Perché WB e BB devono essere pensati insieme

Conoscevo il Benjamin und Brecht di Erdmut Wizisla, perché, mentre scrivevo il mio Brecht con Benjamin, l’ho consultato nella edizione originale tedesca con l’ausilio di una traduzione inglese. Adesso lo si può leggere tranquillamente in italiano, tradotto da Fabio Tolledi per le edizioni Kaiak di Pompei; il titolo è stato mantenuto: Benjamin e Brecht, storia di un’amicizia.
È un libro prezioso per varie ragioni. Frutto di una ricerca di prima mano, presenta diversi materiali dispersi negli epistolari, poco conosciuti o inediti. Diviso in 5 capitoli, non segue soltanto la cronologia a sfondo biografico dei due autori, ma dedica spazio anche alle loro opinioni e allo sfondo teorico del loro confronto. Inoltre, il capitolo centrale è dedicato alla vicenda della progettata rivista “Krise und Kritik” che, proprio perché non giunta a compimento, risulta significativa dell’intricata situazione degli anni Trenta del Novecento, e presenta motivi di interesse sia nelle intenzioni progettuali che nelle discussioni preparatorie.
Il libro, che rappresenta in modo inoppugnabile l’“amicizia” tra Walter Benjamin e Bertolt Brecht (WB e BB), va controcorrente rispetto al grosso della critica benjaminiana odierna che fa di tutto per separarli, in modo da dar risalto piuttosto alla tradizione ebraica che non al marxismo, sia pur eterodosso. Vedi Sigrid Weigel, secondo la quale «la stima che Benjamin ha tributato al Brecht del periodo di Mahagonny (…) rimane un mistero». Wizisla, volontariamente o no, si situa agli antipodi di queste posizioni e ci mostra la logica di quel supposto “mistero”.

Wizisla non nasconde le differenze tra i due amici, nei vari livelli del carattere, del pensiero e dell’attività intellettuale. Brecht aveva una dialettica più schematica con il suo «plumpe Denken» (pensiero grezzo, crudo), mentre Benjamin riusciva di più a immergersi nella complessità: ma non dimentichiamo che Brecht era un autore e regista teatrale, quindi doveva risolvere innanzitutto problemi pratici. Anche la posizione politica di Brecht era più netta di quella benjaminiana. Di fatto però “quei due” si trovarono gettati dalla stessa parte in un momento storico difficile, nella tenaglia tra la reazione nazista e un marxismo di stampo sovietico imperioso e soffocante. Scrive Wizisla:

L’interesse esposto da Brecht, da Benjamin e dagli altri per i problemi del contenuto e dell’estetica della produzione può essere apparso ai sostenitori del movimento per la rivoluzione proletaria, dedito all’agitazione politica, come un pericoloso gioco estetico borghese. Questi ultimi esigevano che l’arte servisse direttamente alla lotta di liberazione del proletariato, mentre i primi ritenevano necessarie le sperimentazioni artistiche che rendessero indispensabili la distruzione della realtà chiusa e la ricerca di forme nuove e aperte attraverso principi esteticamente e quindi socialmente efficaci.

A unirli non era quindi soltanto la passione per gli scacchi e neppure il tentativo di sfuggire a un isolamento sempre più nefasto (soprattutto nell’esilio dopo l’ascesa di Hitler), ma una convergenza oggettiva portava il teatro dello straniamento verso la teoria dell’allegoria e viceversa.
Non sarebbero mancate vigorose discussioni: Brecht non apprezzò il saggio benjaminiano su Kafka, per lui troppo intriso di ebraismo (eppure, ho provato a mostrare in un mio contributo che non era del tutto esente dal brechtismo); in parte Brecht equivocò anche la questione dell’“aura” come era affrontata nel saggio su Baudelaire. Ma, anche in questi casi, la discussione è stata sempre fertile (vedi gli appunti di Benjamin per una revisione del Kafka), sempre produttiva. E sottolineo questa idea di “produzione” allargata alla cultura e alla letteratura, perché il punto più brechtiano di Benjamin è la conferenza L’autore come produttore, dove va anche oltre, in una impostazione della “giusta tendenza” che non ha smesso di contenere una istanza critica fondamentale, anche nel panorama desolante di oggi.
Come accennavo all’inizio, materiali inediti riguardano il lavoro preparatorio della rivista “Krise und Kritik”, dove entrambi, Brecht e Benjamin, sono impegnati in prima persona tra i redattori principali. All’inizio degli anni Trenta, la rivista avrebbe dovuto riunire intellettuali di diverse posizioni (avrebbero dovuto esserci anche Bloch, Adorno e perfino Lukács) in una sorta di organo mensile di sinistra indipendente. Si legge in un programma:

Il campo di attività della rivista è la crisi attuale in tutti i campi dell’ideologia, ed è compito della rivista registrare questa crisi o provocarla, e questo attraverso la critica. In questo campo viene trascurato l’intero processo della storicizzazione e della critica estetica. Al contrario, tale critica è un obiettivo critico di questa rivista.

Critica come spirito polemico (bisogna «inchiodare i cattivi esempi», dichiara a un certo punto Brecht) non solo contro Heidegger, ma anche a proposito di Thomas Mann, modello di una posizione difensiva borghese – e la stesura del saggio manniano veniva attribuita proprio a Benjamin. Dai verbali delle riunioni, purtroppo sommari e lacunosi, emergono come temi principali il ruolo degli intellettuali e la configurazione di una critica che vada oltre il semplice giudizio estetico e il gusto letterario: «La critica va intesa nel senso che la politica è la sua continuazione con altri mezzi», annota Brecht imitando il motto di von Clausewitz. Tuttavia, gli sforzi di approfondimento di questi temi cruciali non furono sufficienti e il progetto andò incontro al fallimento, non solo per motivi economici, ma soprattutto a causa delle «posizioni politiche ed estetiche fondamentalmente divergenti».
Solo WB e BB remavano nella stessa direzione e certo il loro legame viveva di stima reciproca, per quanto potesse sembrare che Benjamin avesse bisogno di Brecht e non il contrario. Anche in un testo commemorativo Brecht parla dell’amico come «il mio sparring-partner»,  involontariamente mettendolo nelle vesti dell’allenatore di un campione. Ma il problema non è tanto l’asimmetria del rapporto. Per molti, già all’epoca, si trattava di un influsso deleterio e Benjamin si sentiva tirato da due parti opposte, ma concordi nel volerlo sbrechtizzare: da un lato l’amico Scholem, che vi vedeva un tradimento della tradizione ebraica, dall’altro Adorno e i francofortesi, che rifiutavano una politicità troppo esplicita. Eppure, per rispondere insieme ai suoi contemporanei e ai critici attuali, vale la pena rivedere la risposta che Benjamin diede a Scholem e della quale ci si può fidare, essendo riportata dallo stesso Scholem. Ecco dunque WB, durante un incontro parigino del 1938 (quindi vicino alla catastrofe della guerra che lo travolgerà):

Benjamin difese con calore la sua posizione. Affermò che il suo marxismo continuava a essere di natura non dogmatica ma euristica, sperimentale; e che l’applicazione a prospettive marxiste degli assunti metafisici o addirittura teologici che egli aveva maturato nel periodo della nostra comunanza spirituale era senz’altro una conquista, dato che essi avevano la possibilità di esplicare all’interno di quelle una vitalità, almeno nella nostra epoca, maggiore rispetto a quella che sarebbe stata loro propria in ambiti originariamente più conformi.

Ora, in quella circostanza, Benjamin non aveva nessuna convenienza a difendere la sua articolata scelta di campo, quindi dovremmo dargli retta e prenderlo sul serio.
E poi, delle due l’una: se siete convinti che sia il massimo pensatore del Novecento, come potete supporre che il suo pensiero sia stato orientato da motivi squisitamente opportunistici e sia stato addirittura cieco di fronte a se stesso?

Con l’occasione, segnalo l’uscita di un volume di lettere tra Brecht e Helene Weigel, dal titolo «imparo: lavare piatti+tazze». Carteggio 1923-1956, curato dallo stesso Erdmut Wizisla. edito da Lithos nella traduzione di Daniela Padularosa.

08/12/2025

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