SUONO DELLA SCRITTURA, SCRITTURA DEL SUONO
Le Scritture sonanti di Antonio Amendola si situano, subito già a partire dal titolo, nel solco della poesia sonora, questo ramo collaterale della poesia novecentesca, legato alle sperimentazioni dell’avanguardia, che si viene affermando con sempre maggiore importanza. Tuttavia, malgrado l’innegabile pregnanza della sua produzione, la poesia sonora non è ancora stata riconosciuta e integrata nel complesso della storia della poesia contemporanea (tutte le antologie finora hanno escluso i poeti verbovisi), e neppure la sua linea di ricerca è stata ricostruita adeguatamente con un minimo di coordinate e punti di riferimento, se non dai protagonisti stessi (la più accurata raccolta si deve, per il momento, a uno dei migliori poeti sonori, come Gianni Fontana). Gli è che la critica ufficiale non ha voluto, ma forse neanche potuto, occuparsene a dovere, perché sprovvista degli strumenti interdisciplinari necessari per avvicinare una testualità multisemiotica come questa. Oltre al fatto che la poesia, nell’epoca della sua emarginazione, tende sempre più a rinserrarsi in forme corrive e si arrocca nel passato dell’antico fulgore, invece di tentare di proseguire la tradizione del nuovo e la modernità radicale.
E però, controcorrente e caparbiamente, la poesia sonora c’è. Il suo punto fondante non è semplicemente il ritorno all’oralità, che non sarebbe altro che un altro modo di ritorno all’origine della poesia dei rapsodi e degli aedi, quanto di più premoderno si possa immaginare: la sfida consiste invece nel portare anche l’oralità nel fuoco della piena modernità e di incrociare reciprocamente la scrittura e il suono. Quindi, sì, l’aspetto performativo e l’ideazione di un verso che non sarebbe pensabile se non insieme alla voce che lo pronuncia: ma anche, altrettanto, l’elaborazione di una complessa trama di connessioni in cui la voce viene trattata come una scrittura. Da tale complessità nasce l’esigenza di raccogliere la poesia sonora in un libro, per quanto la sua tendenza naturale debba portarla verso l’esecuzione in pubblico, la performance e il concerto – il che ha contribuito a chiudere questo tipo di testi in un “circuito a parte”. Ora, sebbene la voce trovi nel microfono il suo principale veicolo, il libro è nondimeno necessario, non soltanto come spartito, ma anche come luogo in cui rimanga possibile gustare – non già l’emozione, che quella è ben più forte nel “qui e ora” della vocalità – ma la trama dei rapporti che si formano nel testo sonoro, nel gioco reciproco della sonorità della scrittura e della scrittura della sonorità. Il testo sonoro, apparentemente elementare, ha bisogno della pagina per rivelare tutta la sua complessità e multistratificazione, i suoi nessi relazionali e intertestuali.
Nonché le direzioni plurali. Le Scritture sonanti di Antonio Amendola si vanno componendo, infatti, per materiali e forme diverse. Il loro itinerario è di quelli a porte battente, sempre pronto alle sorprese e agli sviluppi inattesi. Gli è che il suono, adottato dall’invenzione della poesia, si riarticola e quindi, per un verso, viene staccato analiticamente, per l’altro sollecita una nuova organizzazione. Il primo versante potremmo chiamarlo l’assaporamento del suono. Il suono va tenuto in bocca e saggiato nelle sue varie potenzialità e pronunce. Si tratta, in sostanza, di stabilire se, fuori del rapporto codificato del segno, in quanto pura materia fonica possa reggere da solo il peso di nuove significazioni. È la grande utopia di una forza semiotica del puro suono, di un segno senza codice che va ugualmente alla ricerca del senso. Occorre, allora, non soltanto separare il suono, smembrare la parola e provare le sue parti staccate, sillabare per bene, ma poi anche ripetere il frammento in tutte le intonazioni che potrebbero risvegliare nuovi nessi latenti. Questa operazione, ovviamente, riguarda un intervento vocale e quindi, tendenzialmente, conduce fuori dal libro. Tuttavia, la scrittura può recarne convenientemente le tracce e là dove troviamo una ripetizione possiamo pensare che non si tratti di una esatta duplicazione inerte, piuttosto, al contrario, la possiamo leggere come una variante differente e dinamica, con inflessione in qualche modo distorta. In ogni caso, la costanza con cui Antonio Amendola continua a scrivere i suoi testi in tutte lettere maiuscole, se si collega certamente alla eliminazione della punteggiatura e quindi alla cancellazione della normale grammatica in favore di una nuova organizzazione basata sui collegamenti della sonorità, rimanda anche all’evidenziazione dei singoli suoni che compongono le parole. Ogni lettera è maiuscola: ovvero ogni suono è importante, le parole andrebbero pronunciate, scandite, in qualche modo, suono-per-suono.
Ma, certamente, oggi sempre di più, la poesia sonora non si limita al momento analitico, separatorio, del singolo fonema, e procede a esperimenti di riorganizzazione. Anche Amendola si sente obbligato a farlo e precisamente per la sua vocazione musicale. Le scritture sonanti devono mettersi alla prova del ritmo. Ecco quindi che i suoni si ricostruiscono un contesto, un ordine e una successione lineare, prima di tutto battendo e ribattendo. La poesia di Amendola, in questa sua direzione, si riaffaccia sulla prospettiva della metrica, tuttavia senza alcuna retrospettiva nostalgia per il classico e per le forme chiuse. Non vi è metrica tradizionalmente regolare, qui; forse non c’è metrica affatto, nel senso che – dove c’è – è per caso fortuito. Ciò che interessa di più ad Amendola è chiarire il riferimento “sonante” della sua poesia. Questo riferimento non vuol dire “armonioso”, non vuol dire “melodico”. È piuttosto un ritmo che batte, un ritmo di batteria. La sonorità verbale, se così si può dire, è usata come strumento di percussione («BEAT HUMAN BOX / HUMAN BOX BEAT / BOX BEAT HUMAN / BEAT BOX HUMAN», ecc.). Per questa strada, non si costeggia alcuna simbolica coloritura e neppure alcun arco sinfoniale; semmai l’accostamento è alla produzione eslege e polemica della musica rap, che costituisce un ambito decisamente antigrazioso nello stesso continente della musica leggera, nonché un provocatorio abbassamento del sublime lirico-poetico ai generi di consumo. Se dal lato dell’assaporamento del suono la poesia tendenzialmente usciva dalla pagina, su questo lato della costanza ritmica o del batti-e-ribattimento la poesia, al contrario, rientra pienamente nella pagina, in quanto la ripetizione tende a configurazioni di equivalenze, quindi agli effetti del visivo: blocchi, colonne, accostamenti speculari, e mettiamoci pure quel tipo usato spesso da Amendola (ma qui con una certa parsimonia: si veda l’unico MELAMANGIO), quel tipo di componimento, dico, in cui una frase è ripetuta ogni volta con una lettera in più o in meno, dando luogo sulla pagina a delle curiose vele triangolari.
Andando verso i problemi della costruzione, secondo la strada aperta dai suoi maestri (ve ne sono due, qui, esplicitamente omaggiati, due Gianni: Gianni Toti e Gianni Fontana), in questa nuova raccolta Antonio Amendola sviluppa particolarmente l’aspetto plurilinguistico e dimostra, ancor più del solito, una predilezione per il dialetto romanesco, che aumenta la coloritura popolareggiante del testo, ma che è anche leggibile in chiave di autoironia verso un preteso intellettualismo, senza per altro nulla togliere all’internazionalismo modernista dell’insieme. Dialetto romanesco e lingua inglese sono infatti i due estremi, il locale e il globale, il contraddittorio “glocale”, in cui si muove, si dibatte e vive il nostro linguaggio odierno. Ed eccoli allora così fatti a pezzi, mescolati in impasto e fatti reagire con le lingue alto-culturali (come il latino), messi in attrito con le disparate citazioni, fatti rimbalzare, magari, in un esilarante “ping-pong”, travolti infine in risillabazione, deformazione e invenzione.
Il ritmo trasporta, il ritmo trascina. Ma le scritture sonanti vogliono anche far riflettere. La stessa formula suggerisce vari significati. Il suono, certo, quindi la poesia sonora, l’alleanza strategica della poesia e della musica contro le abitudini del senso comune. Ma anche scritture sonanti come monete sonanti, che sono quelle buone, una bella affermazione di valore di fronte alle innumerevoli contraffazioni del mercato. Come far suonare le monete era la prova della loro autenticità, così qui, la prova delle scritture è nel farle suonare, sembra alludere Amendola: di fronte alla crisi del linguaggio, alla sua falsificazione sistematica nella comunicazione dei media, è indispensabile una adeguata verifica compiuta con gli strumenti della vocalità e del ritmo percussivo. Il che significa, dunque, una poesia che, suonando la lingua e suonandole alla lingua, si mette in gioco e si lascia sperimentare, praticare, a piacere e con piacere.