Per il suo prossimo Annuario 2025 la redazione di “Malacoda” ha scelto come termine-tema la parola Libertà. Una parola che, negli ultimi tempi è stata travisata in molti modi. Va bene che la “Casa della libertà” e il successivo “Popolo” fanno ormai parte del passato, tuttavia ancora la questione è dibattuta malamente con strani paradossi (il divieto di “apologia di fascismo”, secondo i fascisti, sarebbe illiberale) e con alquanta confusione tra liberismo e conservatorismo che genera leggi lassiste e leggi repressive secondo convenienza.
Approfondire necessita. E, in particolare, occorre, a mio parere, ribadire il nesso indissolubile tra libertà e uguaglianza. Una libertà “disuguale” è una libertà per pochi, dunque non è una vera libertà, se la maggior parte rimane in stato di necessità. D’altra parte, la fine della servitù ha comportato il paradosso che i servi liberati sono liberi solo di vendersi (di vendere la loro forza-lavoro, il che è lo stesso).
Durante la preparazione dell’Annuario (previsto in uscita per dicembre), sono andato a vedermi il libro di Daniel Chandler, uscito da poco, che ha il promettente titolo di Liberi e eguali. È un libro che si muove nel solco del pragmatismo anglosassone e in particolare di Una teoria della giustizia di John Rawls, che in alcune parti viene riassunta e seguita passo passo. Altro che Marx e Freud, non ci resta che Rawls – sembra dirci Chandler – e questo (sebbene continui a pensarmi marxiano, o marziano, se preferite) non mi scandalizza: infatti, credo nel calcolo e nella funzionalità e mi è capitato una volta di auspicare “utopie matematiche”, mentre Rawls ha parlato di “utopie realiste”. Solo che, una volta che ci si mette a riflettere su cosa si può fare entro certi limiti, il problema è quali limiti ci si pone.
Nel libro di Chandler si comincia con l’accettazione della proprietà privata, e a quel punto ti saluto uguaglianza, si può solo cercare di avvicinarla con degli aggiustamenti sommari, tanto più che viene contemplata una “disuguaglianza utile” (un po’ di trickle down non guasta); poi si incoraggia un “patriottismo liberale”, ed ecco un bell’arrocco sull’identità nazionale; un paragrafo viene intitolato alla tesi a favore dei mercati, accompagnata dall’appunto verso i troppo critici “di sinistra”; e così via, sulla strada di un liberalismo certamente aperto e volenteroso, altrettanto certamente fin troppo “sostenibile”, appoggiandosi abbondantemente su ciò che già esiste.
L’autore lo sottotitola: Manifesto per una società giusta, ma più che un manifesto di sintesi teorica, il libro, lungo quasi quattrocento pagine, è un ampio programma capillare. Non manca di buone idee: quando propone di togliere i contributi alle scuole private lo applaudo; interessante è la proposta dell’UBI, reddito di base universale senza condizioni, più semplice e meno contorto del nostro trascorso “reddito di cittadinanza”; va bene anche l’“eredità minima” da ricavare dalle imposte di successione (però molto timida rispetto al nostro ottocentesco Ferrari che proponeva l’abolizione in toto dell’eredità per ottenere in poche generazioni il socialismo). Verso la fine, il capitolo sulle cogestioni e cooperative riporta in ballo il tema della democrazia in fabbrica (ecco un’altra libertà che manca), lasciato cadere da parecchio tempo. Purtroppo l’orizzonte pragmatico, pur animato di buone intenzioni, incontra due scogli, che poi sono uno solo: 1) la realizzabilità richiede la vittoria alle elezioni (ed ecco allora tutta una serie di cautele per star dietro ai sondaggi); 2) la realizzabilità richiede uno sforzo economico che abbisogna di un aumento della tassazione giustamente progressiva, ed ecco che si ritorna al punto precedente perché la pronuncia della parola “tasse” è immediato sinonimo di débâcle alle urne. Quando Chandler scrive, nelle pagine finali, «La sfida che ci troviamo di fronte è quella di coniugare una visione audace e piena di speranza con un programma realistico finalizzato al cambiamento», è quasi più utopista lui, il pragmatico-liberale, che non un anarco-comunista.
Mi è venuta l’idea di confrontare questo libro con un altro contributo proveniente dal Regno Unito, quello di Mark Fisher, che lui pure si occupa di realismo, precisamente di Realismo capitalista. Non è proprio coevo, è vero, è un po’ precedente, essendo uscito in inglese nel 2009 e in italiano nel 2018 (Nero editore, per chi volesse recuperarlo). Quindi appartiene a un’altra epoca, voi direte. E sia; però, guarda caso, ha quel che manca a Chandler: il rapporto con la teoria, facendo ricorso ai vari Deleuze, Jameson, Žižek; e l’occuparsi non di ammorbidire gli effetti, ma di andare alle cause, mettendo in questione l’intero sistema sociale. Sicché ne deriva una posizione completamente opposta proprio sul “realismo”:
Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto. Di conseguenza il neoliberismo ha cercato di eliminare la stessa categoria di principio, di valore nel senso etico della parola: nel corso di più di trent’anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di «ontologia imprenditoriale» per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda.
I limiti di cui sopra sarebbero appunto i confini di ciò che ormai è ritenuto inamovibile e in qualche modo “naturale”. Però, in fondo, anche il radicale Fisher arriva a un finale parenetico e auspice:
La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sproporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile.
Per il momento, quell’evento non è ancora arrivato… E però sarebbe già qualcosa metterli in contatto e farli dialogare, il radicalismo e il riformismo. Do ragione a Chandler che non basta insorgere con disdegno morale di fronte alle retromarce destrorse, si sarebbe soltanto soloni conservatori di libertà pregresse, per altro relative; perché sinistra sia sinistra occorre almeno un progetto coerente (e sottolineo “coerente”, non rabberciato alla bell’e meglio) di rafforzamento delle libertà.