A riflettere sull’autobiografismo tanto in auge oggi può aiutare un romanzo “autobiografico” (ma tra virgolette…) come Bambine di Alice Ceresa, uscito da Einaudi nel 1990 e ora ripubblicato in edizione riveduta dall’editore Casagrande di Bellinzona, per la cura di Tatiana Crivelli. Nella nuova veste controllata sui materiali d’archivio, la curatrice ha ripristinato i capitoli-cornice (primo e ultimo) che Ceresa voleva fossero stampati in forma di versi, mentre Einaudi li mise in prosa e in corsivo; inoltre ha segnalato il titolo proposto dall’autrice, La cacciata dal paradiso, ponendolo come sottotitolo. Il testo è poi completato da interviste, lettere e un’utilissima postfazione della stessa Crivelli.
Alice Ceresa era nata in Svizzera (di qui l’interessamento dell’editore e delle università di quel paese), ma ha scritto prevalentemente in italiano e in particolare è stata apprezzata nella temperie del Gruppo 63. Nel suo primo romanzo, La figlia prodiga, apprezzato da Giorgio Manganelli, la ribellione al senso comune è affrontata con lo stile del trattato: la “figlia prodiga” è l’autrice, sì, ma solo attraverso l’astrazione della definizione di una particolare forma di comportamento che è appunto la “prodigalità”. In Bambine, che è la storia di due sorelle dall’infanzia all’adolescenza, il materiale autobiografico è più evidente, e tuttavia…
Tatiana Crivelli, nella postfazione, segue le varie stesure del romanzo che dimostrano una progressiva rinuncia all’io narrante: in una prima versione a narrare è una delle sorelle, poi un io esterno, infine, nel testo che oggi leggiamo, una voce impersonale che dice “noi” come se assolvesse il compito di una compilazione di fatti, con notizie ricavate non si sa bene come, in buona parte ricostruite a posteriori dal colloquio con le sorelle ormai cresciute. Ciò comporta una certa distanza e anche una certa incertezza (scusate il bisticcio) con formule del tipo: «riassumendo per sentito dire», «si può forse qui affermare», «procedendo ipoteticamente», o anche «a ciò ci possiamo senz’altro attenere, stante oltretutto l’impossibilità di fare diversamente». A complicare le cose, non è mai esplicito quale delle due sorelle, la maggiore o la minore corrisponda all’autrice (la curatrice ci informa che è la minore).
Altra particolarità è il racconto tutto al presente un presente iterativo e prevalentemente descrittivo, con minime indicazioni di passaggi temporali: si potrebbe dire un racconto per fasi e non per avvenimenti puntuali. Il fuoco del testo è senza dubbio la contestazione della famiglia: il quadrilatero del padre-padrone, della madre sottomessa e delle due piccole figlie, per un verso impaurite, per l’altro tese a ritagliarsi un modo diverso di vivere mediante un’autoeducazione priva di abbellimenti e di scorciatoie, che giustamente ha fatto richiamare il parallelo con i due gemelli di Ágotha Kristóf, Le grand cahier, del resto praticamente coevo. Quindi la distanza della voce narrante nella sua visuale di osservatrice oggettiva si raddoppia nella distanza delle due protagoniste (per altro spesso accomunate nel plurale), a loro volta osservatrici del mondo assurdo e ridicolo degli adulti. Quindi uno straniamento addirittura doppio.
Niente di meglio di un brano esemplare, come quello della camera dei genitori:
Occorre ora giungere alla porta misteriosa custodita dal padre nella pagina precedente poiché esiste per davvero, e per fare ciò bisogna dare uno sguardo all’interno domestico nel quale fin qui si sono visti i membri della famiglia laboriosamente intenti a viversi addosso quando riuniti insieme e perciò sistemati nelle stanze destinate alla vita in comune che si può quindi immaginare siano quelle riservate ai pasti e alle diverse occupazioni diurne che li precedono e li seguono, fornite di mobilio appositamente studiato per le occupazioni e operazioni dell’anima e del corpo in ambiente allestito all’uopo; e quando invece separati a due a due a seconda della gerarchia familiare in due camere situate agli antipodi e riservate al ricovero notturno. L’una è destinata ai bambini e si apre anche sulla luce del giorno, l’altra appartiene all’inimmaginabile connubio parentale dell’oscurità.
Come si vede, il brano è realizzato in una specie di carrellata cinematografica che avanza nell’appartamento familiare corredata da una voce fuoricampo dal linguaggio forbito (per esempio: «all’uopo»), dotata di un certo orientamento critico (quel «viversi addosso») e infine coincidente (ne l’«inimmaginabile») con la focalizzazione dei personaggi infantili per i quali il «connubio» è avvolto in una magica oscurità, il punto di vista infantile essendo un classico modo di straniamento.
Insomma, a me pare che davvero dalla scrittura di Alice Ceresa provenga una lezione importante per l’oggi. Se giustamente, nel convegno tenutosi a Berna nel 2023, l’autrice è stata inquadrata nel “canone lesbico”, è però da considerare il fatto che, né ne La figlia prodiga ma neppure in Bambine, questo tema oggi molto sensibile viene portato alla luce. Autocensura dovuta ai tempi immaturi? Non credo; personalmente penso – e quei tratti della voce narrante e del punto di vista mi pare che lo dimostrino – che Alice Ceresa pensasse alla confessione come un segno di debolezza. Quella che invece non doveva essere risparmiata è la durezza polemica di un libro che la stessa autrice ritiene profondamente femminista. In Bambine a far le spese di questa carica mordente è la figura del padre, supponente ma goffa, e investita da una graffiante ironia fisica nelle fattezze, in particolare del naso. Fino alla caricatura in un passaggio in cui la voce narrante procede utilizzando, in ecfrasi descrittiva, i disegni delle due sorelline:
Appare sempre alto e legnoso sia quando pesca davanti a un fiume fortemente blu o ribollente a seconda evidentemente del percorso e dell’estro del momento, sia quando rimane nascosto con tutta la parte superiore del corpo dietro un giornale spiegato, seduto accanto a una lampada multicolore e a una enorme tazzina di caffè, quando non addirittura appoggiato con il gomito a una disordinata pila di piatti e pentole, dietro la quale poi come vedremo si affanna una madre al suo peggio, e un paio di volte le stesse suppellettili volteggiano in aria miracolosamente sospese benché in questi casi si veda la faccia dell’uomo orribilmente sfigurata da una grande bocca irta di denti senza che però mai un qualche capello gli si rizzi sulla testa. Altre volte procede con lungo passo e severo cappello calcato sugli occhi, oppure pedala innaturalmente eretto per campi e boschi sopra una minuscola bicicletta non mai troppo bene riuscita ma piena di borchie e di fanali. Raramente si erge accanto alla moglie, ma allora semmai in accurata distanza, guardando diritto davanti a sé, le mani si deve pensare incrociate dietro la schiena e le scarpe avviate in direzione opposta e dunque comprese in fase di ulteriore allontanamento. Quest’uomo comunque appare correttamente impantalonato senza sfoggio di alcun pacchetto in vista, ma fieramente inalberando baffi mostruosi.
Anche qui una via indiretta, ma decisamente impietosa.
Oggi pare che a “infrangere il tabù del patriarcato” ci riescano anche i premi Strega, ma purtroppo non è così. L’autobiografismo può essere la strada per rientrare nel mercato delle identità. Ci vuol altro! Occorre infrangere le stesse modalità previste della produzione di sé. Alice Ceresa, in un periodo in cui il postmoderno riportava la narrazione nell’ambito dell’immediatezza consumabile, ci propone con Bambine una soluzione straniante proprio corrodendo dall’interno la forma-autobiografia. Del resto, come si ricava dall’intervista riportata in appendice al testo, il suo pantheon è formato da Kafka, Joyce e Gadda. Interrogata proprio sul postmoderno, risponde all’intervistatore Francesco Guardiani in modo assai laconico: «Sono allergica a questi termini».
25/09/2025