CARMEN LIBERO
Canto di protesta, come si amava dire delle canzoni di Dylan e Baez negli anni Settanta, questo Canto Libero di Lubrano. In protesta contro tutto e tutti, esprime un dissenso acido e corporeo, senza vergogna a parlare di escrementi e corpi immaginati nelle loro brutture e debolezze, lontani da essere gli oggetti perfetti del feticismo televisivo. Quando si legge “e qui si muore c’è chi spara per salvare il culo del vaccaro / texano in bella compagnia di quel barzellettiere miliardario” (GI-OTTO GEMITO di GENOVA), oppure “noi qui a romperci il grugno in questo grosso imbroglio / che ci succhia il cervello mentre lui ghigna e sogghigna / parla sputa suda canta racconta barzellette idiote / da far vomitare i ventricoli…” (italia in GUERRA), si capisce che non risparmia parole, è un fiume, contro i potenti, contro i fattacci della politica, il malcostume della sottocultura di consumo, col tono severo e moralista del giudice, o del santo eretico che nel Seicento urlava nelle piazze di non credere alle nefande menzogne del Potere. Un moderno Giordano Bruno (si veda il capitolo della “rissa nolana”), che sceglie di onorare le proprie origini partenopee e la propria fede linguistica per quei tempi in cui la lotta per la libertà era strenua e coraggiosa, mescolando tre registri: il dialetto napoletano, con la forza bassa, popolana e dirompente, poi l’italiano, il luogo corrotto della battaglia poetica, e l’arcaica lingua che da Dante ai filosofi del Seicento ha scaturito la grande letteratura civile italiana.
Un canto della decadenza sui cui versi lunghi e musicali è imbandito il convivio della nostra lingua infiacchita e sempre meno capace di una identità, fitta di vocaboli insignificanti e effimeri come gli oggetti che designano, sciocca nei giri a vuoto di una sintassi che vaga ebete tra sensi decomposti. Lubrano lotta contro questo brago di caos, la sanguinetiana palus putredinis. Tra la putredine, figura che Lubrano usa sovente per evocare il mondo in una parola, spiccano il colore e il calore, con una parola dialettale, che subito rimanda il pensiero al senso del corpo vivo, oppure con la parola arcaica e colta del tempo delle idee. Nel verso di Lubrano brillano ricordi di antica poesia eccellente, in specie l’Inferno di Dante (foco, gramatica, donzella, affisi, guardo, alcuni vocaboli danteschi, seguiti dai bruniani bestia trionfante, imago, et) da cui spilla mai esaurita la vena della poesia realista italiana. Lubrano è poeta della realtà, immerso nelle parole scabre del quotidiano scorrere della vita, ma mai mostra il vizio di troppi poeti d’oggi, ossia camminare da solo perduto tra queste parole troppo vive per essere già poesia, troppo vuote per essere vita. La guida di Lubrano, il Virgilio del suo viaggio negli Inferi, sono pochi grandi del passato, Dante, Aretino, Bruno; i cantori della divinità dell’uomo colto nel peccato, nel coito, nell’arroganza intellettuale. Il canto libero è tutto raccolto nella verità dell’essere profondo, tumulto di corpo e linguaggio, gesto e pensiero, teso nella lotta polemica e poetica dell’invenzione contro la ripetizione, della riscrittura anziché la rassegnazione. La tensione morale e stilistica di questa poesia tocca l’apice nel funambolico Ho visto Patty Pravo i Beatles e Che Guevara, in CARMEN LIBERO (testi – testamento), componimento in cui il sublime concorre con il mediocre, e l’idealismo ammicca feroce agli arrivisti, scorrendo in rassegna, come carri di Carnevale, gli ultimi quarant’anni, di cui si coglie la tensione di conflitti mai risolti e nascosti sotto chiacchiere e volgarità, all’ombra dei “monumenti a Mazzini e Ridolini”, ma che un canto libero svela e restituisce in parole vibranti di vox populi e lingua dantesca. Certo una poesia per intelletti vivi, e forse è tutta qui la grande battaglia in questa nostra era dei morti viventi.