Se dovessi tentare subito una definizione, direi: la Passeggiata in due tempi di Cetta Petrollo (edito da Le Impronte degli Uccelli, 2012) è un poemetto sulla ripetizione. Così le due fasi (che si vogliono secondo il titolo comparse in momenti diversi) sono l’indice di una ripresa: ma già all’interno di esse – sia nella prima che nella seconda parte – appaiono altre divisioni, altri sdoppiamenti, quelli del “dentro” e del “fuori”. Con lo stacco, naturalmente, si insinua una dialettica, che risulta in modo corretto irrisolta. Una irresoluzione che si “specchia” (ancora un carattere del doppio) anche nelle illustrazioni grafiche di Franca Rovigatti, nel movimento delle braccia di una figura femminile immersa nell’acqua che si “riproduce” in volanti sagome alate, sempre femminili, in alto tra raggi del sole e fasi lunari. L’immagine è adatta all’ambivalenza: è il sole dell’alba o del tramonto? e la fanciulla in primo piano agita le braccia alzandosi dall’acqua, oppure viceversa?
Direi anche, sempre se fossi costretto a veloci indicazioni, che la “passeggiata” proposta da Cetta Petrollo è un percorso nel mito. Portatore del mito è il personaggio di un dio viandante, trascinatore e sconvolgente, il suo incontro è un’esperienza che sradica la parola e la spinge in soprassalti di senso («le mie frecce scomparvero… i miei occhi inghiottirono rivoli di umori… e l’odore del sale mi schiacciò occultamente…»). In una atmosfera convenientemente pagana, il dio appartiene all’ordine naturale («mangia uva e spacca melograne»), suo è l’ordine della corporeità e del “sapore” del sesso, nonché un fascino assoluto che però non può essere raggiunto con una “corrispondenza” fissata una volta per tutte. Se da un lato possiede la potenza del risveglio («una donna è destata da un dio»; e: «Nella seta del desiderio /batte di stupore il sesso ridestato») – che trova riscontro nel mitologema dell’amplesso eterogeneo di Leda e del cigno (le «bianche lusinghe», il «fruscio delle ali») – la sua divina sovranità superiore si risolve in “indifferenza” (nella seconda parte: «il dio mi ha nuovamente sconfitta indifferente»; «mancò il coraggio per il sacrifico / al dio indifferente»). Quindi la dialettica del fuori e del dentro, che serve anche da ulteriore suddivisione delle due parti, si determina come passaggio dalla pienezza alla perdita. Se la lingua del mito è innalzante e a piena voce, nel testo si aprono numerose le falle delle parentesi: e le parentesi sono degli a parte, delle rimuginazioni a voce più bassa. Le parentesi contengono avversative e decisivi rovesciamenti come la frase ritornante «sono io la nave che attira i gabbiani», che àncora l’io e gli sottrae le potenzialità di volo. Se il poemetto inizia con la perentoria attribuzione dell’io («Io lo conobbi»…), la seconda parte comincia dalla vaghezza del noi («E saliamo a settembre»; poi: «E di un balzo siamo là»), che rimette nell’insieme livello collettivo, quindi nella realtà. La stessa prima parte si conclude in un diminuendo in cui si possono cogliere varie modalità di esaurimento («le fonti interne si esauriscono»… «si allenta la cintura»… «il pesce si fissa intorno all’ancora»).
La ripetizione richiama obbligatoriamente il ricordo; tuttavia qui il tentativo della parola poetica è quello di parlare assolutamente al presente, sebbene nel presente il mito apra le voragini del passato remoto, almeno in due punti significativi: l’inizio, ovvero l’incontro, il cominciamento assoluto («Io lo conobbi»…) e un curioso slittamento nella seconda parte che passa dal presente («Egli parla…») al passato prossimo («bisogna raccogliere i secondi / che ha lasciato cadere / sulla memoria della voce»; segno che le parole mitiche non sono più pronunciate in questo momento), al passato remoto («quando lo risucchiò la sera»; segno di una ineluttabile distanza). La parola: appunto presenza/assenza. E i versi di Cetta Petrollo scavano proprio attorno alla valenza e alla crisi della parola. Spinta dall’impulso dell’espressione, la parola è però sempre qualcosa di inadeguato rispetto all’imperativo corporeo: «il corpo già esprime quello che c’è da dire / meglio del dire». Come caricare fisicamente la parola? La soluzione è quella della ripetizione, il che significa ritmo, ritmo ben ribattuto (si vedano i versi lunghi all’inizio della seconda parte) e disposizione dei versi nella pagina, soprattutto i ritornelli che creano riprese e variazioni attorno a immagini centrali: la «nave che attira i gabbiani», il «porto dove passo e ripasso», le «valve che nuovamente riapro». Ed è significativo che le ultime due – le quali non a caso sono chiamate al compito di concludere – siano esattamente immagini di ripetizioni («passo e ripasso», «nuovamente riapro»). La ripetizione consente infine una efficacia della parola? In un certo senso, sì. Leggiamo, sul finire: «il corpo si ritrae sponda sponda / alla fase seconda della luna orgasmo che non sarà / e io me ne starò distesa / incinta di parole?». Ma l’interrogativo ci dice la problematicità di una espressione che davvero “riempia” e “fecondi”. La parola della ripetizione, infatti, non può che essere affetta da una costitutiva frammentarietà, e la modernità critica di questo testo consiste appunto nella dialettica tra il canto e l’esplosione delle immagini da un lato, e, dall’altro, il declinare delle frasi parentetiche e dei versi isolati in un rallentato dissiparsi delle sue movenze.
Dunque questo poemetto di Cetta Petrollo ci offre un percorso “dissociante”, la volontà di saggiare il mito, ma anche di utilizzarlo come strumento di straniamento dell’enigma quotidiano, attraverso le modalità della ripetizione e della “messa alla prova” della parola.