L’IN-BETWEEN NELLA POESIA DI ANTONELLA DORIA
Un tema divenuto indubbiamente centrale negli ultimi tempi e non solo nell’ambito letterario è quello dell’identità e della rappresentazione dell’Altro. Più che un tema: un nodo di discussione e di prassi che può diventare la pietra d’inciampo di irrisolte unioni politiche (l’Europa, penso), oppure il punto decisivo, per paranoidi e viscerali reazioni, delle scelte elettorali. Proprio ultimamente, nella sua raccolta di saggi, Raul Mordenti ha reiterato l’indicazione che reggeva la sua proposta di un’altra critica: occorre prendere posizione in favore del “riconoscimento dell’Altro” nella lotta che si oppone al «rifiuto ostinato di ogni riconoscimento dell’Altro, e dunque anche delle sue culture (un rifiuto per giunta tanto filosoficamente fondato)» che «è componente essenziale dello stato di guerra contro l’Altro che caratterizza il Soggetto della Ragione borghese». Già un pioniere della letteratura comparata come Armando Gnisci aveva sottolineato la novità letteraria delle “scritture migranti” (Creoli meticci migranti clandestini e ribelli un suo titolo emblematico) come portatrici di inediti contatti e intersezioni e mescolanze tra le culture. Fuori dell’Italia, l’indiano Homi Bhabha, attivo ad Harvard, ha coniato l’espressione in-between per esprimere lo “stare tra”, l’inter-medio, e l’interstiziale. Scrive Bhabha nel suo libro principale I luoghi della cultura (uscito in lingua originale nel 1994):
Il multiculturalismo può ampliare il proprio consenso e la propria autorità politica ponendo domande relative alla solidarietà e alla comunità secondo una prospettiva intertestuale. Le differenze sociali non ci si presentano semplicemente attraverso una tradizione culturale consolidata, ma sono segni dell’emergere di una comunità come progetto — al tempo stesso visione e costruzione che ci conduce “al di là” di noi stessi e ci fa ritornare alle condizioni politiche del presente, ma con uno spirito di revisione e ricostruzione.
Questo discorso sacrosanto ed eticamente centrale è stato applicato alla letteratura soprattutto sul lato degli autori (ovviamente) e dei contenuti della narrativa. Quello che invece vorrei analizzare in questa sede è un caso piuttosto raro: l’esperimento di portare la logica e il senso dell’in-between nella poesia, non solo come tema ma proprio dentro la forma poetica, nel cuore del suo specifico linguaggio.
È proprio questo il progetto di Antonella Doria, la poetessa che ha pubblicato unitariamente le sue raccolte poetiche nella collana “rossa” delle edizioni del Verri, sotto il titolo Millantanni e con introduzione di Giulia Niccolai. Si tratta di tre poemetti, sia pure dalla struttura frammentaria: il primo è Medi terraneo ed ha al suo centro il mare chiuso che tiene insieme i continenti di Europa, Asia e Africa, punto fondamentale di incontro e di interscambio tra i popoli, luogo decisivo della massima emergenza odierna, quella dei disperati provenienti dal Sud del mondo. Ma quel tema di assoluta attualità è accolto nella versificazione non solo nei contenuti ma anche attraverso un procedimento verbale dal valore eminentemente allegorico, cioè la spezzatura della parola che si riverbera persino nel titolo che divide in due il mare: Medi terraneo, appunto. Valore allegorico, dicevo: è proprio perché c’è un’altra riva, una alterità che ci interroga drammaticamente, è per questo che anche il nostro linguaggio deve dividersi e scoprire l’Altro in se stesso, presentandosi come una sorta di insieme aperto e ponendo come problema quel vuoto scavato nel suo interno, quello spazio esattamente in-between.
Così, tra reminiscenze mitiche e dure realtà, tra mostruosità vecchie e nuove, la poesia cerca di ricucire i fili delle relazioni spezzate dai conflitti che affliggono le coste e il mare stesso, avendo come meta l’utopia della coesistenza pacifica. Una prospettiva affidata principalmente alle donne, riaffermata al termine di ogni brano da un tristico (ad esempio: «donne onde / dèe sempre vengono / vanno»); e l’opera delle donne non è solo affidata allo slancio ideale e simbolico, ma anche proprio a gesti quotidiani, come il tessere e l’impastare, che rimandano a una unificazione di elementi. Tuttavia, l’autrice sa bene che ricomporre l’infranto per via poetica sarebbe una vana illusione, non priva di scontata retorica: ed ecco allora che il linguaggio poetico stesso registra fin dal titolo la spezzatura riportandola nel corpo della parola e si propone, semmai, come un complesso lavoro di riaccostamento di frammenti, che parte dall’isolamento delle unità verbali per provare a ricostituirle in agglomerati diversi da quelli del discorso comune, secondo un movimento dialettico di divisione e di composizione, un moto molto simile a quello marino di andata-e-ritorno, che si può ben denominare “partitura”. “Partitura”, in due sensi: sia nel senso del dividere in parti e quindi della scansione del testo e dell’uso delle parole come entità separate, sia nel senso musicale della combinazione delle stesse come unità ritmiche, come note su un pentagramma; per ottenere un’armonia complessa, difficile e precaria, com’è oggi la lotta da fare in favore della convivenza delle culture. Ricordando che la garanzia della diversità culturale contro ogni arroccamento identitario esige il plurilinguismo, qui con le varie citazioni in greco, in arabo, persino in curdo; per dare un’idea di questa poesia si guardi l’inizio:
medi terraneo corpo
eterno sempre frattale
mare di febbre ovunque
d’acque culla rive
di sale lega avvolge
fragile forte
terra tribale
Il secondo elemento della trilogia è Metro polis (ancora un titolo bipartito e aperto da un intervallo spaziale). E sono le città che hanno segnato la vita dell’autrice, quella d’origine, Palermo, e quella di adozione, Milano. Milano e Palermo, nelle due sezioni del poemetto, sono trascritte come Lan e Ziz, cioè con i monosillabi che sono la radice del nome (Lan per Milano), oppure il nome fondativo (il punico Ziz per Palermo). Milano e Palermo rappresentano il Nord e il Sud, gli estremi della penisola: e sono gli ambiti di due esperienze vissute con ruoli e investimenti differenti, ma dialetticamente connesse ed entrambe gravide di contraddizioni e di lacerazioni nel tessuto dell’immaginario. Milano è la città del “centro” (quel medium che sta nell’antica denominazione di “Mediolanum”), è la metropoli del meraviglioso postmoderno; ma, nello stesso tempo, quel centro si rivela il perno di una vita senza senso e valore. È, piuttosto – così ce la mostra polemicamente il testo, – il luogo dell’affermarsi della pura quantizzazione monetaria nella prostituzione generalizzata, dove impazza una grottesca “giostra” di faccendieri, furbi, improvvisati affaristi:
La Città ha transiti veloci
Senza memoria di sé
senza passato questo
andare non sapendo…
consumando ingordo
il fiato Sono giochi
furiosi ripete gira
la giostra – i cavalli nel
cerchio infinito – sono clowns
burattini prostitute giocolieri
(scommettitori d’esistenze)
Dove si noti lo scarto sintattico e la spaziatura tra le parole a creare ancora zone “intermedie”.
Dall’altro lato, Palermo è lo spazio del “margine”, l’avamposto vicino al serbatoio del rimosso culturale, da cui possono emergere ancora spiriti pagani e una incontenibile “pulsione dell’anarchia”, una forza espressiva che si fonda sul coagulo delle razze e che vede nel “meticciato” l’alternativa alla omologazione trionfante. Certamente, mentre Milano è il luogo del lavoro e della presa di coscienza, Palermo è, per l’autrice, il luogo delle radici e dell’infanzia e perciò anche l’obiettivo del ritorno e della possibilità di riconoscimento. E però, la Sicilia e il suo capoluogo sono il punto d’accesso a un mondo infernale dominato dall’orrore, contenendo il groppo della più feroce violenza del vivere sociale odierno, quello in cui è messo in forse il senso civile e democratico insito nella polis: lo denuncia in modo eclatante il delitto di mafia («boato d’autostrada atroce / cratere ginestre voragini / foibe falde furore a / sacromonte insiste inferno / terrifica figura rovinosa»).
Anche in questo caso, la poesia opera accostando sperimentalmente i nuclei verbali; la sequenza, privata degli ordinari collegamenti grammaticali, perde di ordine gerarchico e si affolla invece in “frammenti” di immagini, ciascuno dei quali porta la sua pietruzza al mosaico. In particolare, la polemica verso gli errori della modernità adotta il gioco di parole proprio all’altezza dei suoi punti nevralgici. Un esempio nella prima parte è l’accoppiamento «spasmi / miasmi», che sono le due sofferenze (rispettivamente dell’uomo e dell’ambiente) implicate nel delirio di onnipotenza della grande città, «torre d’infinita / Babele». Un altro esempio, nella seconda parte, potrebbe partire dalla «ameba umida» (e l’«ameba» – quel vecchio protozoo – è davvero perfetta a rappresentare i movimenti scoordinati e le contorsioni e le scissioni della ideologia elementare dei nostri presunti “tempi nuovi”) e passare poi per la «vischiosa ventosa» e i «visceri viscidi», e poi ancora nel «si protende pròteo / propàgine piegata piagata», per giungere a «fiele filtra / da abissi abili» (una abilità dell’”abisso”: sarà mica la valenza solidamente pragmatica di ogni evanescente e pretenzioso misticismo?). Bellissimo – e assolutamente “no-global” – è il «pappamondo», indice della voracità indifferenziata dell’accumulazione capitalistica. Le parole si possono spostare, il loro senso è sempre duplice: così come ci sono sempre due città e mai un luogo unico.
Nell’ultima sezione, poi, Millantanni, che dà il titolo all’intero libro, la poesia si rivolge al futuro e, nella sua parte terminale, viene dedicata ai figli che verranno, con l’apostrofe del «Vedrai…» (che è anche l’ultima parola del testo). Adesso l’utopia del «sogno bambino» può manifestarsi più esplicitamente e mirare al caricamento della parola, strappata dall’univocità della comunicazione di massa e restituita al polisenso e alla creatività. Il “verso” diventa anche un segnale direzionale; concludendo: «stupore della parola ritorna / camminando verso / un margine di senso / con balsami e unguenti / a ricucire vene strappi / e macerie in corpo porta / un cuore selvaggio / e labbra e braccia memoria di / vita tiene nel ventre nella trama / preziosa di un gioco sarà / felice fecondo l’incontro».
Poesia e impegno? Certo, se considerata come espressione individuale e vaghezza evocativa la poesia sembra situarsi da un’altra parte, esente da responsabilità sociali; tanto che Sartre, nel proporre dopo la seconda Guerra Mondiale la sua idea di engagement ne dispensava la scrittura in versi, troppo occupata a suo parere sui suoni e sulle immagini per pensare ai significati. Eppure è possibile, invece, tentare di abbordare con uguale passione entrambi i versanti, del suono e del senso, e proporre un testo poetico che, senza perdere nulla del suo linguaggio particolare, parli tuttavia dei problemi più assillanti del mondo di oggi.