Sandro Sproccati è stato un autore di punta del movimento della “Terza Ondata”, le sue operazioni testuali si fondavano sul rigore della forma concentrandovi un altrettanto forte rigore etico-politico, quindi entrando nel cuore della ripetizione indifferente del postmoderno per contrapporvi una ripetizione differente. Quando quella tendenza e quel clima si sono attenuati, Sproccati ha preso una decisione drastica: ha lasciato l’Italia per andare a vivere a Parigi e ha lasciato la scrittura creativa limitandosi a sporadiche uscite polemiche. Una scelta che sinceramente non mi sento né di condannare né di escludere.
Solo recentemente, Sproccati mi ha inviato un nuovo testo, intitolato Mal di terra, che ora è stato dato alle stampe in edizione limitata accompagnata dalle illustrazioni dell’amico Cesare Fernicola, realizzate a mano e diverse per ogni copia.
Si tratta di un ripensamento? È iniziata una nuova fase dopo quella del silenzio? Direi di no a entrambe le ipotesi: a mio parere si tratta di una prova estrema di scrittura dopo la fine della scrittura.
In cosa consiste infatti questa “scrittura della fine”? Consiste, in sostanza, di una voce proveniente dal profondo, imprigionata o caduta in un sotterraneo, una sorta di cunicolo o labirinto stretto e disagevole in cui il soggetto in questione si aggira in precaria esplorazione data l’oscurità totale, impossibilitato perciò a concepire una direzione.
Vediamo come l’inizio del testo mette in scena il suo mondo finzionale:
In fondo al buio non c’era che il buio. Nessuna parvenza di focolare, nessuna speranza. L’occhio, reso esperto dal tatto e dalla lunga consuetudine, riusciva a cogliere, percependone la durezza granulosa, i muri più vicini. E intuiva il passaggio, ora più angusto, ora forse anche agevole, come qualcosa di assolutamente necessario e pertanto presente. In alto, nell’azzardo del percorso visivo, l’occhio si per-deva nell’enigma: il cielo oscuro di una notte inestinguibile o piuttosto la cappa di un soffitto? In qualche momento del tempo, a brevi tratti, un lieve chiarore di latte, simile forse a quello che può presentare il mezzogiorno negli abissi degli oceani, consentiva la visione della profondità, tanto da lasciar immaginare – conferendo forza al terrore – un prolungamento esorbitante del corridoio rettilineo.
Ecco, sembra che ci sia ancora qualche margine di movimento, ma che questo porti, data l’impossibilità di una mappatura, sempre in zone non dissimili («l’oltre equivale sempre al qui»).
Muovendosi “alla cieca” qualsiasi rilevamento risulta indifferente: «muoversi nel buio … equivale del resto a rimanere immobili». Lo spazio stesso è unificato in un’unica materia, la terra che si tocca da tutti i lati: «non trovo che terra … nella quale sono immerso», «sempre e solo terra», e addirittura: «La terra non verrà mai a mancare sotto i piedi perché i piedi sono fatti di terra». La voce, dunque, cui il testo interamente appartiene, sebbene dia l’impressione di parlare a se stessa, non si trova nel vuoto, ma un pieno talmente assoluto da equivalere al vuoto: «Questa coincidenza del tutto con il nulla. Terra e solo terra, in tutte le direzioni». È una situazione asfissiante e senza via d’uscita, che non a caso finisce per essere identificata con la tomba:
Nell’oscura tomba in cui sono nato ho veduto me stesso vagare intorno a me stesso, cunicolo dopo cunicolo, loculo dopo loculo, svolta dopo svolta, come una vecchia talpa che non ha più unghie per scavare e allora si aggira alla cieca nello scavo altrui, sperando solo in quel crollo che mai si invera, inabissata per sempre sotto il peso della propria mestizia, e oscuramente consapevole della fallacia di qualunque profezia.
Questa sorta di reclusione e di separazione sancisce la diversità eccentrica: «io nella terra mi sono risvegliato mostro». Anche se poi è l’ipotesi di una uniformità totale, che quindi coinvolge anche il soggetto, ad essere acconcia all’assolutezza del sotterraneo “terroso”.
Infatti è proprio l’assorbimento nella materia opaca che suggerisce la caduta delle opposizioni, come, ad esempio, in questa antropologia della tortuosità: «Ai meandri tortuosi del cervello rispondono i meandri, non meno tortuosi, del ventre: i viluppi di viscere che sono il cuore animale dell’uomo». Alto e basso, spirito e materia fanno tutt’uno. Così «il solo dato possibile è la negazione»; e ancora: «qui la sola evidenza è la negazione (…) Niente radici, niente piante, niente foreste, nessuna vita di nessun tipo in nessun luogo. Niente luogo, in definitiva e per meglio dire aucun endroit… molto semplicemente».
Né la possibilità di residuo movimento nel labirinto costituisce una vera risorsa:
Il buio accoglie, accudisce, forse consola. Al buio ci si abitua, accecandosi nel sepolcro oscuro di un sonno senza sogni. Vagare nel labirinto diviene allora come dormire eternamente, dormire come il sasso immemore che nessun fiume leviga.
Anche dalle sole citazioni si ricava lo stile ampio e ritmato della frase, con echi da Borges, forse anche da Calvino. Non proprio una scelta per il classico, però: è vero che il testo di Sproccati è ricco di citazioni, soprattutto di una linea francese di letteratura alternativa tra Baudelaire, Mallarmé e Lautréamont. Gli è che quelli, nella “terra dei morti”, sono gli unici interlocutori sopportabili, gli unici possibili, poiché altri non ce ne sono. E comunque la scrittura ha caro di finire con dignità…
Il titolo, Mal di terra, è evidente ricalcato su “mal di mare”, e l’evocazione della liquidità torna in vari punti, come via di fuga – così: «se solo si potesse pensare all’oceano e affrancarsi dal pensiero della terra!» – tuttavia non più praticabile, altrettanto del mito di Ulisse. Invece della instabilità e della nausea che produce il “mal di mare”, il “mal di terra” incide con la sua impenetrabile solidità,
«Affogare nella terra è più atroce ancora». Il testo non per niente è accompagnato dalle immagini di Fernicola, astratte e fortemente materiche (sono non solo per l’occhio, ma per il tatto). Quanto alla sigla editoriale, Sproccati ha utilizzato la sua formula, già provata altrove, delle Antiedizioni Apnea che, riferita al liquido, contiene l’indicazione della mancanza di respiro.
Alla fine leggiamo: «È la scrittura stessa che, giunta nel luogo del suo inabissarsi deve finalmente arrendersi e deve finalmente tacere». Siamo di fronte alla scrittura della fine della scrittura. A differenza dell’ultimo film di Maresco – analogamente definitivo – che ha puntato sul metacinema della scomparsa-rinuncia del regista, qui la fine si dà in forma di allegoria e non a caso l’allegoria viene nominata nelle frasi finali. Il significato è chiaro, non c’è bisogno di gran lavoro ermeneutico: la terra che avvolge il soggetto è l’oppressione di un mondo che non sa più che farsene dell’intellettuale critico e sperimentale. Persa la funzione di illuminismo («non credo più alla luce») e persa la razionalità («la resa di qualunque principio di razionalità al non-senso della natura») la marmellata sociale invischia e ottunde («Il luogo annienta la ragione e rende inesorabilmente cieco colui che lo abita»), mentre nemmeno la talpa marxista, che pure s’intendeva di vie sotterranee, si districa verso una qualsiasi direzione. L’eclisse della rivoluzione è l’orizzonte della catastrofe: «solo il crollo totale e definitivo della prigione», potrebbe portare forse a un mutamento di situazione.
Qualcuno potrebbe anche metterla a rovescio e dire che la scrittura della fine della scrittura è pur sempre una continuazione della scrittura e quindi una, sia pur estrema, fiducia in essa; ma, se anche fosse, sarebbe ben relativa! Il libro è stampato in 20 copie (5 in meno dei lettori immaginati da Manzoni): una fiducia, dunque, “a tiratura limitata” assai…
05/11/2025