ADRIANO SPATOLA

SPATOLA, DI RITORNO DALL’AMERICA

Adriano Spatola, ovvero la resistenza dell’avanguardia. Emerso subito dopo i “novissimi”, Spatola ha proseguito la sua ricerca anche oltre la vita del gruppo, senza defezioni e abiure, a costo di utilizzare strumenti semiclandestini (piccole riviste, edizioni stampate in proprio), con intatta spinta di invenzione e di contestazione fuori del coro. Me lo ricordo, alla fine degli anni Sessanta, nei festival poetici romani del cosiddetto “effimero”, portare una ventata di anticonformismo improvviso in mezzo ai rigurgiti di lirismo e di emotività in versi: arrivava la sua prorompente fonesi (le raffiche ironiche di «Aviation/aviateur»), oppure con la performance del battito del cuore ritmato dal microfono, e la parola “poesia” perdeva la maiuscola nonché l’aureola e s’incamminava, scartata la soggettività a buon mercato di quegli anni e la banalità della vibrazione interiore, verso l’essenza materiale del gesto. Diversità radicale: erano degli alieni lui, Giulia Niccolai, Arrigo Lora-Totino (a Piazza di Siena, Lora-Totino fece alla lettera il marziano, con tanto di “bip” che ricevettero dal pubblico neo-romantico seccate bucce di cocomero). L’avanguardia è continuata, con Spatola, anche “fuori stagione”, dimostrandosi produttiva nelle condizioni più difficili e anche quando ha dovuto sfidare una evoluzione storica che sembrava darle torto.
Oltre all’opera poetica, va ricordata l’attività di Spatola come promotore, organizzatore, editore. E, ancora prima, come critico. Sì, questo autore così estroso e creativo è stato anche un critico di prim’ordine, proprio sulle pagine del “Verri”, dove si occupava di estetica – straordinario, in abbrivio, il suo saggio dove dimostra i residui crociani di Lukács e la sotterranea convergenza del realismo con l’idealismo, in quanto gli «elementi rilevati da Lukács sono rilevati anche da Croce: e sono i medesimi elementi a rendere per entrambi Balzac un grande artista»[1] – e dove pubblicò nel tempo una serie di recensioni su “novissimi” e viciniori che comprendono l’intero panorama della poesia della neoavanguardia, dimostrando una capacità davvero poco comune di entrare nelle pieghe del linguaggio complesso e di coglierne la tendenza teorico-culturale. Da rileggere, del pari, gli interventi di Spatola sulla rivista “Malebolge”, sede del parasurrealismo emiliano, e decisamente pregnante la sua presenza su “Quindici”, il periodico che affrontò le acque agitate del ’68, quando la scrittura e la politica tornarono a congiungersi con tale forza da mettere in crisi gli sperimentalismi “da camera”. Seguì l’arroccamento artigianale presso il Mulino di Bazzano, un modo per continuare l’alternativa in un’avventura ancora più eroica: la rivista “Tam Tam” e le edizioni Geiger, che furono in quegli anni un punto di riferimento e di attrazione, «l’unico spaccio di poesia rimasto aperto» (come attesta oggi Luigi Ballerini[2]), «un vero e proprio faro per poeti nomadi» (come dice Giovanni Fontana[3]). E poi ancora, dal 1979, “Baobab”, la rivista-video. Il nostro autore non poteva mancare di esserci nella sede dell’ultimo dibattito di tendenze che si sia tenuto in Italia, intendo parlare del convegno di “Alfabeta” su Il senso della letteratura, a Palermo nell’autunno 1984 – me ne lampeggia un altro ricordo: Adriano che danza nel salone dell’Hotel delle Palme, leggerissimo nella sua corposità.
Avanguardia, dunque, senza pentimenti. La stessa formula del parasurrealismo, elaborata insieme a Corrado Costa e Giorgio Celli, implica un ripensamento dell’esperienza passata, che non ne dismette le pulsioni di fondo, ma le reinventa in una diversa situazione e con un sovraccarico di consapevolezza critica. “Para-surrealismo”: si tratta di ripercorrere “di lato” un’avanguardia storica tuttora essenziale (secondo Sanguineti, «il surrealismo è il fantasma che giustamente perseguita ogni avanguardia ulteriore, e le nega pacifico sonno»[4]), che offre l’automatismo come principale fonte di acquisizione di materiale linguistico garantito come “ritorno del represso”, nonché la grammatica dell’incongruo come procedimento di “sorpresa” e diversione dal senso comune. In questa chiave il “parasurrealismo” preferisce, invece del citazionismo dei lacerti della grande tradizione, rivolgersi alle tradizioni “altre” delle culture non-occidentali. Postcoloniali prima del postcolonialismo, ma senza la mitizzazione e l’identitarismo neocomunitario che oggi caratterizza molto spesso il recupero della marginalità, invece con un uso dell’irrazionale privo di misticismo e usato come straniamento e decostruzione della ragione anchilosata e ciecamente economicocentrica. Vale la pena di rileggere l’intervento di Spatola su “Quindici” 1968, intitolato ironicamente Va’ pensiero (coro). Esso contiene un movimento di negazione:

Se alla base dell’idea di progresso noi troviamo il pensie­ro, l’unica azione anarchica che possa portare a qualche ri­sultato sulla strada della liberazione dell’uomo da se stesso è quella dell’autoabolizione del pensiero, nel tentativo di rea­lizzare una forma di regressione verso una realtà mentale primitiva ed elementare in cui il mondo e il mondo immagi­nario ridiventino la stessa cosa, e al pensiero-merce venga sostituito il pensiero-sogno;

accompagnato da un riposizionamento del pensiero:

(…) il pensiero deve oggi farsi clandestino: il pensiero che circola liberamente è un pensiero venduto, nel momento stesso in cui gli si concede libertà di circolazione gli si dà una patente, una carta d’identità, un passaporto, uno stipendio, e un valore in moneta, un prezzo: bisognerà riuscire ad abolire la proprietà privata del pensiero, e a mettere in crisi il mercato internazionale (la mozione Castro rappresenta soltanto il primo passo), creando dei focolai rivoluzionari dovunque si mettono in vendita idee; il pensiero dovrebbe poter diventare un bene collettivo, ed esistere, un giorno, come creazione collettiva pura.

Senza contare l’abbassamento ironico contenuto nel prefisso “para-”, che allude al burocratismo “parastatale”: esso indica non solo che si è condannati ad agire nello spazio ristretto della pagina letteraria (anche se manca affatto la soddisfazione della resa, propria del postmoderno), ma pure che la ripresa parallela si appoggia sul “fare” concreto della tecnica. Da questo punto di vista, il verso di Spatola si caratterizza per una sperimentazione metrico-ritmica (la cosa ha un che di sciamanico) senza gli apici propri dell’endecasillabo, ma sostanzialmente resa libera dall’adesione al respiro del corpo, finendo a cadenzarsi sul verso lungo di una tetrapodia che varia sulla misura base del doppio settenario. Tale impianto tecnico non è per nulla in contrasto con la spontaneità dell’automatismo, anzi al contrario è proprio uno strumento euristico che attraversa gli strati più superficiali dell’individuo. Nell’intervento al convegno di “Alfabeta”, alla metà degli anni Ottanta – ricordo che, nell’occasione di quel dibattito, alcuni poeti si scagliarono contro i critici definendoli “bancari dell’anima” – Spatola precisava, in deroga alle nozioni semplicistiche della poesia:

L’attenzione del soggetto si sposta sull’attrezzatura tecnica come metodo di invenzione di regole arbitrarie, come scoperta della meraviglia e della fatalità della trasformazione dell’energia; attorno allo strumento si solidifica un progetto di scrittura, altrimenti labile e fallimentare.

Un aspetto autoriflessivo sulla materia del poiein si nota nei titoli stessi delle sue poesie, La composizione del testo, Diversi accorgimenti, La piegatura del foglio. E vi coincide la cocciutaggine artigianale di seguire il testo in tutte le fasi della produzione, condotta fino alla ricerca della completa autonomia e indipendenza tipografica nel Mulino di Bazzano.
Ripeto: Spatola, ovvero la resistenza dell’avanguardia. Che consiste anche nell’identificazione logistica di uno spazio liberato, da costituire come “centrale operativa”, che sia anche punto d’incontro e di scambio, e – perché no? – di festa, fuori dei condizionamenti e delle logiche dominanti. L’avanguardia come avamposto, non già come corsa all’aggiornamento alla moda o alla novità eclatante. Davvero l’obiezione che si fa comunemente alla neoavanguardia additando l’esito carrieristico di alcuni suoi rappresentanti, non trova con Spatola il benché minimo appiglio. La sua avanguardia si ispira, semmai, all’utopia della produzione in senso ampio, che si spinge ad operare su tutti i fronti creativi. È la prospettiva della “poesia totale”. Non solo i versi, ma anche la prosa (L’oblò, che portò il suo contributo alla configurazione del romanzo sperimentale); non solo il libro ma anche la perfomance; non solo la poesia sonora, ma anche la poesia visiva e concreta (condotta fino alle anatomie di segni dello Zeroglifico). Una avanguardia a tutto campo, anche se proprio per questo aliena dalle etichette e sostanzialmente senza definizione (per usare il titolo di un suo intervento su “Uomini e idee”, un’altra delle riviste che egli animò con i suoi scritti negli anni Sessanta).
Di questa multiforme attività, di questa esplorazione di tutti i canali disponibili, ha dato testimonianza la mostra complessiva allestita presso la Biblioteca Poletti di Modena (2008-2009). Sul catalogo della mostra, che consente di ammirare in vivacissime riproduzioni foto di performances, copertine e opere visuali di Spatola, il curatore Giovanni Fontana ha sottolineato il carattere liberamente sinestetico di quest’opera che spazia nei diversi campi della creatività. Soffermandosi in conclusione sulla “frammentazione alfabetica” degli zeroglifici, Fontana sottolinea che

i mosaici di frammenti di lettere decontestualizzata che costituiscono gli zeroglifici spatoliani conservano ancora tutto il loro mistero e la loro freschezza, cui si unisce una grande capacità di sollecitazione sinestetica. Lo zeroglifico non si presenta come puro spettacolo per gli occhi. Le particelle si organizzano nello spazio secondo un ritmo ed una logica paramusicali. Giulia Niccolai parlava di “fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine”. Ogni zeroglifico è una sorta di spartito, di tessuto sonoro. Si potrebbe parlare di musica  cristallizzata, per gli occhi più che per gli orecchi, di testi visuali che suscitano una musica interiore, ma di testa: una musica della verbo-scrittura che la pagina suona nel cervello.

Purtroppo, malgrado la bella iniziativa della mostra, la “restituzione” di Spatola in Italia segna il passo. Ci sono state puntuali riprese: il libro curato da Pier Luigi Ferro nel ’92, i numeri di “Avanguardia” (numeri 29 e 30 del 2005) promossi da Aldo Mastropasqua, con interventi e testimonianze. Alcuni contributi critici hanno riguardato L’oblò (segnalo Lunetta, e Weber e Cavatorta). Di recente, un altro volume di Eugenio Gazzola sul periodo e il gruppo del Mulino ha raccolto altre documentazioni e dimostrazioni di interesse affettuoso. Ma tutto questo non scalfisce la sostanziale emarginazione di Spatola dai discorsi della critica ufficiale italiana. Al contrario, fa piacere registrare un interesse molto vivace in America: mentre in Italia i libri di Spatola sono introvabili, l’editore Green Integer pubblica la raccolta pressoché completa dei suoi testi poetici con il titolo The Position of Things, per la bravura traduttiva di Paul Vangelisti e con la postfazione critica di Beppe Cavatorta. Questa edizione è poi stata festeggiata in un symposium (“Three-day celebration”, dal 6 all’8 marzo 2008) presso l’UCLA di Los Angeles, da un nutrito numero di interventi – ora riprodotti sulla rivista “Or” – tutti molto appassionati, basti leggere l’inizio di Dennis Phillips: «I’m un enthusiastic reader of Adriano Spatola’s poetry». Se si aggiunge il recente seminario sulla poesia sperimentale organizzato sempre in California da Luigi Ballerini (altro benemerito sostenitore dell’avanguardia coast to coast) e se si pensa che in Canada è uscito nel 2004 uno studio sulla nostra neoavanguardia, davvero chiaro e equanime per opera di John Picchione, potremmo concludere che la neoavanguardia italiana è divenuta, se non una mina vagante, certamente un “oggetto misterioso mondiale”, mentre in patria è regolarmente soggetta ad alzate di spalle quasi fosse un vecchiume desueto, o ancor più di frequente ai disprezzi estetici dei crocianesimi vecchi e nuovi.
Ma rimaniamo a Spatola e alla pubblicazione di The Position of Things. Non solo la brillante e partecipata traduzione in inglese di Vangelisti potrà farlo conoscere presso il pubblico internazionale; ma la presenza del testo originale a fronte, potrebbe tornare utile anche ai nostri ricercatori, se gli venisse finalmente l’uzzolo di una buona ricognizione. Dal canto suo, il saggio finale di Beppe Cavatorta disegna un utilissimo percorso nelle diverse fasi dell’opera poetica spatoliana. Dall’iniziale sperimentalismo “parasurrealista” de L’ebreo negro, in cui l’autore «refines his poetic techinques, with parallel experimentation in prose narrative that ought be seen as mirroring his experimentation in verse», con un uso sempre più consapevole di “figure della ripetizione”; al momento della crisi e dell’impasse dell’avanguardia, superata, negli anni Settanta, con Majakovskiiiiiiij, «the second phase of Spatola’s work, with the poet’s attention devoted to the making of poetry in every respect, from the lexical and stylistic choices, to the printing process, and to the final assembly of the book» (p. 419); per arrivare agli anni Ottanta e alla ultima fase, in cui « there is an evident desire to play with language and poetic forms, but only in the last two books does he fully realize the ludic aspect of the game».
Si potrebbe anche dire che le spinte costitutive della operatività di Spatola, invenzione e contestazione, emersione dell’immaginario e procedimento tecnico, apertura multidimensionale e abilità neobarocca, l’ironico e il grottesco, si compongono di volta in volta in modo diverso, in corrispondenza delle necessità storiche e materiali della determinata situazione. A me pare che – soprattutto pensando agli interventi teorici e propositivi – una costante della riflessione dell’autore sia la nozione di impegno, intesa però (e lo si vedeva già dall’intervento sui residui idealisti del marxismo ortodosso) in senso largo ed aperto, utopico, ma nello stesso tempo rispettoso delle proprietà del mezzo specifico. La rivista “Malebolge” conteneva, nel numero d’apertura del 1964, lo scritto Poesia a tutti i costi, ostinato fin nel titolo (poi apertis verbis, a scanso equivoci: «poesia a tutti i costi, poesia come opposizione»). Qui Spatola sistemava i conti con la critica della sinistra ufficiale che aveva bollato la neoavanguardia come evasiva, perché interessata più al linguaggio che alla realtà: non c’è contrapposizione tra il linguaggio e la realtà, sono una cosa sola, il poeta

(…) considera il linguaggio, per deformazione professionale, già come una realtà, ed è obbligato a paragonare costantemente questa sua realtà alla realtà storica, sociale, cui appartiene legittimamente, con tutti i diritti e i doveri del caso, non in seguito a una scelta eroica, come sembrano credere i sostenitori dell’engagement volgare, ma per il fatto stesso di aver scelto una volta per tutte quel suo mestiere che consiste nel lavorare sul linguaggio e nel linguaggio. Per il poeta, la realtà storica e sociale non sta dietro ma davanti alla poesia, alla realtà del linguaggio, non è un prima ma un dopo, è un obiettivo, una méta, (…).

Semmai, la poesia può diventare il luogo in cui si ricaricano le pulsioni rivoluzionarie: nel fatidico ’68, quando la politica non appariva davvero inerte e non aveva bisogno di supplenze letterarie, Spatola riflette sul fatto che la poesia non deve perdere pulsioni anarchiche se vuole possedere un ruolo “sovversivo”; ugualmente però la politica in senso lato ha bisogno del disordine poetico, perché l’anarchia affidata troppo fiduciosamente alle Istituzioni (gruppi o partiti che siano) rischia di bloccarsi e di impoverirsi. Lo dice, ad esempio, recensendo su “Il verri” Panglosse di Giuseppe Guglielmi: «Guglielmi carica la sua poesia di responsabilità collettive che altri preferiscono affidare alle Istituzioni (più o meno “rivoluzionarie”) e così facendo le restituisce la sua essenza di “vera” sovversione, che è amore del caos, o dell’anarchia, in un mondo che dell’ordine ha bisogno soltanto per conservarsi inalterato: (…)».
Alla richiesta dell’impegno, esplosa in quegli anni sotto la pressione dei movimenti, Spatola risponde ipotizzando sì la negazione della poesia nelle sue vesti istituzionali, ma leggendo poi in questa negazione una possibilità di allargamento, oltreché politico anche estetico. Poesia, apoesia e poesia totale, apparso su “Quindici” n. 16, marzo 1969 (lo stesso numero delle dimissioni di Giuliani e quindi della spaccatura del gruppo), prospetta una uscita dal “cerimoniale”:

La fine della poesia come poesia è un fatto accertato, e tuttavia, la scontata legittimità del poeta impedisce alla poesia di trasformarsi in “apoesia”, e la costringe a morire come poesia. Ma lo spostamento del contesto (dal fantasma alla realtà) può diventare un rifiuto: è il momento della liberazione della poesia da se stessa (il passaggio dalla poesia alla apoesia) e quindi il momento dello sganciamento del poeta e del critico di poesia dal cerimoniale culturale come fondazione e garanzia di una società basata sul prestigio (sul prestigio economico, culturale ecc.);

capace però di trasformarsi in una esperienza policentrica e utopica:

Il passaggio della poesia come poesia a una forma di poesia totale è l’unica maniera di usare positivamente e concretamente, nella direzione di una utopia anarchicamente  garantita, quell’esperienza del linguaggio che il poeta è finora abituato a fare come fine a se stessa.

È l’ipotesi della poesia totale e quindi l’avvio di una sperimentazione su tutti i campi espressivi, al di là della letteratura e dei suoi generi precostituiti.
Non a caso, in America è comparsa, in contemporanea con la raccolta delle poesie, un’altra traduzione di Spatola, quella del libro teorico, ormai introvabile nelle sue due edizioni italiane, Verso la poesia totale, tradotto in Toward total poetry. L’interesse per le intersezioni tra scrittura e oralità, immagine e azione, si spiega con il dibattito transoceanico dei cultural studies a proposito di commistioni, ibridazioni e meticciati vari. Ma, sia che si voglia vedere l’istanza-Spatola – come fa Guy Bennett nell’Afterword alla edizione in lingua inglese – divisa tra potenziamento delle arti per sommatoria e fluidità della loro interpenetrazione, cioè insomma a metà tra moderno e postmoderno; oppure – come fa Giovanni Fontana nel suo intervento su “Avanguardia” – incentrato e sintetizzato sul corpo stesso dell’autore quale “presenza totale” («Egli punta molto sulla presenza scenica, sulla sua maschera, sul volume del suo corpo, sui suoi movimenti lenti e ponderati e lavora su tutti i tratti soprasegmentali, sui toni, sui timbri, sui volumi, sulla respirazione»); comunque la si voglia vedere, resta fermo il riconoscimento alla teorizzazione spatoliana del ruolo di «pivotal book in the history of avant-garde poetics».
E aggiungerei anche per la discussione su una ipotetica avanguardia attuale. Sono convinto, come mi è capitato di dire, che l’avanguardia di oggi, se mai fosse possibile, dovrebbe configurarsi proprio così, al di là di ogni confine e quindi “verso la totalità”, anche geografica. A ciò osta il problema che, se l’avanguardia è una espressione critica del linguaggio, il suo scavo sulla lingua la costringe tuttora, suo malgrado, dentro un ambito “nazionale” di parlanti. Tuttavia, la “ricezione” recente di Spatola in America risponde all’obiezione in due modi: primo, è possibile avere traduttori, come lo straordinario Vangelisti, capaci, grazie a un’amicizia e a una comunanza di anni, una vera cointeressenza («Adriano ha cambiato la mia vita perché con lui ho iniziato a vedere la poesia in modo nuovo», dice Paul nella testimonianza inclusa nel libro di Gazzola), di trasportare la “criticità dell’invenzione” da una lingua all’altra. Secondo, la “poesia totale”, spostandosi sull’emissione della voce e sulla figurazione visiva acquisisce di botto il biglietto d’entrata in una scena internazionale. Su questa scena tuttavia si apre un conflitto non piccolo: infatti, si può constatare facilmente quanto la poesia sia globalmente dominata da una koinè che è quella del ripiegamento e della sfera del privato (fondata sulla triade: io-vissuto-natura). C’è ancora bisogno di una lunga sfida culturale per l’affermazione di una diversa nozione di poesia rivolta alla sfera pubblica, che definirei come semiotica somatica. Le traduzioni sono in prima fila in questa battaglia, in quanto allargano enormemente l’orizzonte della diffusione. Diversamente detto: le traduzioni aumentano l’esposizione “pubblica” della poesia. E, come afferma Phillis alla fine del suo intervento losangelino, la poesia di Spatola ci dimostra proprio quello che può fare un testo inteso come “linguaggio pubblico”: «is as a model of how poetry can be a public language and why it must be». In tal modo la poesia partecipa alla lotta contro la chiusura nel privato (e nella proprietà privata); di questo c’è bisogno oggi.

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