LA TENDENZA DEL TAUTOFONO
In quanto curatore della antologia dei Novissimi, nonché (con Balestrini) della prima raccolta del Gruppo ’63, Alfredo Giuliani ha un ruolo di primo piano nelle vicende della nuova avanguardia. Proprio nella prima introduzione ai Novissimi, Giuliani fa menzione dello sperimentalismo, sottolineando le direzioni dell’impersonalità, della moltiplicazione delle varianti scrittorie,
La [nostra] coerenza sta nell’essere passati in tempo dall’esercizio ormai inaridito di uno “stile” alle avventurose ricerche e proposte di una “scrittura” più impersonale e più estensiva. Il famoso «sperimentalismo». Pochi anni e tutto è cambiato: il vocabolario; la sintassi, il verso, la struttura della composizione. È cambiato il tono, è oggi altra da ieri la prospettiva implicita nell’atto stesso del fare poesia. Sembrava che le possibilità di “parlare in versi” si fossero ristrette: le abbiamo invece ampliate, adoperando, sì, anche quella «abilità» di cui alcuni di noi sono talvolta accusati. (…) sfidando il silenzio che sempre consegue, insieme con le chiacchiere, al deperimento di un linguaggio, esasperando l’insensatezza, rifiutando l’oppressione dei significati imposti, raccontando con gusto e con amore storie pensieri e bubbole di questa età schizofrenica.
Bisogna però considerare che Giuliani aveva esordito un poco prima della stagione sperimentale e quindi aveva dovuto compiere un percorso che, partito dall’entourage del postermetismo, dell’eredità montaliana e della poetica degli oggetti, è poi arrivato a bruciare la presenza esistenziale del soggetto, avanzando via via specialmente sulla strada del gioco e del nonsense, fino ad eliminare l’aspetto emozionale nell’ironico e nel grottesco. Ho scelto, per rappresentare la sua ricerca, proprio un testo della fine del decennio-Sessanta, un momento in cui – per contraccolpo con la contestazione sociale, studentesca e operaia – anche gli autori dell’avanguardia si radicalizzano al massimo (si possono confrontare le scritture di tutti e cinque novissimi in quegli anni) e raggiungono i risultati più estremisti. Per quanto lo riguarda, Giuliani pubblicava nel 1969 Il tautofono, premettendovi questo corsivo esplicativo:
Il tautofono è un test psicologico l’equivalente auditivo delle macchie di Rorschach: al paziente viene fatto ascoltare un disco che reca incisi simulacri di frasi, suoni che somigliano a sequenze di parole ma che non possiedono nessuna connotazione semantica. Come la macchia è indifferente all’interpretazione (può essere, poniamo, un pipistrello o una vulva) cosi la frase inintelligibile non può identificarsi in questo o quel significato: persuade ironicamente a trovargliene uno, ma tutti sono “buoni” e patologici in diversa misura: Interpretando l’oracolo decifriamo noi stessi: il tautofono è il rumore che fa la nostra musica.
Possiamo quindi prepararci a una serie di libere associazioni. E infatti, ecco il testo che chiude la raccolta, intitolato Poi si fa l’esperienza:
se volete un po’ di piombo eccolo se vi occorre un palo basta spostare con un piede / il tappetino di ciniglia nel corridoio a destra si parla in fretta alle quattro / il gatto sul marciapiede di fronte non è più percepibile questa è una grande città / dove le ascelle dei negozi si levano verso il mare l’ho capito fin dal primo momento / disseminando i grigi spilli imballati negli occhi della vecchia ragazza nell’aria / rosa della stanza senza prestare attenzione alla siepe rabbrividita sulla moquette
uncinano il naso guizzante sotto i calzoni in curva pronto a tirare il freno o la tosse / e poi nient’altro da fare che discorrere eccitato di anarchie croccanti e aspirare / l’estasi della telefonista era un buon lavoro tuffato nel bavero di un altro le unghie / alla finestra sbiadiscono sul giornale maestro di vita tracce di sensibilità ci / tolgono l’aspetto dello sfruttamento la sedia girevole porta intorno lo strazio della fuga / l’immersione monumentale non tornerà più su per dirci ma non è così giù nella sabbia
Giuliani opera qui tutta una serie di connessioni incongrue, mantenendo però la regolarità di superficie della frase (un po’ come nell’esempio di Chomsky: “incolori idee verdi dormono furiosamente”…). I negozi hanno le “ascelle”? Gli occhi hanno gli “spilli” e gli spilli possono essere “imballati” come dei voluminosi colli da spedire? La moquette ha una “siepe” e per giunta questa può sentire freddo al punto da “rabbrividire”? E via di questo passo, fino al «buon lavoro tuffato nel bavero di un altro». Possiamo sostenere che si tratti di automatismo e che quindi non ci sia niente da capire o sia semplicemente materiale per lo psicoanalista. Ma l’autore potrebbe benissimo sostenere che le immagini del testo non gli appartengono, tanto che all’inizio si rivolge a noi, al pubblico, al “cliente che ha sempre ragione”, e ci chiede addirittura cosa vogliamo che “ci sia” («se volete un po’ di piombo eccolo», l’attacco iniziale). Sebbene il tono sia affermativo («eccolo»…; «questa è una grande città»; «e poi nient’altro da fare che»), tuttavia tutto quanto viene “posto” ha una presenza ipotetica, sembra sul punto di sparire, di metamorfosarsi in altro, secondo la regola dello slittamento. Sebbene si ritrovino tracce di pulsioni erotiche, la «ragazza», il naso «sotto i calzoni», e anche (come vedremo in Porta) crudeli (gli spilli negli occhi), non solo queste tracce sono contraddittorie (la ragazza è «vecchia»), ma vengono riassorbite in un insieme in cui sulla “sostanza del significato” sembra prevalere l’effetto della sorpresa. Semmai si potrebbe parlare di una ambientazione quotidiana (un corridoio, una stanza) nella cui aura rosea si insinuano particolari inquietanti: gli spilli, certo, ma soprattutto, all’inizio il «piombo» e il «palo» che – se pure funzionano di colpo come presenze indebite – tuttavia potrebbero ingenerare una isotopia “western” di spari e torture. La seconda strofa diventa però decisiva: vi insorgono stati euforici (le «anarchie croccanti», l’«estasi della telefonista») e tuttavia questa “ebrezza” vitale è subito investita dallo stigma dell’inautentico: la quotidianità del vissuto è sostituita dal quotidiano, nel senso del giornale, il cui potere è quello di trasformare l’esistenza in notizia (nella società dell’informazione, quanto non fa notizia non esiste). Ciò che non viene detto è invece proprio il nucleo centrale del sistema (lo «sfruttamento») accuratamente depurato, in modo tale che la fuga, come la libertà (ridotta allo snack dell’“anarchia croccante”) diventa impossibile. Nel finale le immagini si fanno nette e, sia pur per la via indiretta dell’allegoria, assai eloquenti: «la sedia girevole porta intorno lo strazio della fuga», dice che i tentativi di deragliare per la tangente non fanno altro che girare in tondo, e la sedia girevole è un simbolo chiaro del lavoro dei quadri intermedi, impiegati e tecnici. Ma ancora più efficace è il verso ultimo, «l’immersione monumentale non tornerà più su per dirci ma non è così giù nella sabbia», che dice – deludendo l’attesa del lettore – che il Senso con la maiuscola, il senso profondo che andiamo cercando nella Poesia altrettanto con la maiuscola, lo attenderemo invano.
Tutto il testo è impostato sull’incongruenza e sul “non senso”, quindi assume una tonalità ironica e giocosa, però questo “scherzo”, alla fine, come già dicevo per Balestrini, porta con sé delle conseguenze molto serie. Se riflettiamo sulla partenza poetica di Giuliani, vicino alla “fenomenologia” e quindi interessato al momento della percezione, anche come alternativa alle ideologie troppo invasive e troppo rigide, in questo testo, scritto negli anni “caldi” sessantotteschi, sembra che proprio la percezione si sia perduta o rimanga interdetta. Nel panorama metropolitano, in cui domina la «fretta» e tutto dura quanto un colpo di «tosse», in cui domina l’indifferenza («senza prestare attenzione») oppure la reazione stimolo-risposta delle attività pratiche («pronto a tirare il freno»), lo spazio per la presenza concreta del soggetto che coglie le cose si cancella. È detto esplicitamente: «il gatto sul marciapiede di fronte non è più percepibile» (I strofa); e: «sbiadiscono (…) tracce di sensibilità». Il titolo stesso ci avverte da subito che Poi si fa l’esperienza, quindi l’esperienza viene dopo, non è un impregiudicato prius, bensì una costruzione secondo collaudati “programmi” di comportamento. Subito dopo il titolo, il primo verso che avevo già commentato, offre al lettore-consumatore quello che vuole: non si tratta più, quindi, di comunicare un’esperienza, ma di regolarsi secondo la domanda e l’offerta, anche se poi è chiaro (secondo il progetto dell’avanguardia) che la domanda sarà presa a sberleffi. Se il giornale (e il «piombo» iniziale potrebbe essere proprio non quello delle pallottole ma quello che delle nuove armi comunicative, la stampa), se il giornale, dicevo, è assurto a «maestro di vita», si è mangiato lo spazio del mondo-della-vita. La vita non può sussistere che a livello “sperimentale” nel tentativo di operare accoppiamenti linguistici sintatticamente corretti, ma semanticamente abnormi.