Il libro di poesia è diventato ormai un veicolo che non fa molta strada: è escluso dal mercato e trova anche in libreria spazi assai angusti e riservati a pochi, coinvolto nella crisi generale del “cartaceo”, ma ulteriormente svantaggiato in quanto prodotto che “non si vende”. Ecco allora che la poesia, se pure si deposita in pagine, è forzata ad uscirne all’esterno ed è bene che trovi spazio in presentazioni, letture e circostanze simili. C’è tutta un’attività poetica che si disperde nell’evento, nell’effimero – come si diceva un po’ di tempo fa – e rischia di non restare nella memoria nemmeno di chi vi ha preso parte. Tanto più, poi, quando la sua realizzazione è in forma di performance e il libro eventuale solo un supporto o un vago testimone.
Della poesia performativa Massimo Mori è un autorevole rappresentate e il principale dell’area fiorentina. Già autore di una preziosa raccolta tesa a illustrare iniziative, gruppi e riviste (Il circuito della poesia, Manni, 1997), Mori aggiorna ora il suo panorama con particolare riguardo a serate, interventi, convegni e quant’altro è stato organizzato nell’entourage dello storico caffè delle Giubbe Rosse: titolo del libro è Assolo corale per le Giubbe Rosse e lo ha pubblicato Florence art in data 2024 in una molto elegante edizione ricca di illustrazioni.
Il solo nome del locale rievoca un grande passato quando era celebre punto di incontro di scrittori e artisti all’inizio del Novecento, dai futuristi agli ermetici, era lì che Campana dava il suo libro a Marinetti togliendo via le pagine che, secondo lui, non avrebbe potuto capire… Quel luogo storico ha vissuto una ripresa, densissima di attività e di proposte che va dal 1989 al 2013, documentata qui con dovizia di dati e appassionata rievocazione del clima, declinandosi in un racconto costruito di molte “cartoline” (i brani più brevi dedicati ai singoli episodi), intervallate da alcune “lettere” (interventi teorici di raccordo e di approfondimento).
Il titolo ossimorico, Assolo corale, introduce bene al rapporto tra i “personaggi” del libro: perché al centro c’è Massimo Mori, infaticabile organizzatore, presidente di associazione, stimolatore di iniziative grazie ai rapporti con la direzione del caffè, nonché protagonista come autore in molte serate; ma attorno a lui si srotola, di volta in volta, di manifestazione in manifestazione, un gran numero di partecipanti, poeti e artisti, cui fanno fede le fitte pagine dell’indice dei nomi, un novero così ampio che spesso Mori, per motivi di spazio, omette di ricordare di nuovo i già citati in precedenza. E non solo ci sono quelli che gravitano attorno al capoluogo toscano, ma molti altri che vi convergono da altrove (ci sono anch’io, a un certo punto), più una buona quota di interventi internazionali. Altrettanto non ci sono solo poeti, ma anche prosatori e critici, nonché artisti figurativi, musicisti e via dicendo, compreso anche il cinema; e soprattutto quelle operazioni di confine che fanno capo alla poesia visiva, sonora, performativa. Senza dimenticare la prospettiva politica di un accentuato pacifismo.
L’attività presso le Giubbe è stata improntata a un sorvegliato pluralismo. Del resto, Firenze è sempre stata un punto d’incontro di diversità, già ai vecchi tempi tra Futuristi e Vociani, e vi resta viva una certa linea di tradizione postermetica. La scelta di Mori, documentata dal libro e dichiarata in più punti, è quella del confronto tra le tendenze, un’apertura che si riconosce nella formula del “porto franco”:
la disponibilità a ospitare poeti e poetiche anche differenti dal mio coté creativo, riferibile al campo della performance, della poesia visiva, concreta e intermediale; erano comunque queste espressività, emergenti nel panorama internazionale, a dare identità alla nuova stagione in atto alle Giubbe Rosse. I parametri rimanevano nella “tradizione del nuovo” e nella “poesia totale”, ma al di fuori di queste coordinate il campo era aperto alle più disparate poetiche purché praticate con dignità di impegno, validità degli intendimenti e qualità degli esiti (pp. 49-50).
Il nucleo principale, sostenuto dall’autore, restava quello delle pratiche intermediali: la “stagione dell’intermedialità”, che più d’ogni altra linea di ricerca è appropriata alla prospettiva di impatto diretto, di persona, con il pubblico, al di là della mediazione del libro. Tant’è che questo stesso volume si avvale, in appendice, di una serie di QR code in modo da poter documentare, basta avvicinare acconciamente lo smartphone, tutta una serie di contributi che la scrittura non potrebbe rendere.
Su questa materia, pesco nella mole del libro due passaggi importanti. Nel primo, Mori precisa le qualità specifiche dell’esecuzione nella poesia sonora:
La poesia sonora riscopre la fisicità ambientale della voce e la gestione spaziale del corpo. (…) Realistica è la materialità della traccia vocale che, a ritroso, può divenire portatrice di archetipi. Il recupero dei valori fonico-corporali nella poesia sonora viene ad essere, appunto, l’archetipo della presenza intelligente e trasformatrice dell’uomo. Il fonema, al pari della poesia scritta, si fa segnale della parola e del discorso. (…) La poesia sonora afferma il suo primato senza porsi quale comunicazione di un significato bensì, fatto più importante e totalizzante, come un’unione sensitiva e, in un certo senso, anche sensuale. Il “fonema” e il “colpo di glottide” sono la cellula vocale staminale comprendente tutti i discorsi possibili; (…) (p. 72).
Nella performance è l’intero corpo a divenire significante, ampliandosi secondo tutti i ritrovati della tecnologia, nel senso della più volte citata “poesia totale” di Adriano Spatola.
Il secondo passo riguarda invece la questione dell’eredità delle avanguardie novecentesche. Ricordando le molteplici diramazioni della sperimentazione cosiddetta verbovisiva, Mori la riallaccia da un lato alle avanguardie di un secolo fa (e non mancano riprese del Futurismo dal suo côté meno ideologizzato), dall’altro a quelle degli anni Sessanta, nel cui ambito hanno preso vigore le nuove forme, con antesignani quali Pignotti e Spatola. Si tratta di una sintesi, come leggiamo:
Così si ritrovano sotto la stessa denominazione tutte le espressioni tra poesia e visualità che si ricollegano in qualche modo a quelle sperimentazioni delle Avanguardie Storiche dalle quali la Neoavanguardia aveva preso le distanze ma riconoscendosi anche in quest’ultima. Espressioni che comprendono l’arte scrittura, la poesia concreta, l’arte postale, la poesia visuale, le scritture tegumentali, la scrittura murale, la segnaletica gestaltica, il messaggismo digitale fino alle emoticon, ecc. Del resto, non vi è praticamente alcun poeta visivo che non abbia praticato contemporaneamente più di uno di questi territori (p. 152).
Spinto anche dall’etica del Tai Chi, di cui è esperto praticante, Mori ha investito la sua attività alle Giubbe Rosse di una volontà di “raccordo” tra le varietà e le diversità. Si parla di «territorio conciliante» e di «orto sociale dove mille poetiche possono coesistere». Ciò fa diminuire la vis polemica, ma bisogna riconoscere una cosa: negli anni Ottanta-Novanta del Novecento era ancora ben vivo il contrasto tra le tendenze e l’avvicinamento poteva risolversi in una “frattura” – del resto, anche il movimento al quale partecipavo in quel periodo, il Gruppo 93, si risolse in controversia. Proprio la scomparsa delle tendenze rende negli anni più recenti molto più compatibili le compresenze. Che questo non sia propriamente un passo avanti è quanto io credo: tuttavia non voglio togliere nulla all’entusiasmo propositivo di Mori e al suo tentativo encomiabile di rendere il punto di raccolta fiorentino un vero e proprio «laboratorio in atto per la diffusione della pratica poetica». La chiusura dello storico caffè, se per un verso induce a fare un consuntivo delle passate esperienze, non manca per altro verso di toni rivolti a intraprese future.
Una cosa che ho molto apprezzato di questo libro è la lunga citazione di un saggio di Filippo Bettini, posta in posizione di rilievo tra le prime pagine. Filippo, scomparso prematuramente, è stato, nell’ambiente romano un altrettanto instancabile animatore della promozione della poesia e oggi è poco ricordato proprio perché ha bruciato molte delle sue energie in eventi effimeri. Tanto più mi rallegro di averlo ritrovato nel libro di Mori. Bettini dunque dice:
Mori qui costruisce un testo che vuole essere una storia: si fa scriptor rerum litterarum delle vicende poetiche dell’ultimo quarto di secolo. Ciò naturalmente gli impone, in modo tanto più difficile quanto più il suo punto di vista è quello che prima ricordavo, la necessità di far forza su di sé e di mantenere una distanza di obiettività, di aderenza realistica al dato, di forte rispetto dell’oggettività dell’evento storico culturale. Questo aspetto si coglie in tutta l’opera e devo notare che in Italia manca una storia seria dell’avanguardia letteraria, una storia che non sia un flusso verboso e alla fine indiscriminato di considerazioni e di messe a punto di carattere profusivo e impressionistico, come quella o quelle poche di cui oggi disponiamo. Cioè serve una storia letteraria che per tendenze, per linee, per autori, per testi, riesca a fare il punto su un fenomeno sicuramente decisivo della cultura contemporanea, (…) (p. 22).
Naturalmente Filippo stava parlando del libro precedente, ma le sue parole si adattano benissimo a quello recente: Assolo corale è infatti un altro tassello di “storia degli intellettuali e dell’organizzazione della cultura” (per dirla in termini gramsciani) che consente di recuperare utilmente esperienze, proposte e interconnessioni del nostro “come eravamo”.
04/09/2025