AMELIA ROSSELLI

LA POESIA DI AMELIA ROSSELLI E LA DECOSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ

 

Se non ci fermiamo alla ricostruzione biografica e non ci accontentiamo delle scorciatoie psicologiche, scontata ogni suggestione esistenziale e al netto magari pure delle questioni di genere, quello che resta da domandarsi a proposito della poesia di Amelia Rosselli, dopo avere invertito quelle strade oggi molto battute che conducono a una spiegazione attraverso la genesi, ciò che resta da domandarsi – dicevo – è l’effetto che i suoi testi in versi producono.
Il che equivale a interrogarsi sull’oscurità della poesia. Che nel suo caso non dipende assolutamente da reticenza, in quanto si manifesta, al contrario, in una poesia “a cuore aperto”; e che non dipende nemmeno (come alcuni suppongono per le avanguardie) da malevolenza elitaria verso il lettore comune da tenere a distanza; e neppure sembrerebbe dovuta a un sovraccarico di pensiero o da qualche cerebralismo contorto, perché, se pure volessimo parlare di sperimentalismo, dovremmo specificarlo affatto spontaneo e non causato da un progetto a priori.
E quindi: quale oscurità? Quella della Rosselli appare determinata da un testo estremamente denso e però non confuso in quanto poggia su di una solida composizione sintattica. S’è parlato molto della sua competenza musicale e perciò della musicalità delle sue poesie; forse possiamo precisare questo termine un po’ generico, specificando che l’effetto-musica si attiva non tanto nel lato fonico (sebbene nella lettura a voce dell’autrice assumesse un tono affatto particolare), quanto più precisamente nei ritrovati della ripetizione. O della variazione, per adottare uno dei suoi titoli principali, le Variazioni belliche. Ora, la ripetizione è portatrice di un carattere paradossale perché riproduce l’uguale, ma nello stesso tempo quell’uguale, in quanto ripetuto, è sostanzialmente diverso – come ci hanno insegnato Borges e poi Deleuze e come si verifica lungo tutta la tradizione poetica. Ma in Amelia Rosselli avviene qualcosa di nuovo: abbandonata l’equivalenza metrica, tutto il peso ritmico è posto sulle spalle di elementi sintattici piuttosto “impegnativi”. Penso al “se… se… se…” di alcune Variazioni, appunto, dove la ripetizione costruisce periodi ipotetici che tuttavia si ritrovano sviluppati in conseguenze incongrue. L’impianto è quello di un ragionamento, ma la materia che lo riempie è invece da bateau ivre rimbaldiano.
Che la scrittura sia automatica o no (questo è sempre difficile da stabilire e poi ci riporterebbe ai problemi “genetici”, alla supposizione dello stato dell’autrice all’atto della creazione, che è davvero impossibile da ricostruire) ciò che comunque possiamo constatare è l’intervento dell’immaginazione, gli spostamenti dei campi semantici, la giunzione delle parole che è anche giunzione dei regni e delle sostanze dell’universo. Libertà e anarchia dell’immaginazione che ci riportano alla prerogativa poetica di andare oltre la piatta ragione borghese e, nel caso della Rosselli, potrebbero essere viste come il modo di superare la sofferenza interiore con un felice distacco dalla realtà. Ma qui un simile profilo, ancora legato alla figura del poeta romantico ispirato e folle, non funziona; o non funziona del tutto. Perché l’immagine “poetica” continuamente si rovescia, la sua soddisfazione creativa è posta in bilico. Come se al “principio di piacere” metaforico si contrapponesse, quasi istantaneamente, un “principio di realtà” che lo smaga. Così come verso il “tu” di un interlocutore o partner il nesso linguistico dell’apostrofe si incrina spesso e volentieri in punti di crisi, di diffrazione e di rigetto, a farci capire, credo, che qualunque sia la vita di coppia è illusorio pretendere di rispecchiarsi nell’altro (e per di più a scorno della tradizione lirica amorosa…); allo stesso modo l’immagine che sia apparsa positiva (e in qualche modo, un grado di positività è insito nell’atto stesso di immaginare) si trova a un passo smentita da qualcosa di negativo, producendo una insolita e vertiginosa oscillazione di stato (o se vogliamo di “tenore” o di “ethos”, come direbbero alcuni semiotici: euforia e disforia a stretto contatto, talvolta talmente stretto da scontrarsi nell’ossimoro). Condizione ossimorica per la quale vale più il precedente di Campana (un Campana in spazi ancora più stretti) che non quello dei surrealisti, troppo trionfanti nel loro utopismo.
L’impressione di un lavoro sulla lingua “straniera”, che ci riallaccerebbe giocoforza al nomadismo della biografia dell’autrice, non è sufficiente a spiegare questo fenomeno. Direi piuttosto che, senza pretese rivoluzionarie roboanti, la poesia di Amelia Rosselli, proprio in virtù dei suoi contraccolpi semantici che impediscono al mondo poetico di sublimare la realtà e gli impongono invece la legge della precarietà, diventa una formidabile indicazione della instabilità dell’identità e quindi assume una posizione culturalmente controcorrente nell’epoca del rinforzarsi e del contrapporsi di identità cieche e virulente. Insomma, la poesia del “se” è anche poesia del “sé”, precisamente nel senso della decostruzione del “sé”. Ciò vuol dire che, se ci avviciniamo a questi testi come ad un discorso – scartando le due modalità opposte ma coincidenti di rifiutarne in blocco l’incomprensibilità oppure di accoglierla come un oracolo divino (o un indimostrato pregio estetico) – un discorso polisenso ma pur sempre un discorso e non una profezia, dobbiamo innanzitutto essere pronti a mettere in gioco le nostre sicurezze. Saranno pure, allora, questi versi sintomo o testimonianza, ma saranno soprattutto, in virtù della dinamica del loro linguaggio, un acquisto energetico e un esercizio liberatorio da “essenzialismi”, “filiazioni” e quant’altro s’incrosta e si solidifica troppo nel nostro immaginario collettivo.

 

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