L’ORIZZONTE DEL PRESENTE
Quando Carla Vasio pubblica L’orizzonte alla metà degli anni Sessanta (per l’esattezza il libro reca l’indicazione febbraio 1966; l’editore è Feltrinelli, la collana “Le comete” n. 41), il movimento della neoavanguardia è arrivato nella parte centrale della sua parabola. La stessa autrice non è del tutto esordiente, avendo già pubblicato suoi testi nell’antologia fondativa del Gruppo ’63 e sul “menabò”, lì con l’autorevole appoggio di Manganelli. C’è appena stato – e la Vasio vi è intervenuta – un convegno palermitano sul Romanzo sperimentale, in cui l’avanguardia del secondo Novecento ha confermato la volontà di affrontare di petto il problema-narrativa con operazioni polemiche e destrutturanti. L’orizzonte di questo testo (che avrà l’orizzonte proprio nel suo titolo) è dunque, per quanto giovane l’età dell’autrice, il prodotto di un’epoca pienamente matura e pienamente consapevole sul piano critico-teorico.
Non si può quindi rileggere L’orizzonte senza considerare questo suo contesto originario, posto sotto il segno del romanzo sperimentale. Certo, la formula non basta e, dal nostro punto di vista attuale, dobbiamo domandarci fino a che punto sia un romanzo e quanto e come sia sperimentale. Carla Vasio, infatti, sembrerebbe compiere una operazione meno oltranzista di altri suoi compagni di avventura: non arriva all’atomizzazione totale (come, poniamo, il Balestrini di Tristano, uscito nello stesso anno) e conserva un’impostazione in qualche modo realistica, un ambiente-scenario dai connotati bene o male riconoscibili attorno a un io narrante abbastanza consistente (mentre Sanguineti sprofonda nell’onirico e Manganelli nell’altrove). Vi è però, come vedremo, un’erosione molto forte delle coordinate del mondo possibile, una distorsione che dimostra come l’autrice tenesse ben presente la necessità di una intelligenza strutturale anche a costo di complicare la narrazione. Già la prima domanda che si affaccia è radicale: si tratta davvero di un racconto? A mio parere il testo della Vasio non ha né la fisionomia, né le finalità di un racconto comunemente inteso; penso che si possa definire con maggiore esattezza la scrittura di una situazione; oppure, utilizzando il titolo, la scrittura di un orizzonte. La situazione si potrebbe riassumere così: c’è un io narrante che lavora a maglia su una panchina presso una scalinata in attesa di un uomo cui deve dire una frase risolutiva riguardo al loro rapporto; l’incontro avviene verso la metà del libro, ma la comunicazione viene rinviata; nella seconda parte la situazione si trasferisce in una festa in maschera; ma quando si avvicina finalmente al suo esito e la frase sta per essere pronunciata, il testo s’interrompe. Questo scarno intrigo fa intuire che il tempo della storia è molto lento (il lasso di alcune ore, dal primo pomeriggio all’alba), e che è costituito da un intervallo in attesa dell’evento, un lasso vuoto durante il quale non succede quasi niente, a parte il periodico inserimento digressivo del monologo interiore con ricordi disposti su vari livelli: l’infanzia (dove c’è già in nuce il materiale di Laguna, destinato a trovare elaborazione molto più tardi, negli anni Novanta), la malattia e il ricovero della madrina, il matrimonio fallimentare con Alberto. Materiale autobiografico? Forse, ma questo non si può mai dire e non ha poi molta importanza. Piuttosto, il modo e la qualità di queste “tracce” o “memorie involontarie” può dirigere la nostra lettura interpretante verso due chiavi, che sono quella psicoanalitica e quella esistenziale. La chiave psicoanalitica troverebbe facile alimento nelle pagine concernenti il rapporto con la madre (una madre dispotica e “divoratrice”) e il dualismo madre-madrina; e certamente potrebbe fare perno sulla “scena dell’armadio” (simbolo uterino, naturalmente), contenuto nascosto e segreto come una verità profonda dal cui divieto si genera l’inesauribile slittamento sugli oggetti parziali. Ugualmente forte è l’incentivo ad una interpretazione in chiave esistenziale: la protagonista manifesta chiaramente, soprattutto nei passaggi del viaggio in Spagna con Alberto, un senso di angoscia, di nausea, di estraneità, di «inquietudine quasi disperata», fino all’apice di crisi dell’episodio dell’aborto. Una “condizione” di forte disagio cui corrisponde il distanziamento dello sguardo che si posa sulle cose e – con altrettanto oggettiva lucidità – sul proprio stesso partner. Vi si potrebbe accostare un certo stile-Antonioni, sicuramente essenziale e influente in questo periodo.
Ma, per queste vie, rimarremmo sempre molto (troppo) attaccati alla filiera autrice-narratrice e al riscontro contenutistico del personaggio come simil-persona. A me sembra che ci sia dell’altro e di più: e vorrei cercare di individuarlo chiamando in causa due chiavi interpretative apparentemente meno ovvie, la chiave semiotico-strutturale e la chiave sociale. Quanto alla struttura, è interessante interrogare L’orizzonte sulla questione narrativa messa in risalto e sviscerata dalla ricerca di Ricœur, ossia sul problema del tempo. Come già osservavo, nel testo della Vasio il tempo è dilatato, ma questa non è una novità, dopo Proust, Joyce e la Woolf. Il tempo va avanti e indietro, ma anche questo è preventivato dall’arte del romanzo e la narratologia (questa volta ricorrendo a Genette) potrebbe misurarne le analessi più o meno profonde, più o meno lunghe. La cosa davvero particolare, però, è qui il tempo del discorso. La storia è raccontata al presente, questo è già un primo paradosso di non poco conto. Infatti, a rigore, nessun narratore potrebbe scrivere “sto lavorando a maglia”, perché se tiene in mano i ferri non può tenere contemporaneamente la penna o pigiare la tastiera. Potrebbe scrivere al massimo “sto scrivendo che sto lavorando a maglia”; ma nel caso più normale, attenendosi alla legge del racconto che è quella di rammentare il passato “al passato”, dovrebbe scrivere “stavo lavorando a maglia”. Il racconto al presente, dunque, è già una prima anomalia, che si giustificherebbe con un effetto espressivo, di ipotiposi, non comune ma neppure rarissimo. Il punto è che il testo della Vasio va oltre i limiti dell’ipotiposi richiesta dai momenti più vivaci della storia; arriva fino al punto di mettere tutto al presente, anche i ricordi, che sono per forza cronologicamente precedenti rispetto al filone principale della vicenda. Mettendo in conto il rischio che i piani si confondano. Una ulteriore riprova della tecnica di disturbo propria dello sperimentalismo? Attenzione: anche se si trattasse di un mero procedimento formale applicato a freddo (il che non è), esso va a incidere su una questione talmente decisiva, come quella del tempo, da assumere comunque risvolti e conseguenze molto significative. Certo, la storia (quello che dovrebbe essere il plot) ha un suo decorso, marcato da alcuni segnali (ad esempio, le ombre montanti della sera); e la situazione stessa riceve addirittura una data precisa: lunedì 21 marzo. Tuttavia, proprio perché teso verso un accadere sempre procrastinato, il tempo appare bloccato. L’uso di un presente “assoluto” completa l’opera: L’orizzonte sembra volersi sottrarre alla temporalità progrediente (ci mette in uno stato di acronia o di tempo incerto) e lo dimostra fin da subito, dalla frase di apertura, nella quale il verbo d’azione sottinteso lascia il campo all’indicazione durativa del participio e dei gerundi. Tutto questo può essere spiegato con l’indifferenza della crisi esistenziale («Dove mi sia accaduto, quando, questo per me fa lo stesso»); ma intanto, che lo si voglia o no, viene a disegnare una sorta di “materialismo dell’istante”. In questo quadro il ricordo non rappresenta il recupero del passato e il suo ritorno, bensì la mera esperienza (la trasposizione) che di esso viene fatta nel momento attuale, l’atto “attuale” del ricordare. Per questo il tempo verbale non cambia (in Laguna sarà costante l’imperfetto) e i diversi vissuti sono contenuti dentro il medesimo orizzonte. Il risultato è quello di una “simultaneità del non contemporaneo” (per citare Bloch). Si può dire, allora, che nulla è raccontato, ma tutto semplicemente esiste.
Allora, contro l’assunto di Lukács, il descrivere soppianta il narrare. Questo posizionamento della scrittura consuona, naturalmente, con gli indirizzi del Nouveau Roman francese e con l’accentuazione dello sguardo come organo principale del testo. Da un lato il tempo vuoto dell’attesa, dall’altro l’impossibilità di comunicare il nucleo centrale, spostano l’attenzione dell’io verso il mondo circostante, la cui descrizione minuziosa diventa il materiale di riempimento della mancanza di avvenimenti. Per forza di cose, poi, questa materia divagante sostituisce la sostanza carente e sostiene il messaggio sotto forma di cifra simbolica. Il testo stesso rileva che proprio dall’assenza e «dalla privazione nasce la giornata, i giardini, le piante, la terra e la luce che li rischiara». La “vacuità interiore” del personaggio lascia avanzare lo sfondo, lo scenario naturale che è uno scenario soprattutto vegetale (il parco, il giardino), proprio perché il vegetale, rimanendo al suo posto o muovendosi di poco, si presta ad accogliere la pratica dell’osservare. Dà spazio al gioco della luce, al colore, ecc. Per la verità, qui, il dispiegamento percettivo («ritrovo il peso delle sensazioni carnali», leggiamo) non utilizza soltanto lo sguardo; anzi, mentre lo sguardo incontra qualche difficoltà (l’oscurità della sera, oppure il corpo dell’adulto che impedisce di scorgere l’interno dell’armadio), una forte sottolineatura è data all’olfatto («prendo fra le dita un’erba odorosa, la premo sotto il naso»), ma forse ancor di più dal senso “basico” del tatto, e una “scuola del tatto” avrebbe ragion d’essere se «polpastrelli» risulta ne L’orizzonte (ci scommetto, in attesa di un rilevamento statistico di concordanze) un termine di insolita frequenza. Percezione che però, nella situazione non-pacifica, solcata dalle contraddizioni che le chiavi psicoanalitica ed esistenziale ci hanno subito aiutato a sottolineare, si vede caricata di tensione e deformata dinamicamente. Fino ad alcuni punti di vero e proprio “straniamento”; come la descrizione del ballo dove buffamente si osservano soltanto i piedi; oppure la scena della corrida, dove si passa, omettendo le indicazioni dei soggetti, dalle mosse del toro al comportamento degli spettatori, in modo da evidenziarne la non minore bestialità. Un po’ in tutto il testo, il lettore si accorgerà che le cose sono infette di psicologia, ma nello stesso tempo che le persone vengono attraversate dalle cose, in una sorta di prospettiva “cubista”. A proposito del lettore: è chiaro che una scrittura come quella de L’orizzonte gli richiede una attività supplementare per districarsi dentro il “presente globale” dei diversi livelli narrativi (dovrà spesso tornare indietro a separare i fili imbrogliati, tanto per usare la metafora della maglia). Per giunta, la descrizione puntigliosa dei dettagli si accompagna ad alcune vistose lacune, che lasciano nell’incertezza alcuni dati importanti dell’ambientazione e quindi rendono il mondo raccontato scarsamente ospitale per l’immedesimazione. Se il lettore scorre le pagine per scoprire quale “frase di verità” verrà pronunciata si risparmi la fatica: è chiaro fin dall’inizio che la «frase che darà il senso» è impossibile perché «ancora il mondo è frantumato in mille nomi». In cambio, però, il lettore riceverà informazioni e stimoli da livelli multipli, in una esuberante “produzione di significati”.
E dunque procediamo. Il lavoro a maglia connota immediatamente l’io narrante come un soggetto-donna. Per quanto Carla Vasio abbia sempre tenuto in sospetto l’idea di una specifica “scrittura al femminile” e fatta rimarcare la distanza tra narratore-personaggio e autore (fino alle prove di un narratore maschile, come in La più grande anamorfosi del mondo) e per quanto, anche in questo testo, nel retro della prima edizione, la notizia biografica terminasse ironicamente a smentita dell’identificazione rivelando che l’autrice «non sa lavorare a maglia», tuttavia è innegabile che L’orizzonte contenga una protesta femminista di grande forza. La vicenda matrimoniale manifesta tutta l’insofferenza del soggetto per la subalternità: l’orizzonte ricevuto in quanto appendice di un marito è insoddisfacente e non condivisibile. Il ruolo imposto dall’esterno viene negato con gesti di ribellione che diventano evidenti nel corso della festa mascherata, dove è messo in atto un vero e proprio svestimento: del mantello, prima, slacciato violentemente con tanto di rottura dell’asola, poi del collo dell’abito, non a caso chiamato «collare» («adesso mi strappo dal collo il collare di seta che mi stringe»), poi dei guanti di seta, tolti con uno «strappo secco», infine della maschera stessa, levata davanti allo specchio (uno “stadio dello specchio” rovesciato?) come si trattasse di un cambio di pelle, una muta caratterizzata da dissonanza e disarmonia. Con vitale soddisfazione, è il rifiuto dell’identità prescritta. L’identità sarà, invece, da ricercare e da ricomporre (al pari del testo) con una difficile ricerca per collegare frammenti, così come avviene nel “gioco delle fotografie”, disposte dalla madrina sul letto e alla fine cadute per terra (non per niente il ricordo dell’episodio si alterna con le fasi della festa). Se a suo tempo Moravia aveva concluso gli Indifferenti con la mascherata delle donne, cioè con la necessaria resa all’ipocrisia sistematica, adesso – negli anni Sessanta si sente aria di lotta. Proprio nel cuore della coppia – che fin dalle origini è terreno privilegiato del romanzo e sua logica conclusione – si scava il solco di una non-coincidenza irrimediabile, condita da sarcastico distinguo, ad esempio: «Preferirei non uscire con loro, invece mio marito simpatizza con quelli come con tutti, perché è sempre disponibile e della qualità della gente si cura poco. Per questo neppure lui mi è simpatico».
Altre lotte non tarderanno. Sebbene manchi l’indirizzo preciso, la scalinata de L’orizzonte potrebbe non essere lontana da quella romana di Valle Giulia dove solo qualche anno più tardi un’intera generazione prenderà coscienza della possibilità della rivolta. E siamo precisamente arrivati all’interpretazione sociale. Certo, lo sguardo di Carla Vasio sembra prediligere l’orizzonte naturale (il parco, la terrazza), eppure in esso rientrano sia pur di sbieco i sintomi della vita collettiva. Agli occhi dell’attesa, l’andirivieni delle auto appare un movimento insensato, un intasamento continuo che non porta a nulla. Nel cielo, un aereo con scritta pubblicitaria annuncia che la “società dello spettacolo” è già arrivata. Ma il luogo del sociale (lucidamente indicato, fin da subito, come la sede della «volgarità intenzionale») è quello della festa, che si sviluppa nella seconda parte del libro. Tra l’altro, è interessante notare che tra la prima e la seconda parte, quella in esterni e quella in interni, ci passa un momento inquietante: il parco si popola di «creature dimenticate», i margini si fanno pericolosi. La voce narrante dice di sentirsi espulsa dal «grande utero vegetale», la natura cioè non offre più un tranquillizzante oggetto di osservazione, ma piuttosto un campo di tensioni equivoco e fuorilegge; bisognerà affrontare il mondo umano. In fondo la natura era anche il luogo di un cambiamento temporale controllabile perché graduale e ciclico: anche il mondo sociale sembra girare in un cerchio, però in modo caotico e vorticoso (le automobili che «si ammucchiano… si sorpassano, si imbrogliano»; il «girotondo» dei danzatori): in nessun caso si procede. Nella festa mascherata (come prima uno stile-Antonioni, adesso si potrebbe accostare uno stile-Fellini) tutti i personaggi sono cancellati sotto una finzione anonima, trascinati dall’allegria obbligata con cui gli “arrivati” celebrano i loro successi. Nella confusione generale non c’è rapporto. Mentre le persone risultano mute, il grido che dovrebbe denunciare il vuoto di valori rimane in gola, impossibile, o si riduce a un «soffio», in ogni caso non riceve alcuna risposta. Anche il trattamento del dialogo – in cui Carla Vasio si dimostrerà maestra nel corso di tutto il suo itinerario di scrittrice – riporta solo frantumi verbali e non conduce mai ad un vero interscambio. “Incomunicabilità”, sì, secondo la chiave interpretativa esistenziale, ma che funge però da dura messa in evidenza della perdita di sostanza dei rapporti umani nel modo di vita dominante. Sembrerebbe «facile scivolare dentro il coro»; eppure la protagonista si ritrova impossibilitata a farlo. La cordialità diffusa le risulta semplicemente insopportabile. Non è solo idiosincrasia quando il testo sottolinea i resti disgustosi, le tovaglie sporche e il pavimento imbrattato di avanzi, segno di un’abbondanza non razionalmente gestita e di residui che non possono esser eliminati: è la vera e propria ripulsa del codice sociale.
Naturalmente il significato politico in senso stretto, in un testo sperimentale di questo tipo, è indiretto: in apparenza non vi è alcuna allusione in merito, sembra trattarsi solo dell’eterno triangolo. Se però ci rivolgiamo al senso complessivo, lavorando a un livello interpretativo che potremmo chiamare allegorico, allora non solo il contenuto aneddotico ma anche le scelte “tecniche” allargano la loro prospettiva. La stessa decisione di utilizzare il presente come unico livello temporale rimanda all’idea dell’evento come sola realtà concreta, all’attualità come tempo della politica, al tempo-ora di Benjamin, lo Jetz-zeit, che è il punto decisivo della chance rivoluzionaria. Allo stesso modo lo stile che possiamo attribuire a L’orizzonte – questa prosa elegante e raffinata, costituita da un ritmo ampio (nella sintassi) e dalla esattezza dei particolari (nel lessico), una caratura di scrittura che Carla Vasio porterà avanti durante tutto l’arco della sua attività di scrittrice – potrebbe essere riferito all’equivalente sociologico di una borghesia “con classe” (seria e preparata, onesta), invece della borghesia “senza classe” (arraffona, pressappochista e priva di etica) che arriverà a predominare nel nostro paese. Ugualmente la nausea per la massa festante rivelerebbe un aristocratismo piuttosto forte. Tuttavia è interessante notare (perché anche questo potrebbe avere delle conseguenze allegoriche) che il livello percettivo, fondante nelle descrizioni, non è mai puro: ciò significa che non denota soltanto “senso e sensibilità” in dotazione a un soggetto gerarchicamente superiore, ma tradisce al suo interno una forte istanza corporea; la ricognizione dei sensi si scopre “innervata” dalla pulsione (per esempio nei richiami alla fame) e quindi non nasconde la “base materiale” e le sue spinte deformanti e conflittuali. Il punto nodale è che, come ho già segnalato, l’amalgama sociale non riesce a tenere e lo vediamo nella resistenza del personaggio durante la festa ad essere omologata e trascinata nell’euforia generale: «né essere adoperata, né aggiungere un personaggio di più al gruppo», come afferma in caparbia ma cosciente opposizione. In fondo, così come il tempo del racconto, così anche l’identità (il «questo io sono») deve essere tenuta in sospensione.
A leggere a fondo L’orizzonte si scopre che la percezione è sempre intrisa di interpretazione e quindi contiene una strategia: da una parte la realtà si sfrangia nelle sue forme (c’è un colorismo astratto che dimostra il rapporto dell’autrice con la pittura di punta); dall’altro lato, si converte in senso metaforico-simbolico con le proiezioni della psicologia, quindi in modo contorto e spesso negativo. Valga per tutti questo passaggio: «Appena avrò finito di raccogliere questi infiniti punti rossi e blu conficcherò i ferri nel gomitolo, avvolgerò il lavoro, me ne andrò via senza più aspettare». Una dichiarazione di impazienza che rovescia la quiete dell’attesa e che rovescia altresì l’immagine pacifica della sferruzzante casalinga in una sorta di cruento rito voodoo. Qui i ferri sono davvero “ferri corti”. Forse, oltre che i “ferri” di una saporita cucina, sono anche chirurgici “ferri” di una spietata anatomia, che non risparmia il soggetto e neppure il testo stesso. È una simbolica della “crudeltà” che Carla Vasio non abbandonerà più.
Il lavoro a maglia con i ferri: ecco, non è soltanto il filo conduttore (che più filo non si potrebbe!) atto a tenere insieme i diversi livelli della storia; ma è anche, in tutta evidenza, l’allegoria della scrittura. Sappiamo bene che “testo” deriva da “tessuto” e Cesare Segre ce lo ha ricordato aggiungendo che «il testo è dunque il tessuto linguistico di un discorso». Ma qui c’è qualcosa di più e d’altro. I diritti e i rovesci si adattano perfettamente all’alternanza dell’attuale e del pregresso, corrispondono all’ordito e alla trama che presiedono al ritmo della struttura (che ha qualcosa di musicale: e si potrebbe aprire il capitolo del rapporto con i musicisti d’avanguardia). Nella composizione i punti di passaggio tra i livelli, i quali per altro, in assenza degli indicatori temporali, devono essere identificati attraverso lo stato dei personaggi e dei luoghi (con la madre e la madrina l’io narrante è in età da bambina, presso la più o meno vedova Canetti in età di studentessa, con Alberto in età di moglie, ecc.), sono costituiti da slittamenti dettati da somiglianze analogiche, libere associazioni che vanno ad integrare il paesaggio della situazione. Vi è da una parte costruzione di un ordine, ma dall’altra irruzione di elementi discordanti: la scena finale ragiona proprio in questi termini, mentre l’orizzonte si accampa nitidamente davanti allo sguardo circolare sul terrazzo, l’ordine è guastato dall’arrivo dell’altro («Questo suono di passi, diretti verso la mia persona, ferma vicino alla balaustra in un punto del terrazzo al centro dell’orizzonte definito dagli alberi dai colli lontani dall’ansa del fiume dalle case dai villaggi dai lumi, interrompe questo perfetto ordine, dilapidato ora dal turbamento che l’interruzione mi porta»). Nel lavoro a maglia, come il testo avverte spesso, non bisogna mai distrarsi, c’è sempre il rischio di perdere il filo, sbagliare la calature, contare male i punti, saltare la maglia e lasciare dei buchi. Fuor di metafora, la struttura è affetta dalla disfunzione. L’intero testo-tessuto si fonda su un vuoto, su di una enorme lacuna, quella frase fatidica che verrà pronunciata un secondo dopo la fine, cioè resterà fatalmente fuori-testo. Una lunga attesa per niente, una scrittura del dispetto? Direi che l’atteggiamento verso il lettore è qui, insieme, ironico ed etico. È ironico, certamente, perché prevede che il lettore resti deluso sul più bello. Ma è etico, per tutta una serie di motivi: sia perché la soluzione non deve essere fornita dal testo, sarebbe troppo comodo, il lettore deve trovarla dopo la lettura, nella sua stessa vita, nella sua stessa prassi; sia perché gli dimostra che tutto il tempo dell’attesa non è affatto un tempo morto, un tempo perso, che si vorrebbe saltare per arrivare al dunque: l’intervallo, è quello la cosa importante. E tanto più perché la lettura stessa – al pari del lavoro a maglia de L’orizzonte – può venir considerata, nel mondo utilitaristico delle attività produttive, un mero riempitivo del tempo libero, un intervallo sprecato, mentre è invece anch’essa una produzione, è né più né meno la “produzione del soggetto”.
Si dirà che lo sperimentalismo di Carla Vasio va inserito nella sua epoca, gli anni Sessanta, e rapportato al salto della crescita economica e civile, all’accrescimento di modernità che ha potuto dar luogo ad esiti radicali. E là deve rimanere, secondo i più; ché oggi la situazione è molto cambiata, la modernità va all’indietro e l’orizzonte è impazzito tra ampiezza globale e ristrettezza locale. E l’immaginario tende ad assecondare l’assuefazione, compreso il consumo a scatafascio (il dopaggio) di narrativa-fiction caratterizzata dall’esplicito-banale (scrittura piatta, psicologie semplificate, dialoghi rozzi e via dicendo). Lo sperimentalismo è superato, si dice sempre. Ma non è proprio così: in realtà è censurato dalle presunte leggi della letteratura commerciale, che nasconde una lotta spietata per il dominio dell’immaginario, una “colonizzazione delle menti” che non lascia prigionieri e non concede alcuno spazio alle alternative. Eppure, proprio per questo, c’è assoluta necessità di scritture che tengano in esercizio la critica dell’ideologia e l’agilità mentale, e che sollecitino non solo l’emotività del lettore ma anche la sua intelligenza. Allora (per dirla con l’ultimo libro di Fausto Curi) «smettiamola di parlare del Novecento come del “secolo scorso”»! Del resto, L’orizzonte ci insegna che il passato è sempre presente e questo vale anche per il testo stesso; nel momento in cui lo riprendiamo in mano esso agisce proprio oggi su di noi. In un suo punto fondamentale si legge: «“Ecco,” penso: “Questo è l’orizzonte di cui mi debbo impadronire”». Il problema continua a riguardarci: siamo “inglobati” dentro un orizzonte che ci sovrasta e ci comprime, la scommessa è quella di come uscirne (come risvegliarsi dal sonno dell’ideologia). Si tratta, una volta ancora, di impadronirsi dell’orizzonte, di seguire la pulsione della libertà e rovesciare le identità passivamente subite.