messi in grado di omogeneizzare il testo per intero. Perché, come minimo, si crea uno scarto proprio tra di loro, ossia tra il racconto dei personaggi e l’intromissione della voce autoriale, tra il registro narrativo e quello lirico (o antilirico che sia; come vedremo). Il principio del montaggio soprintende appunto alla giunzione di prospettive scrittorie di genere diverso e denota quindi un gusto particolare e nuovo per le mescolanze e per gli attriti. Un gusto, diciamolo subito, che va contro proprio al presupposto classico che voleva l’opera “organica”, unitaria e dunque sottoposta al governo di uno e un solo elemento. Non a caso i classici aborrivano il  “mostruoso” e, per bocca di Orazio, bandivano dal regno del bello le creature polimorfe, come l’essere con la criniera di cavallo o la donna con la coda di pesce: fuor di metafora, rifiutavano l’unione di moduli prelevati da contesti allotri, abusivamente messi in comunicazione. Quella combinazione che all’antica ars poetica sembrava assomigliare ai “sogni d’un malato” (“aegri somnia”), a noi torna, adesso chiamata “montaggio”, come la migliore espressione delle nostre patologie contemporanee.
Magari Pagliarani non tratta di donne con la coda di pesce (anche se ci sono pesci, e pescatori), né di teste cavalline. Presenta, tuttavia, in un brano della sua Lezione di fisica, un animale che sembrerebbe proprio “undique collatis membris” (con le membra prese alla rinfusa). È  il «conigliopollo», razza bizzarra, che spunta fuori — non senza sorpresa — nel cuore più profondamente economico della questione, e vi si inserisce con l’aria apparentemente divagante di un esercizio di logica. È la soluzione, così tortuosa da risultare surreale, di un problema matematico: in un cortile che contiene conigli e polli si contano in totale 18 teste e 56 zampe — quanti animali ci sono? L’attento scolaro (Pagliarani dichiara in nota di citare da un libro umoristico francese ispirato a sua volta agli svarioni studenteschi) parte presupponendo l’esistenza di un animale misto, davvero anti-oraziano, il «conigliopollo», cui alla fine si deve sottrarre un curioso e speculare animale negativo, il «coniglio spollato» («Si sottrae / un pollo da un coniglio l’animale che avanza è il coniglio spollato»), per arrivare dopo questo percorso di mirabilia alla soluzione giusta, «otto polli e dieci conigli». Ora, il «conigliopollo» («una specie di animale / a sei zampe e due teste») è per l’appunto il frutto di un montaggio, sebbene di tipo solo “mentale” e non di architettura genetica. Se si pensa che questa formazione di un anfibio abnorme costituisce la parte di una sequenza in cui viene alternata con pezzi assai diversi (ad esempio, brani della semiotica di Rossi-Landi), ci troviamo davvero in un montaggio doppio: un montaggio “tematizzato”, nella figura della buffa mistura animale, e un montaggio — nello stesso tempo — “eseguito” nella concatenazione testuale.
Ma, si dirà, questo è ovvio. Proprio la Lezione di fisica, al centro degli anni Sessanta, è infatti il testo maggiormente contagiato da e compromesso con le esperienze dell’avanguardia e non c’è da stupirsi che in questo periodo di collages e di patchworks, il montaggio venga a caricarsi della più forte intensità eversiva. In Lezione di fisica possiamo addirittura rinvenire due tipi di montaggio, che andranno addebitati, rispettivamente, ai due versanti soggettivo e oggettivo. Il primo montaggio è quello che intercala al testo le riflessioni dell’autore, con esito sostanzialmente autocritico; si potrebbe anche parlare di inserto metapoetico, che comporta il giudizio interno sulla costruzione stessa, nel mentre si va facendo. Questa occorrenza appare soprattutto nella prima parte della raccolta, e costituisce la chiave di volta dell’abbassamento del tono lirico; ad esempio, ne La pietà oggettiva:

(…) Lo vedi anche tu
siamo in un ottocento d’appendice, non si può cavarne una storia
nemmeno da mettere in versi (…).


E verso la fine, un nuovo scarto:


Non è lo stesso? Ho scantonato? Dovrei insistere
coi trofei di Lucia irridenti nel mio bagno?
Meglio sciupare la composizione
con un brutto commiato. (…)

per concludere sull’impossibilità della “salvezza” per via poetica («qui non si salva la tua né la mia faccia»), l’impossibilità della “catarsi”. Così, in quel libro più lungo che largo, la figura dell’autore interviene con funzione di correzione e di negazione. Più che un montaggio, abbiamo, in questi casi, una “ferita nel testo”, una sorta di “grande iperbato”, un décalage della voce che scende di tono, come del resto avviene con i frequenti cambiamenti di pedale nel ritmo di Pagliarani, ottenuti a volte con le parentesi, a volte con i corsivi — e diciamolo pure, tentando una prima sintesi, che il montaggio e lo straniamento sono funzioni, in definitiva, di quel senso ritmico della dissonanza, dello scarto nel tono della voce, una specie di ribellione corporea all’armonia, essenziale nella scrittura del nostro autore.
Il secondo tipo di montaggio (che è montaggio vero e proprio) si intensifica soprattutto nella seconda parte della raccolta, il Fecaloro. È il collage di frammenti provenienti da contesti diversi e in particolare dai linguaggi scientifici (la cui presenza è già annunciata in un titolo come Lezione di fisica). Si tratta, in questi casi, di un linguaggio-oggetto, prelevato così com’è, e posto a fare da variazione e contrasto con il linguaggio tipico della poesia. Qui conta il grado di differenza dei brani accostati e le linee di interruzione tra gli uni e gli altri. Vediamo alcuni esempi, a partire da questo mix di avvertimenti di bon ton, storia finanziaria e polemica anti-atomica (da Casa Serena):

(…) e se capitate all’ora di cena evitate per favore
di esaminare troppo insistentemente i piatti degli ospiti essi non hanno la minima intenzione di invitarvi a sedere con loro Abbiate insomma
un’aria sazia, disinteressata, televisiva
il 13 gennaio dell’anno 1845 veniva fondata la Cassa di Risparmio di Lugo L’uomo
avrà la meglio sulla bomba: operativamente che vuol dire?

O ancora la commistione, in Fecaloro, tra un brano di psicoanalisi sul rapporto merda-denaro (tratto da Fachinelli), visuali sui pesci e su una giornata marittima inquietante («Scirocco sui quaranta, tira scirocco sulla bocca dilatata dello stomaco / dei quaranta mi accarezzo la pancia e il significato»). Basti vedere questa cerniera:

(…) il denaro
quasi il contrario dello scorrevole “visibile Dio” da noi conosciuto
cominciare a distinguere i denti: i denti centrali superiori
ampiamente triangolari, seghettati ai margini; il colore non ha particolari
nero grigiastro scuro sul dorso, sfumature bianche sulla parte inferiore
larghe carene ai lati della coda, due pinne dorsali: (…).

e così via. La prima riflessione da fare su questi inserti di tipo scientifico o storico-politico è che attraverso di essi entra nella poesia, che di suo si rivolge al quotidiano-individuale, una sorta di “principio di realtà” che porta il discorso dal livello personale al collettivo. Dopo tutto, allora, i due tipi di montaggio che ho descritto, quello del commento dell’autore e quello del prelievo citazionale hanno la stessa funzione, che è di abbassamento e quasi di ancoraggio della sublimazione poetica.
Fin troppo la poesia si propone come linguaggio “unico”, superiore agli altri per facoltà rivelativa, catafratto nel suo “stile” elevato e ineffabile: ecco allora che l’inserimento degli altri linguaggi vale — qui, proprio pedagogicamente, sta la lezione — come apertura verso la pluralità delle espressioni verbali possibili. Non per nulla, il brano con cui si interseca quel problema di «coniglipolli» di cui sopra  è ripreso dalla semiotica materialista di Rossi-Landi che tratta del “linguaggio come lavoro”, e insiste sul meccanismo del valore basato sulla “separazione” di un elemento (La merce esclusa, appunto). Il testo, dunque, sottolinea il problema della separazione e della astrazione (nella produzione di merci o di parole è lo stesso), nel mentre contravviene alla norma spiritualizzante con l’accostamento indebito dei linguaggi separati, usando in funzione creativa quella lingua tecnica e razionale che dovrebbe servire, al massimo, nella sede del commento esterno.
Né si tratta di una mescolanza omogeneizzante o indifferente. Vi sono invece evidenziate — è lo stacco del ritmo che lo vuole, innanzitutto — le linee di rottura, i differenziali agli estremi, i gradini e i dislivelli. Ciò carica il montaggio della istanza dello straniamento (non casuale l’incontro con Brecht in posizione di clausola forte: «Ma se avessi soltanto bestemmiato / allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto / perdonateci a noi per il nostro tempo»). Straniamento, in quanto è certamente strana e incongrua, e quindi sorprendente, la consecuzione di frammenti eterogenei; ma straniamento anche nel senso di una critica implicita, che demistifica la sostanza poetica, troncando il suo andamento normale e immettendo livelli “prosaici” di discorso, allusivi di una base materiale che sta fuori, ma torna continuamente con l’assillo del rimosso. A differenza dell’impegno, che pretendeva di tradurre integralmente il mondo della vita politico-storica nel linguaggio della poesia, mantenendo quindi intatta l’allure poetica (e questo limite è scontato anche in poeti “scandalosi”, come Pasolini), Pagliarani si rende conto che anche la forma normativa della poesia deve essere modificata dall’interno e non può farlo altrimenti che accogliendo la “differenza realmente esistente”, come una irruzione nel suo proprio contesto. I brani del montaggio, allora, devono essere costituiti da rapporti di scarto e di conflitto. Quella di Pagliarani è una poetica dello “stridore”, che percorre la sua opera dalle Cronache (dove si parla di «pubblico stridore») alla Lezione di fisica, che così indica il rapporto tra “amore” e “intelletto”:

amore e intelletto nemmeno servono
a definire se stessi, ma per quant’altro poco sappia della vita
quanto attrito che brucia, assieme come sono stridenti!

Il procedimento del montaggio non è solamente intellettuale, ma è connesso a una “passione” resa acuta, estremizzata, sempre inclinata nella protesta e nella carica dinamica della rabbia («andrò avanti a bile e umori a me non mi occorre inventare rancori»; è la conclusione del Fecaloro) e dunque è il percorso di una linea corrosiva che si ripercuote su tutti i livelli testuali. L’importanza della “attività politica” e della “ricerca scientifica”, che Pagliarani sostiene anche in sede teorica, non viene diminuita, ma anzi è accentuata dal fatto che queste istanze devono farsi strada, come voci escluse che entrano improvvisamente nel dibattito o come fughe per la tangente del discorso, in mezzo al materiale della instabilità e della crisi esistenziale e psicologica.
Ora, non sarà inutile fare un passo indietro e uno avanti, per vedere come questa disposizione al montaggio straniante non sia presente solamente della fase più legata alla attività del Gruppo 63, ma si imponga, sia pur in vario modo, lungo tutto l’arco della produzione poetica di Pagliarani. Vorrei trarre ulteriori testimonianze da La ragazza Carla (un testo in buona quantità compreso nei Novissimi, quindi da intendere come leggermente precedente alla formazione della neoavanguardia) e da La ballata di Rudi (testo a più fasi, che l’autore ha continuato a rielaborare in un lungo arco temporale, fino agli anni Novanta). La Carla e il Rudi sono due “romanzi in versi” e con questa dizione sono stati per altro riuniti in volume. La loro ossatura narrativa dovrebbe garantire un filo di progressione, quindi una coerenza opposta alla frammentarietà dispersiva del montaggio. Questo è vero soprattutto per la Ragazza Carla, incentrato com’è quel poemetto sulla vicenda del personaggio della giovane segretaria e della sua iniziazione-educazione alla implacabile logica del nuovo mondo lavorativo aziendale. Partita in precise coordinate di spazio umano:

Di là dal ponte della ferrovia
una traversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, di Angelo e Nerina;

e conclusa, secondo la parabola del romanzo di formazione, con il compromesso dell’adeguamento al “trucco”:

(…) Carla ha la faccia seria mentre provano
allo specchio, mentre Nerina insegna e Carla impara
a mettere il rossetto sulle labbra: (…);

tuttavia, la storia — riguardando un ambiente collettivo di apprendimento e di lavoro, insomma un intero milieu sociale — si presta non solo alla coralità, ma anche all’inserzione di materiali bruti, che si intercalano al racconto vero e proprio come blocchi erratici di linguaggio oggettivato. Sarà la barzelletta del collega, ma sarà anche il manuale di dattilografia, che si intrufola tra le righe degli aneddoti goliardici della scuola:

Qui di gente un campionario: sei uomini e diciotto
donne, più le due che fanno scuola
                       Nella parte centrale del carrello, solidale ad esso
                        ecco il rullo
C’è poca luce e il gesso va negli occhi
                        Nel battere a macchina le dita
                        devono percuotere decisamente
                        i tasti e lasciarli liberi, immediatamente
Come ridono queste ragazze e quell’uomo anziano che fa steno (…)

dove i diversi piani devono essere “recitati” (sono poesia da recita, lo sappiamo) diversificando i toni di voce; e ancor di più si inarca nella narrazione il brano, parzialmente tradotto, di un interlocutore che afferma, davvero profeticamente, l’avvento della “terza guerra mondiale”:

A third world war
FONDAMENTO DEL DIRITTO DELLE GENTI, L’ISTITUTO
DELLA GUERRA E’ ANTICO QUANTO GLI UOMINI A DIRIMERE
LE CONTROVERSIE FRA GLI STATI, SIA PURE COME EXTREMA RATIO
(…)
A third world war
Is nécessary, né-ces-sa-ry, go on translate my friend
sporgendo il petto in fuori come un rullo e fronte dura
e io certo ho tradotto, che faccio il traduttore,
che ce ne vuole un’altra, un’altra guerra.

In questi passi, Pagliarani immette proprio quel plurilinguismo che caratterizzerà l’esperienza delle nuove avanguardie: un plurilinguismo sincronico, nel senso che attinge dal ventaglio della proliferazione dei linguaggi, da lingue straniere vere e proprie (portate non a caso, nella storia raccontata, dalla commistione degli affari con l’estero: la globalizzazione ineunte), e da quelle parole straniere che si sono ormai diffuse nei linguaggi tecnici e tecnologici. Il fatto è che il poemetto narrativo ha nel suo epicentro il nuovo problema della modernità urbana, ovvero l’alienazione. Ed è per questo, allora, che il racconto non solo patisce soprassalti nel ritmo dei versi e delle strofe, ma patisce (o sfrutta, perché se ne giova, alla fine) effetti di scorcio e sovrapposizione, dove discorsi e fatti, affastellati nell’intreccio comunicativo, prevalgono sull’unità psicologica dei personaggi: è logico, perché l’alienazione è proprio la perdita di sé come personaggio. Gli inserti si infilano in questi scompensi, in queste fratture dell’unità narrativa, e costituiscono la punta d’iceberg di una tensione (di una “mancanza a essere”) che continuamente inquieta la trama.
Ma c’è di più. Alienazione significa coscienza insufficiente. Perciò il foro interiore del personaggio deve essere di continuo abbandonato e guardato dall’esterno, interpretato e sospeso nelle sue prime motivazioni (ad esempio: «Solo pudore non è che la fa andare / fuggitiva nei boschi di cemento»). La necessità di oltrepassare i paraocchi dell’ “io” porta ad aggiungere a quella limitata dell’attante una prospettiva generale, un punto di vista collettivo sostenuto dalla voce di un narratore anonimo. Nascono allora i corsivi che costellano il poemetto di Carla, veri e propri cori che costituiscono il commento della vicenda, il suo straniamento su di un piano etico-sociale. A volte si tratta solamente di squarci lirici dentro l’esposizione narrativa — e in questo caso sarebbe la lirica (sebbene non si possa mai dire quanto semplicemente lirica sia) nel ruolo straniante e la narrativa in quello straniato. Prendiamo questo sbalzo:

forse dice fra i denti almeno questo
le facesse la guardia l’impiegato
             Autour des neiges qu’est ce qu’il y a?
            Colorati licheni, smisurate
            impronte, ombre liocorni
            laghi cilestri, nuvole bendate (…);

certamente un passaggio dal pratico-strategico dei convenevoli al “poetico astratto”: tuttavia lo stretto accostamento porta a domandarsi il “perché?”, e il brano acquista allora una sfumatura allegorica. Come dire: di fronte alla costrizione dell’ambiente e all’obbligo della maschera sociale non resta che allontanarsi mentalmente nello scenario di purezza e di freddezza dell’alta montagna, con i suoi connotati di inaccessibilità e dismisura.
Ma, accanto al richiamo analogico (l’invasività dell’eros evoca immagini cinematografiche: «Sagome dietro la tenda / Marlene con il bocchino sottile»), la funzione propria dei cori-corsivi è quella di enunciare la morale che percorre l’intero testo, vale a dire la morale dell’adattamento («Necessità necessità verbo dei muti»), che non significa però rinuncia all’opposizione, piuttosto che per fare vera opposizione bisogna guardare in faccia alla realtà e evitare le vie d’uscita e compensazione illusoriamente individuali. L’opposizione non è una facile pretesa “ideale”, ma un pesante lavoro “nelle cose” sociali e storiche, una politica viva che deve fare i conti con la materialità e caducità dell’uomo. Così il corsivo finale:

Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro, svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento.

Per cui si può dire che il montaggio, ne La ragazza Carla, contribuisca a sbalzarci fuori della vicenda e del suo esito, fuori dall’adesione ai personaggi, per cogliere il problema complessivo in cui essi sono immersi e noi con loro. La rappresentazione del quotidiano vale a mostrare nel suo corpo vile la “sostanza” profonda della politica (che non farà nulla se non convincerà la “vita privata”); ma nello stesso tempo il quotidiano deve essere salvato dalla mera riproduzione “minimalista” che lo chiuderebbe nella gabbia limitante del patetico.
Quanto a La ballata di Rudi, si presenta anch’essa come un poema narrativo che mette in scena personaggi e situazioni, e arriva fino a punti fortemente prosaici. Tuttavia, mentre la storia di Carla aveva una sua continuità, aperta sì da scorci e ellissi, interruzioni e approfondimenti, ma legata a una crescita, la storia di Rudi è un insieme caotico e dalle linee contorte: intanto, non è la storia solo di Rudi (fin dal primo verso, abbinato ad altri: «Rudi e Aldo l’estate del ’49…»), si interseca con la storia di Nandi, l’altro amico strambo, con quella di Armando il tassista clandestino e i suoi traffici con pazzi e affaristi, è la storia della zia Camilla che si mette a giocare in borsa, è insomma una storia che si sfilaccia in tante storie. È una poesia di lavoro, con tutto il passaggio epocale da un lavoro povero come quello della pesca alla tratta («A tratta si tirano le reti a riva», è la sezione IX), alla pressione del ritmo industriale marcato da un “ritmatore” luminoso (nella sezione XVIII, che è quasi una pura prosa con tagli assai insensibili all’armonia poetica), alle facili fortune del sottobosco o del miracolo economico; forse per venire a capo di questa aggrovigliata “sostanza umana”, a un certo punto, Pagliarani ha deciso di fare dei suoi contenuti la base di una serie di variazioni formali, costruite sul ritorno dello stesso schema sintattico, il «proviamo ancora», tanto particolare da diventare volume a sé stante, con il titolo Rosso corpo lingua (pubblicato dalla Cooperativa scrittori nel 1977). Accade cioè che, dai luoghi “realistici” iniziali l’autore parta per la tangente e arrivi a realizzare uno dei suoi testi in assoluto più astratti, in cui davvero sembra prevalere quel “primato della struttura” che Giuliani aveva collocato a caratterizzare la poetica “novissima”. Uno schema sperimentale, che precederebbe quasi, prefissato com’è, la realizzazione in parole. Sennonché, per Pagliarani, le parole non sono mai un significante puro, vuoto e fungibile in modo arbitrario; le parole sono sempre “pesanti” e infatti i termini che vengono trattati e messi alla “prova” nello schema sono di quelli ad alta gradazione simbolica, il colore «rosso» (colore del sangue e della rivoluzione), il «corpo», la «lingua», l’«oro», il «pope» (cioè la religione) e la «scienza» — tutti i termini-chiave del conflitto capitalistico. Poi Pagliarani ha ricollocato la sequenza dei «proviamo ancora…» nel contesto della Ballata; come a dire che quella era, non già l’esito esterno, ma soltanto una delle possibilità della sua scrittura in ricerca. Sicché, nella sua veste definitiva, la Ballata nel suo complesso davvero le “prova” tutte e nel farlo si presenta come un “poema a pezzi”, che non a caso è completato dall’aggiunta di ulteriori frammenti tratti da un’altra opera dell’autore, La bella addormentata.
Operazioni di taglio interno sono ancora presenti: intervengono le parentesi e i corsivi, blocchi di testo vengono spostati nello spazio della pagina (la quale pagina, data la lunghezza dei versi, deve ancora una volta essere stampata in verticale) per sottolineare la loro autonomia, diversità e natura difforme. Vediamo questo passaggio dal dialogato a una strofetta ironica e dissacrante (dalla sezione XIX; il tema è quello finanziario della borsa):

(…) ma c’è il Toro ora in Borsa, non c’è l’Orso, spiegava l’altra sera Rudi al night
dove non so se lo vedremo ancora, dice Marco sottovoce, perché anche lui ora    lavora in Borsa
fa il remisier per sua eccellenza Coccia il rappresentante del Vaticano sulla piazza di Milano
C’è il Toro e non c’è l’Orso
avanti a tutto spiano
chi seguirà il mio gioco
sarà re di Milano
come Sindona, Calvi
e tutta la compagnia
la più bella che  sia

                         la più ricca che ci sia.

È significativo il fatto che anche nella sperimentazione ritmico-sintattica dei «proviamo ancora…», e precisamente nella parte — la più importante? —incentrata sull’«oro» (numerata con la sigla A I), la ripetizione del modello viene sospesa, a un certo punto, per lasciare il posto alla pubblicità di una banca, di nuovo quindi con notazioni prelevate da testi altri (da linguaggi propriamente non poetici), e per tornare solo successivamente all’andamento dello schema. Si tratta di una vera e propria variazione della variazione, o meglio di dialettica tra variazione e non-variazione, che non a caso interviene in concomitanza con il termine-chiave dell’intero sistema. Qui anche il titolo è leggermente modificato da un cambio di persona, dalla prima alla terza: non più il collettivo onnicomprensivo e in accordo del “proviamo”, ma un «provano», che vale da messa a distanza e da rifiuto a collaborare con l’ideologia e il feticismo dominanti. Leggiamo il brano:

provano ancora con l’oro: oro, un nugolo di dollari carta, poi oro su oro in lingotti avessero Nandi
oro su oro sbarrato dall’oro, un punto sette punti dell’oro se avessero
il punto di fusione dell’oro, dell’oro che cola in un angolo, mobile oro su sbarre
d’oro intasate dall’oro, che segue i bordi dell’angolo, deborda oltre l’angolo
d’oro si sparge sul tempo dell’oro fin dentro il midollo dell’osso del tempo
UN NUOVO SERVIZIO DELLA CASSA DI RISPARMIO DI ROMA
FUSIONE E SAGGIO DI METALLI PREZIOSI
le operazioni di fusione e saggio dei Metalli Preziosi sono compiute                                                    [nell’ambito del Laboratorio Scientifico
di Ricerche fisiche del Servizio Credito su Pegno da personale qualificato                                                             [con l’ausilio
di Apparecchiature modernissime di alta precisione in Piazza Monte di Pietà. Il  riccio campione
nella sua lastrina di piombo rovente: il piombo si ossida trascina i metalli vili e il                                                                                             [globulo
d’oro, e provano ancora con l’oro: non si dà oro sgomento dall’oro.

Non è l’incrinatura locale di una continuità di fondo, ma il montaggio diventa criterio strutturale che si ripercuote sui singoli pezzi. L’ultima fase poetica del nostro autore, caratterizzata da una forma breve, frammentaria e violentemente epigrammatica, opererà proprio attraverso il prelievo citazionale, il bruto ritaglio, ma non con innocente giocosità e neppure con gusto della “contaminazione”, quanto piuttosto con modi di “attualizzazione” forzata del linguaggio del passato, scagliato contro la blanda fruizione dell’“eterno presente” postmoderno.
In conclusione: il montaggio in Pagliarani non è un gioco e neppure una abilità tecnica fine a se stessa. È il portato di una istanza etica, beninteso di un’etica senza ideali e senza illusioni. Sta qui il suo carattere di modernità radicale, nel mettere in questione qualsiasi abbellimento spirituale (“poetico”) e qualsiasi facile promessa di redenzione a buon mercato. Se lirica c’è, è una lirica di tipo “duro”, materiale, non consolatorio, capace di rinunciare anche alla dignità della forma “alta”, come invece non hanno saputo fare fino in fondo neppure le figure pur ragguardevoli della Tradizione del Novecento, quella modernità moderata che è andata a costituire la linea centrale del nostro Canone recente.
Nella modernità radicale, invece, la poesia rifiuta di presentarsi come compensazione o sublimazione dei mali del mondo. Fin dall’inizio, Pagliarani compie una operazione abrasiva sul patetico e sul “compatetico”; fin dalle Cronache (e siamo all’esordio, nei tardi anni Quaranta): «Non ho avuto pietà di questa gente / che mi offende negli occhi ogni mattina»; passando poi per Inventario privato (tardi anni Cinquanta), dove rintracciamo questa folgorante sentenza: «lo spirito umano ha più bisogno / di piombo, che di ali». E ancora duramente pedagogica sarà La ragazza Carla, persino spietata nell’invocare il “principio di realtà” della lotta per la vita, rispetto al comodo “principio del piacere” che alletta e inganna con i suoi “specchietti da allodole”. Mentre,

Ecco ti rendo
i due sciocchi ragazzi che si trovano
a casa tutto fatto, il piatto pronto
Non ti dico risparmiali
colpisci, vita ferro città pedagogia
I Germani di Tacito nel fiume
li buttano nel fiume appena nati
la gente che s’incontra alle serali.

E a espellere qualsiasi precostituito valore universale, Lezione di fisica rinuncia alla stessa “nozione di uomo”, troppo pretenziosa e “antropocentrica”; e lo fa con una di quelle intrusioni riflessive della voce autoriale («E un essere solo / non è mai forte, né può amare e misurare l’intelletto. // Pensa che avevo scritto un uomo solo / poi con rigore ho cancellato l’uomo / per un essere»).
Ecco, ritengo che sia proprio da questo “rigore” che nasce l’uso della tecnica del montaggio e lo stesso autore lo suggerisce in alcuni passi. Il primo, nel corsivo-coro finale de La ragazza Carla:

non c’è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dall’amare
altri, anche se amare importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto
la vivanda, o sradichi dal fitto
pietà di noi e orgoglio con dolore.

con quella bellissima (e quanto significativa) rima equivoca, quella poetica dell’amore però non garantito ma esposto a tutti i guasti, e — più importante per il mio discorso odierno — quello “sradicare” che comporta strappo e frantumazione (dunque la premessa di parti disgiunte e di accostamenti repentini).
Ma ancora più esplicita è Lezione di fisica, quando ferma le immagini delle rivolte anarchiche su questa parentesi: «(Però guarda come al lamento / il verso si fa compiacente, niente è più facile di questo ma io lo spezzo)». È “facile” lenire le sconfitte storiche con la blandizie del verso: anche il ritmo (in cui Pagliarani è maestro) ha bisogno di scontrarsi con l’antiritmo, di produrre quella dissonanza che, ora lo vediamo bene, è il portato dell’urto dell’etica sull’estetica.
Un’altra “finestra” decisiva si apre nella sezione del “proviamo ancora”, ne La ballata di Rudi, là dove è messa alla prova la “lingua”; e si dice:

lingua rossa del corpo del rosso, lingua del cerchio creato da lingua e da lingua                                                                                                                                                [spezzato

mistica lingua del rosso mistica lingua del corpo mistica lingua del cazzo
(se è mistica è del privato, Nandi non sa che farsene,
se nel codice è già incastrata, Nandi ti abbiamo fregato).

La lingua della poesia proviene dal corpo, ma in quanto pura “espressione” di un soggetto, rischia di “sacralizzarlo”, in quanto lingua “mistica”, che esaurendo in se stessa, nel proprio “cerchio” autonomo, tutte le energie, finisce per rientrare nel “codice”. In quanto sciolta dalla vita concreta, serve esattamente alle esigenze del sistema che governa quella vita (per questo colui che lotta per “cambiare la vita” «non sa che farsene»). Per portare davvero la lingua della poesia fuori del codice — sembra dirci qui Pagliarani — occorre oltraggiare il suo “corpo mistico”, il suo “corpo lirico” (in altre parole: mettere in questione il suo “valore simbolico”). Là dove la lingua crea attorno a sé un “cerchio magico”, occorre “spezzare” il cerchio, uscire fuori dalla passività del fascino e — con lo sguardo obliquo dello straniamento — guardarsi dall’esterno e “sradicare” faticosamente il condizionamento oggettivo delle nostre parole e delle nostre immagini. L’avanguardia, che continua al di là dei confini delle comode storicizzazioni, ha da insegnarci soprattutto questo.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: