UN POLITICO PRESTATO ALLA LETTERATURA
Vorrei cominciare dalla dichiarazione che Edoardo Sanguineti rilasciò quando era candidato alle primarie per l’elezione a sindaco di Genova, nel 2007: alla domanda di un intervistatore se si sentisse un poeta prestato alla politica, affermò il contrario, di essere un “politico prestato alla letteratura”. Questa battuta, detta con assoluta serietà, non voleva soltanto sorprendere ribaltando la banale espressione del giornalista, ma condensava magistralmente la posizione dell’autore: prima ancora di considerare le scelte tecniche della scrittura, prima ancora del suo ruolo intellettuale, viene per lui la scelta poltico-culturale che è decisiva e dà propulsione a tutte le specifiche operazioni; insomma, in versi, in prosa o sulla scena, abbiamo qui un coerente e non pentito comunista, precisando però subito che, nella sua prospettiva, il comunismo è autentico solo se non dimentica di tendere all’esaudimento della “pulsione anarchica”.
Nato a Genova nel 1930, poi dai 4 anni a Torino, Sanguineti racconta così l’incontro con la politica, a partire dalla scoperta giovanile della differenza di classe: quando ha dieci anni (quindi nel 1940), durante una partitella a pallone, conosce un ragazzo un po’ più grande che fa l’operaio: «fu la rivelazione che esistevano persone al cui mondo non partecipavo, e che erano, in qualche modo, di un’altra razza». Comincia da quel momento di “presa di coscienza” un impegno che non verrà mai meno, uno schieramento sempre non nascosto, anche se senza tessera di partito; e anche se la vita politica in senso stretto – quando sarà eletto parlamentare come indipendente di sinistra (1979-1983) – lo lascerà molto deluso. Ma l’istanza politica, quella sì, innerverà ogni sua attività, che sarà attività a tutto campo: poesia, narrativa, teatro, testi per musica, teoria, critica, ecc. ecc.
Gli inizi della sua scrittura datano ai primi anni ’50, con i versi di Laborintus (uscito nel ’56): un inizio folgorante, assolutamente diverso dalla poesia molto provinciale che circolava da noi, lontana, fosse neorealista oppure ermetica, dalle punte più avanzate della ricerca europea. Un “meteorite” (lo ha definito Fausto Curi) piovuto improvvisamente sul terreno della letteratura italiana. Un testo che compendia un ingente materiale culturale, pluriliguistico (latino, greco, inglese, francese) in un impasto da libere associazioni di tipo surrealista. Sanguineti scrive in quel periodo di aver sentito la necessità di attraversare l’avanguardia precedente, per bruciare nel minor tempo le esperienze che l’Italia aveva perse a causa dell’arretratezza del ventennio fascista. “Fare dell’avanguardia un’arte da museo”, egli dice, citando Cezanne, anche a costo per essere presi per formalisti dai fautori della vecchia “buona forma”. Era preferibile «gettare se stessi, subito, e a testa prima, nel labirinto del formalismo e dell’irrazionalismo… precisamente dell’anarchismo e dell’alienazione, con la speranza, che mi ostino a non ritenere illusoria di uscirne poi veramente , attraversato il tutto, con le mani sporche, ma con il fango, anche, lasciato davvero alle spalle» (così scrive nel 1961, sulla rivista “il verri”, e poi sull’antologia dei Novissimi). Certo l’impatto è forte, il senso è apertamente irriso e con esso l’intonazione lirica. Laborintus inizia con «Composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis»… Oscuro? nemmeno tanto più di Ungaretti, però quello che creava scalpore era l’oscurità non evocativa, non suggestiva di un mistero sopraordinato, bensì tesa a presentare un linguaggio terremotato per ragioni di analisi e critica ideologica.
Un esempio, dalla sezione 16:
e ormai per forza di serietà ricuperare ma per produzione potremo
ma contro il mio palato sopra questo orizzonte ma distesa
e un sogno respinto e ormai distesa e sopra questo orizzonte
respinto e per forza di vita e con le mani respinto e produttive
percorsa masticata e sopra questa negazione di orizzonte toccata
e adesso espulsa e sopra questo nulla sive coitus et filiam et mundum
gestavi et sensibilem sopra questo orizzonte e produttivo et
in cerebro meo e ormai sopra questo nulla di nulla e ormai
coniunctio e distesa (coniunctio sive coitus) e permeabile
permeata e sopra questo nulla di orizzonte in incastro
come i giorni permeata e trascinata ormai in me e trascinata
sopra questa negazione di negazione e orizzonte cerebrale e toccare
inghiottire e trascinata fuori e per riprendere (fuori e fuori)
i paesaggi dell’amore e sopra questo composti sopra questo
orizzonte di nulla e sopra questo paesaggio sensibile di nulla
(di negazione e di orizzonte) e sopra e fuori e adesso e ormai
Per paradosso, il massimo di autocontrollo e competenza culturale enciclopedica coincideva con la massima liberazione dell’inconscio.
Inizialmente isolato (racconta che agli inizi aveva per lettori 5 amici), Sanguineti va alla ricerca di compagni: non la singolarità, il collettivo gli interessa. Però esige rigore: non si prende con Pasolini, iniziando su “Officina” una polemica che rimarrà costante; è piuttosto su “il verri”, la rivista di Luciano Anceschi che troverà rispondenze. E da quel côté esce l’antologia dei Novissimi, all’inizio degli anni Sessanta: con lui ci sono Balestrini, Pagliarani, Porta e Giuliani che s’accolla anche l’introduzione critica. Titolo ironico, tra il classico e il superlativo pubblicitario; poetiche diverse, ma volontà comune di tagliare i ponti con la tradizione e le atmosfere liriche; apertura al contesto europeo e internazionale. Sul piano tecnico, abbandono della metrica chiusa, verso lungo ritmato (un verso secondo il respiro). In generale, dice l’introduzione, si tratta di rendere la “visone schizomorfa” di una realtà frantumata e mobile, e nello stesso tempo di contestare lo stato alienato e mercificato del linguaggio. In questo quadro si inserisce quello che Giuliani definisce il «finimondo liquido-sintattico» di Sanguineti.
Poco dopo nasce a Palermo il Gruppo 63, di cui il nostro autore sarà tra i rappresentanti principali, il teorico più acuto, sebbene non il leader, a ben vedere, in quanto rimarranno sempre minoritarie le sue posizioni ispirate al marxismo (per quanto un marxismo poco ortodosso; e infatti l’ufficialità comunista di allora non risparmierà anatemi contro la neoavanguardia). C’è da dire che mentre, per reazione all’impegno, il gruppo ebbe al suo interno tendenze al disordine puro o allo smarrimento esistenziale, Sanguineti mantenne l’imperativo a politicizzare il testo letterario passando attraverso l’equazione ideologia e linguaggio (che sarà anche il titolo del suo principale volume critico-teorico), per cui l’engagement non si soddisfa nei contenuti, ma deve inverarsi nel momento formale-tecnico.
In un periodo in cui predomina la parola d’ordine lukacsiana del “realismo”, nell’intervento di Palermo Sanguineti sostiene che «l’avanguardia esprime la verità ultima della situazione dell’intellettuale nel mondo presente», ovvero, come dirà più tardi, è l’avanguardia il vero realismo. Fermo restando che l’avanguardia non è più una vocazione romantica (una forma di vita), ma un atteggiamento sperimentale, operante secondo un ampio progetto culturale.
Il binomio “ideologia e linguaggio” ci porta verso il Sanguineti critico: un critico che non fa sconti, che non accetta in blocco nemmeno le avanguardie storiche (pesanti remore gravano sui Futuristi italiani) e che fa le pulci anche agli autori più rinomati. Vedi il saggio su Pascoli nel punto in scopre il “classismo” dell’autore in un passo del Fanciullino, dove si dice: «Forse il fanciullo tace in voi professore, … e voi non lo udite, o banchiere… Fa il broncio in te, o contadino… dorme coi pugni chiusi in te, operaio… Ma in tutti è voglio credere». Interclassismo e pacificazione apparente – commenta il nostro in nota – perché, proprio nel mentre tutti sono affratellati, però alle classi alte spetta un deferente “voi” e alle basse un paternalistico “tu”; il che significa abolire la lotta di classe, ma non le classi…
Rifiutare la continuità della tradizione comporta l’obbligo di rileggere il passato. Sanguineti si assume questo compito soprattutto con l’antologia Poesia italiana del Novecento (1969), che susciterà molte polemiche, sia per il grande spazio offerto ad autori meno noti, come Lucini, sia per le esclusioni clamorose. Si può discutere, e forse proprio sul lato delle operazioni alternative qualche nome in più ci poteva stare, ma resta il fatto che nell’introduzione ai vari autori e in quella generale Sanguineti ha lasciato un quadro straordinariamente nitido, con singole letture illuminanti, che costituisce un tracciato ineludibile al quale ancora oggi è necessario rifarsi.
Ma torniamo alla scrittura poetica: proprio in coincidenza con l’avventura del gruppo, Sanguineti compie una svolta verso un atteggiamento più “comunicativo” (in termini della pittura: dall’astratto al neofigurativo). Già nel Purgatorio de l’Inferno (1964) il testo poetico comprende vari interlocutori, le figure dei familiari, le tematiche politiche. La sezione 17 chiude in un certo senso la prima parte del percorso sanguinetiano: «così, qui (a Cerisy); (così dicevano): abbiamo, noi, un cinese; / (e il cinese ero io, naturalmente); / e sull’autostrada spiegavo, anche, / il contraccolpo sopra l’operazione letteraria, / radicalmente, immediato (e / così via); e si diceva dell’opportunismo trionfante, anche (e quando dissi, poi, / riformismo, infatti, volevo proprio dire opportunismo, invece);
perché / la posizione cinese (dissi) giustifica ogni speranza (e che non sia questione / di élite operaia, insomma, ma della fine della preistoria, davvero, / e così via); / e a mia moglie dicevo della quantità di infelicità, intanto (della / qualità; e così via); / e volevo dire: giustifica anche noi; e anche i figli; / e volevo dire: giustifica il momento dell’utopia (ma davvero, ma per noi, anche, / ma qui, adesso): questo momento (giustifica); / e volevo dire: per sempre; / (ma nel night, a Palermo, li ho sentiti davvero, io, che dicevano: perché / vivi, tu? e dicevano: come ti giustifichi? / dicevano: ma ti giustifichi, tu?); / ma adesso, vedi: ma adesso, quale stanchezza? e quale (in questa nostra / preistoria), quale tranquillità? / ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono: / i bambini / che sognano (che parlano, sognando); (ma i bambini, li vedi, così inquieti); / (dormendo, i bambini); (sognando, adesso):»
Ancora nel ’63 esce il primo romanzo Capriccio italiano (sarà seguito alla fine del decennio dal Giuoco dell’oca), che inaugura la stagione del “romanzo sperimentale”. Un romanzo onirico, scritto per brevi capitoletti (le lasse) dove lo scenario cambia di continuo e i personaggi sono indicati con semplici iniziali puntate.
Diamo come esempio una lassa:
La ragazzotta, adesso, che è ragazzotta tutta, e che è tutta quella mia moglie giovane giovane, va sopra l’altalena. “Piano,” le dico, “piano, che ti fai del male.” Lei dice: “No,” e si dondola e si dondola, sempre piú in alto, in fretta, in piedi sopra l’altalena. E il ramo grande dell’albero, che ci sta l’altalena che ci pende, scricchiola, e si alza, e si abbassa, sempre cosí. ” Come sei invecchiato, però,” mi dice, che anche le sue parole si dondolano e si dondolano, e mi arrivano da vicino e da lontano, come che il vento, cosí, se le scompiglia. “Sí,” le dico, che subito mi sento tanto stanco, che mi siedo sopra uno sgabello lì basso, “che mi cadono i capelli, e mi cadono i denti, e ci ho tanta lombaggine, anche, che mi porto delle fasce tutte qui, dove ci ho la lombaggine qui.” E lei si dondola, dunque, e si dondola che ride, e che dice: “Voglio vedere le fasce.” E io me li tolgo, i miei calzoni, e me la tiro tutta su, la mia camicia, e gliele faccio vedere, allora, tutte le mie fasce, e poi vado là dove si dondola lei, tutto vicino, e le dico: “Guarda anche la mia testa, dunque,” che mi strappo i miei capelli, cosí a mazzi, come si strappa l’erba dei prati, con le mie mani. E le dico: “E guarda anche la mia bocca, dentro.” E le faccio vedere che ci sono tanti denti che mancano, che mi tocco le mie gengive con le mie dita, che mi infilo tutte le dita di tutte le mie mani, lì dentro la mia bocca, e poi tiro fuori la mia lingua, che voglio che lei, cosí, vede che è tutta bianca, che non ci ho niente la buona digestione. Ma lei si crede che io le faccio come la mia beffa, adesso, con quella mia lingua cosí, e adesso che si dondola cosí forte, adesso non la vedo quasi piú, che si dondola troppo forte, davvero, che vedo soltanto qualcosa, una macchia, che si muove lì nell’aria, lì sotto il ramo grande che si spezza, e vedo appena la sua lingua che le esce dalla sua bocca, lunga lunga, che si fa come la sua beffa anche a me, e già lei vola lì nell’aria, quella mia moglie, con quel suo ramo grande, spezzato, dietro, tutta bella nel cielo, leggiera, tutta una nuvola.
Antiromanzo, certamente, perché la trama non è rintracciabile e i personaggi sono evanescenti: però non c’è, come in altri casi, atomizzazione totale; piuttosto si può parlare di deformazione, che tende a una prassi elementare di racconto, verso l’onirico, l’erotico, l’ironico.
Da questi inizi, la parabola dell’avanguardia si svolge rapidamente; anche perché il 63 è incalzato dal 68, da una contestazione politica che pare sorpassare la contestazione testuale. Nel 1967, il gruppo si riunisce attorno alla rivista “Quindici”, proprio allo scopo di abbinare alla polemicità della scrittura l’osservazione ravvicinata di una realtà politica in rapida radicalizzazione. E su “Quindici” n. 1, Sanguineti pubblica una sua dichiarazione teorica che s’intitola Per una letteratura della crudeltà, ispirandosi ad Artaud, ma non solo, che conclude affermando che tale letteratura, erede dell’avanguardia, «non è al servizio della rivoluzione, ma è la rivoluzione sopra il terreno delle parole». Sarà proprio il parallelismo delle due rivoluzioni, delle parole e delle cose, a risultare impraticabile e a portare il gruppo allo scioglimento, in mezzo a scelte divergenti. Sanguineti, dal canto suo, sarà sempre molto critico verso il 68 (per motivi diversi, ma in questo coincidendo con Pasolini).
La fine del Gruppo 63, però, non è affatto la fine della poesia sanguinetiana che, anzi, prosegue nel suo percorso con una nutrita e continua serie di raccolte: Wirrwarr (1972), Postkarten ( 1978) , Stracciafoglio ( 1980), Scartabello (1981), Novissimum Testamentum ( 1986), Bisbidis (1987), Senzatitolo (1992), Cose (1999), e il postumo Varie ed eventuali del 2010, l’anno della morte. Dove, rispetto agli inizi “informali”, Sanguineti rientra in una sorta di dimensione “neofigurativa”, come dicevo, nella quale sono riconoscibili persone, luoghi e occasioni; tale contenuto, però, passa attraverso un tenace procedimento di montaggio (Sanguineti dirà che il montaggio è il procedimento decisivo del Novecento) e conserva gli stilemi sperimentali portati ad esito radicale come nell’uso delle parentesi (fonte di frammentarietà) e dei due punti, posti addirittura alla fine dei suoi brani per significare che la poesia è un testo continuo, oltre alle paronomasie e alle rime interne insistite.
L’io, le occasioni, il vissuto, quanto di più normale in poesia, si dirà: sì, però tutto virato in tendenzioso straniamento. L’io viene portato all’eccesso, esibito in pubblico (“Mi rovescio le viscere”), è un soggetto specchiato in sosia scoronanti (l’attore comico Marty Feldman, l’Ispettor Clouseau), parodizzato fino al “fou rire”. L’odeporica o poesia di viaggio, proietta verso l’altrove, verso il rapporto, sempre più complicato, con l’altro-da-sé. La forma epistolare, indirizzata prevalentemente alla moglie (Sanguineti si vantava per questo di essere fuori dalla tradizione lirica che, da Dante e Petrarca evita accuratamente le legittime consorti), diventa un modello di resistenza della comunicazione.
Il rimando a fatti reali (la poetica del «piccolo fatto vero, possibilmente fresco di giornata») sembra offrire appigli al lettore, ma spesso lo tiene in sospeso perché offre particolari precisissimi in assenza dei dati complessivi. Un esempio, nella la Sezione 17 di Codicillo (1983): «posso chiudere con l’incontro con la Gatta / e la Lucertola (tra un mezzo Pincio e via della Vetrina): (e la felina, un Faust castrato / in gonnellina, forse, è identificabile con il Fausto supposto, nell’enoteca patavina, / quando scattò il concerto notturno delle grappe silenziose):» dove solo pochi possono sapere che Faust era il nome della gatta femmina di Filippo Bettini che in via della Vetrina, appunto, ospitava spesso il nostro autore.
E ancora da vedere il gioco accurato e nello stesso tempo automatico delle allitterazioni sonore, formidabile in questa ironica identificazione con i Bronzi di Riace (in Cataletto, 1981): «sono un bronzo di Riace (uno dei due, quello che più ti piace): e però sono, / soltanto, insecchito, ingobbito (e un po’ invecchito): (e poi rasato, spelato, spellato): / anche se sembro, come vedi (e tocchi), più sviluppato, in ciccia, nel mio picio: / io vivo ancora una mia fase alquanto primordiale del mio restauro (con / tumefazioni, incrostazioni, con corrosioni corrotte e le ossa rotte): / e sto / affunato, carrucolato (con gli occhi tutti a posto, tolti i denti, se sono un B, / tuttavia): / (ma in fondo sarò un A, per carità, va’ là, gonfio di qualità):»
Per altro, rispetto ai bronzi, alla loro bellezza classica recuperata come evento di massa, nell’epoca del culto del corpo postmoderno, il testo opera un adeguato abbassamento, una conveniente demitizzazione.
In questa attività su tutti i fronti (aggiungi il saggista, il conferenziere, il contributo orale delle interviste che toccano spesso punti profondi e sostanziali) si configura una posizione: quella del materialismo (di cui, con understatement, Sanguineti si dichiarava “apprendista” – e vedi anche il prezioso volumetto Come si diventa materialisti storici, 2006). Tutto è sociale: la cultura non è che l’allevamento, e l’autoallevamento, dell’animale uomo. E tutto è corpo, e in questo c’è il gusto dei piaceri materiali, enumerati in Postkarten, 1974: «e il primo / piacere è chiavare, certo: e poi, per me, dormire nel sole (come dormivo adesso, / le ho detto, prima che arrivasse lei: a torso nudo come mi vede, e a piedi / nudi, ecc.): e il terzo è bere vino (francese possibilmente, come quello / che abbiamo bevuto sabato con Berio, e anche venerdì, a Rotterdam, e qui): / (e ho concluso che il paradiso è chiavare nel sole, forse, pieni di Saint-Emilion):» La letteratura stessa, Sanguineti dirà nel dibattito, è un “giuoco sociale”. Certo, occorre interpretarla (“disambiguarla”, come dice nel saggio La nozione del critico, 1986), ma non con un’ermeneutica dell’ascolto priva di sostanza critica: l’ermeneutica materialistica vuole arrivare, alla fine del percorso, al di là dei codici e delle loro funzioni, una volta spogliato il critico della sua funzione istituzionale (per cui la missione è una missione di “dimissione”), a cogliere criticamente il valore del testo come «fatto storico», come «semplice fatto empirico». Cosa resta da fare al critico? si domanda Sanguineti: «gli rimane da farsi storico» risponde, «scriptor rerum», scrittore di cose, «decostruttore di storia tout court».
Ora, se tutto è sociale, la lingua è citazione. E veniamo allora al risvolto della parodia, però molto distante dalla “parodia bianca”, dal pastiche neutro del postmoderno, anche se nasce proprio dall’idea che ogni parola è citazione. Poi però, bisogna vedere come ci si dispone verso i predecessori. Ed ecco allora, a mo’ d’esempio, la riscrittura di Pascoli, L’ultima passeggiata (1985): «io ti farò cucù e curuccuccù, ragazzina lavandarina, se mi bacia il tuo bacio / chi vuoi tu: ti farò reverenza e penitenza, questa in giù, quella in su, / suppergiù: e tra i tonfi dei miei gonfi fazzoletti poveretti, ti farò, con le mie pene, / cantilene e cantilene: e ti farò cracrà, trai e poscrai, in questa eternità / del nostro mai, e poscrigna e posquacchera, da corvo bianco, e stanco, e sordo, / e torvo: / ma tu, prepara qui, al mio picchio, la nicchia del tuo nicchio: di più, / prepara, al mio domani, i cani nani delle tue umane mani, le viti dei tuoi diti / mignolini, le microsecchie delle tue orecchie, le arance delle tue guance, il mini- / vaso del tuo naso, l’albicocca della tua bocca, i corbezzoli dei tuoi capezzoli: / con entrambe quelle tue gambe strambe, preparami anche le anche stanche tue, qui, / per noi due: per me, vecchio parecchio, prepara, nei tuoi occhi, uno spicchio di specchio: / o ti farò così, lo sai, lo so, vedrai, lì per lì, il mio cocoricò e chiricchicchì:»
Così l’onomatopea pascoliana non solo si espande e si carica all’eccesso, ma ne viene estratto fuori proprio l’eros, accuratamente rimosso nel prototipo.
E da citare c’è anche tutto il versante della poesia di Sanguineti più legato alle occasioni politiche, che prevede il recupero delle forme chiuse, come l’ottava del Novissimum Testamentum o le ballate con intento polemico, come questa Ballata del vento (1989):
l’apostolo romano vaticano
triplice tiara si sostiene in testa:
all’angelo cornuto fa la festa,
ma muore come muore il sacrestano:
quando ha esaurito tutte le sue preci,
via se ne va con vento forza dieci:
il grande re la sua casa ha imbiancato,
di rosso ha tinto la sua grande piazza:
agita in mano razzi di ogni razza,
ma muore come muore il suo soldato:
quando gli viene l’ultimo spavento,
via se ne va con vento forza cento:
giuoca con orso e con toro il barone,
forzalavoro e giorno e notte ingozza:
di verdi carte è gonfia la sua strozza,
ma muore come muore ogni barbone:
quando l’oro gli crepa le pupille,
via se ne va con vento forza mille:
e chi parla parole e suoni suona
e affreschi affresca e sculture scolpisce
fame ha di fama che mai non finisce,
ma muore come muore la persona:
quando il salmo gli è esploso tutto in gloria,
salta in aria la carne e la memoria:
e tutti andate, con rabbia, danzando,
in nero buco a sparirci ululando:
tu che più lasci più angoscia prendendo,
più peggio cadi, più giù discendendo:
fatti di fiato, fatui fuochi veri,
noi si balla, leggieri, volentieri:
Nella sua posizione contraria all’egemonia dominante (un suo brano teorico ha per titolo Elogio dell’antitesi), Sanguineti ha proposto il sabotaggio, la lotta al “poetese”. Suoi numi tutelari sono Benjamin e Brecht; soprattutto, del secondo, il principio dello straniamento, oggi sempre più indispensabile per uscire dalle identificazioni dannose della fantasmagoria di massa: «Lo straniamento brechtiano, – scrive il nostro in un articolo – tra le tante cose che ha significato, conteneva anche la promessa, mi pare, della fine dell’idolatria spettacolare, in scena e fuori scena: non mi immedesimo, ergo non sono, quell’idolo, quella figura, quel personaggio. Ergo, non imito».
E per l’appunto, va ricordato il teatro: le importanti collaborazioni con registi (Ronconi) e musicisti (Berio, Razzi), le traduzioni per il teatro (e non solo). Una idea di messa in scena straniante, teorizzata in versi nella Philosopie dans le théâtre (1982): «(penso a una farsa tragica orgasmatica / a un tragico striptease dell’ideologico: penso, vedi, all’osceno della scena): / (grande boudoir di ogni filosofia): / ogni teatro è un teatro anatomico». Un libro particolare che Sanguineti ha scritto è il dialogato delle Storie naturali (1971), che esige un teatro quasi impossibile, quasi sempre al buio, dove tra il corpo e la parola si instaura una dialettica curiosa: è la parola che crea il corpo (ancora una volta: non c’è niente di naturale, tutto è sociale), ma la parola è assolutamente corporea, continuamente divisa e discussa socialmente dai partecipanti all’interazione dialogica. Di qui il potere costruttivo della voce, che in questo brano è enunciato da una voce femminile:
– Perché una voce è tutto – non so bene come dire, adesso – E se una voce non è niente, invece – se due voci non sono niente – se non esistono — allora, è che niente è niente, proprio. – allora, è che anche la mia voce non è niente. – E io, che mi, sento. questa mia voce che non esiste – io ho lo spavento, qui – ma lo spavento grande, davvero. – Ho la mia cosa nervosa, allora – adesso. – E ci singhiozzo, ecco – e ci piango. – E lo so che uno dice, allora, che una voce non è niente, poi – che lo dice cosí, per farsi coraggio, per esempio. – Ma è proprio che la voce non è niente, invece, quello che mi fa lo spavento grande, a me – la mia cosa qui nervosa. – Perché. una voce che è una voce, quella ti fa il mondo. – Perché ti dice tutte le cose; ecco – non so bene come dire. – E ti dice il martello, il carciofo, la coda del gatto, l’Asia sud-orientale, un numero, due numeri, 30, 71. – Una voce che è una voce, quella ti riempie di tante e tante cose, intorno, dentro. – È come che tu te le puoi mettere da parte, se ti va, le cose, allora – che ti fai un mondo – un tuo mondo che ti è tuo, appunto – che ci stai bene, dentro – così – E allora, tu vai anche in giro, qui per il tuo mondo, con tutte le tue voci vere, dentro la tua gola vera, in mezzo alle tue labbra, qui nell’aria, nel buio. – E la tua voce vera ti dice che questa è Emily, cantata da Frank Sinatra – e che quello, invece, è l’ascensore, mettiamo. – E tu prendi l’ascensore, e via – che ti schiacci i tasti, che ti Monti su, al sesto piano – e ti schiacci l’alt, ti suoni l’allarme. – Perché è questo che voglio dire, io, quando dico che una. voce è vera, che una voce è una voce – che è tutto. – Voglio dire che è l’ascensore, ecco – con tutti i tasti. – Oppure, non lo so – voglio dire un paesaggio. – Tu te lo Metti tutto dentro gli occhi, un paesaggio, se vuoi – anche soltanto con una voce – con una voce vera – con tutte le cose che ci–stanno, in più, dentro il paesaggio, insieme. – E se c’è un ponte, va bene – c’è un ponte – e tu ti passi il ponte, via – E se c’è un fiume, c’è un, fiume – e ci fai anche il tuo bagno lì nel fiume, nell’acqua – E poi, che ci sgoccioli lì un po’ tutta, ancora, tu ti butti lì al sole, che ti sta in alto, là, sopra il paesaggio. – Ti butti al sole sopra la riva del fiume – e il pavimento – che è liscio, che è freddo – il pavimento è tutta una sabbia calda, allora – adesso. – E io, tutta nuda cosí, mi godo tutto questo sole, che mi distendo qui così, con tutti i miei occhi mezzi chiusi – senza più nessuna cosa nervosa, niente. – E adesso, io mi cancello anche il paesaggio, se voglio – che mi resta qui il sole, soltanto, e la sabbia, e il rumore che mi fa il fiume. – E mi cancello la mia voce, persino, alla fine, se voglio – che adesso non mi serve nemmeno piú, la mia voce vera – adesso che me lo sono fatto già tutto questo mondo qui caldo, pieno di silenzio – pieno di sole.
Al centro della “materialità dell’io”, Sanguineti lo sa bene, sta la questione dell’identità: e lo conferma in questo brano tardo, tratto da Cose (1996 è il n. 12), l’ultima raccolta, dove cita addirittura il numero della sua carta d’identità: «penso che accadde a Vieste, la prima volta, a cena (ma era già forse una replica, / invece), quando, esibendo ai convitati la mia carta d’identità (AA3004276), ho pronunciato / l’encomio (un po’ luttuoso) della borghesia capitalistica, spiegando che quella, / in sostanza (che pure, va bene, d’accordo, ci scheda), ci assicurò la patente dell’ego: / e da allora, da quando sono un citoyen bourgeois, io, come tutti, io sono un io me stesso / (io che ero un niente, un tempo, un accidente): / così è che ho avuto un’anima civile, laica, / per cui possiamo noi tutti, individuati individui individuabili, avanzarci ulteriori pretese / argomentate bene (con qualche immortale principio formale): / lo so, però, che è la sostanza / che mi manca (ci manca): (e a me mi manca, così, anche all’io, e all’es mio, mio superio):»
In sostanza, concludendo questo veloce ritratto, cosa ci ha lasciato Sanguineti? Risponderei così: un eccezionale e imperdibile insegnamento di critica e autocritica. Per terminare con un suo motto, ecco questo, definitivo, da Postkarten: «adesso / vi lascio cinque parole, e addio: / non ho creduto in niente». Oppure la battuta dedicata agli uomini di teatro, ma che vale per tutti noi, in generale: «provate, provate»…