In forma di “faldoni” numerati Vincenzo Ostuni aveva già pubblicato i suoi versi in edizioni parziali presso vari editori e alcuni testi si trovano anche inclusi in una mia antologia. Tuttavia questa nuova raccolta “completa” (tra virgolette perché nulla impedisce all’autore di metterci ancora mano), uscita per i tipi de il Saggiatore, si presenta davvero come un’opera mastodontica, rasentando le 800 pagine. Il titolo è al singolare, Faldone, ma in realtà il contenuto è plurale, fatto com’è di sottosezioni, per raggiungere il numero significativo di 99 faldoni (e significativo – come vedremo – proprio perché non tocca per poco la cifra rotonda). Un’opera di tale impegno non può che essere la summa dell’intera attività poetica dell’autore e infatti raccoglie testi elaborati dal 1992 al 2024, ma è iniziata ancor prima, addirittura negli anni Settanta.
A causa della lunghezza dei versi il libro è stampato sul lato lungo, il che rende difficoltosa, se non acrobatica, la lettura, non solo a letto o sul bus, ma anche su una appropriata scrivania. Il che non è l’unica difficoltà. Il problema per il critico è anche memorizzare come si deve l’insieme dei frammenti che compongono l’opera; per non trovarsi alla fine a non aver presente l’inizio è necessario prendere appunti, selezionare i brani più significativi, con il patema che magari proprio quello che è stato tralasciato contenesse le principali chiavi di lettura. Quanto segue è un primo rudimentale approccio a questo vero e proprio “universo poematico”.
Sarebbe troppo lungo seguire passo passo i singoli faldoni e l’evoluzione del libro, che lascio alla postfazione giustamente estesa e particolareggiata di Luigi Severi. In questa sede mi proverò soltanto ad alcune sintesi. Per prima cosa, da critico pedestre quale mi pregio di essere, comincerò dall’aspetto più superficiale, la metrica. Che non è delimitabile, essendo, come detto, portata a riempire la verticalità della pagina e talvolta neanche quella ventina di centimetri è sufficiente. Verso lunghissimo, spesso a scalare; insomma: dismisura, difficile conteggio (i versi scalati vanno contati insieme o no?). Il precedente lontano è Majakovskij, i più vicini Pagliarani e Sanguineti, forse di più il primo, se si pensa a Lezione di fisica, libro anch’esso girato di 90°. Eppure, nel magma di questa poesia che tende alla prosa, l’orecchio ritrova echi, per così dire, “armonici”. Si tratta della frequente presenza di frammenti endecasillabici inseriti e inglobati nel verso lungo. Succedeva anche nei succitati Pagliarani e Sanguineti (perfino in Laborintus!). In Ostuni ci sono casi in cui si può parlare di criptoendecasillabo. Soprattutto questa presenza emerge in fine componimento, in posizione gnomico-sentenziosa, per quella funzione memorizzante cui alludeva già proprio Sanguineti («attento, o tu che leggi, e manda a mente»). Si aggiunga anche la saltuaria esecuzione della rima che, ovviamente, serve a fare “tessuto”, aggregazione verbale, e avremo il prospetto di una introiezione della tradizione tuttavia tenuta tutta in subordine, ripresa ma saltuariamente e quindi non caratterizzata da alcuna nostalgia e neppure da alcuna esibizione di abilità postmoderna.
La funzione dei rimandi sonori, in fondo, è la stessa dei ritorni sintattici, per una poesia che non rinuncia a fare ritmo. La ripetizione è in qualche modo strutturale: il faldone, infatti, rimanda all’archivio, alla raccolta di documenti tutti formalmente della medesima importanza. È dunque giusto che, anche a livello del singolo pezzo, regni la tecnica ripetitiva: l’elenco (che è anche una pratica per sintetizzare la varietà del mondo); la costruzione per anafora, frequentissima più d’ogni altra, dove l’inizio della frase torna a battere nelle seguenti e determina l’ossatura complessiva; l’anadiplosi o concatenazione che – ma ci torno tra poco – va alla ricerca della consequenzialità. Ma, attenzione: tutti questi fenomeni o procedimenti si ritrovano, sì, ma sparpagliati; il vero “minimo comun denominatore”, che sta ovunque, lo stilema che davvero si può definire un ostunema, è un altro. Parlo – e un lettore anche superficiale ci sarà subito arrivato – della coppia di parentesi e virgolette in apertura e chiusura. Queste costituiscono l’unica regola, mai disdetta fino alla fine. Le virgolette caporali, va bene, sono l’indice di una pluralità di voci in dialogo tra loro; ma le parentesi all’inizio e alla fine? (Sanguineti ne usava a bizzeffe, ma non in questa posizione). In attesa di ulteriori approfondimenti, mi tengo a questo: il testo non è che l’inserimento, l’intercapedine interstiziale, di un non-detto o comunque di una esteriorità, che lo circonda da tutte le parti.
Di qui entriamo nella sostanza del Faldone, che è poesia eminentemente riflessiva. Poesia-pensiero, il cui antecedente dovrebbe essere forse Cacciatore, senonché alle forme chiuse reinventate qui si preferisce l’apertura del verso smisurato (che è anche la differenza con alcune tendenze della generazione immediatamente precedente, dentro e fuori il Gruppo 93). La formula, che si è detta, del controcanto dialogico garantisce l’instabilità e la fissazione affermativa, tanto più che gli interlocutori sono mantenuti anonimi (sebbene l’interlocutrice femminile possa suggerire essere la compagna, però non c’è certezza) e quindi rapportabili a una discussione del pensiero con se stesso. Nel dispiegarsi delle diverse fasi e dei numerosi faldoni, questo pensiero si divora ogni tipo di argomento, andando dalla biologia alla fisica, dalla storia dell’uomo agli strumenti della vita quotidiana, dalla politica al piano esistenziale, in cui si muove la parte centrale attorno alle figure dei familiari (col rischio di rivolgersi a persone autobiograficamente identificabili, in effetti). Particolarmente potenti ai miei occhi sono le sequenze dedicate allo sfondo economico-sociale dell’esistenza: da un lato il capitalismo viene smontato attraverso una semplice tabella di equivalenze dove «un litro di latte» vale quanto l’«incremento del patrimonio di Elon Mask fra marzo 2020 e marzo 2021 ogni duemilacentosettantacinqueseimo di secondo» (e la vera equazione è quella del denaro con se stesso: «Denaro=denaro=denaro» e via di seguito ad libitum); dall’altro lato, il comunismo è evocato a sua volta in forma ripetitiva («Prima di tutto ripetere comunismo, comunismo, comunismo» ecc.) non solo come mantra propiziatorio, ma proprio perché il comunismo lo si ha appunto da “ripetere”, in quanto nella sua prima prova è riuscito male…
L’imperativo è di “dire tutto”, ma nel “dire tutto” c’è anche dire “il nulla” («Niente parla di niente»), nella consapevolezza che il linguaggio non ci consegna in proprietà le cose e le persone che nomina. La poesia del Faldone è dalla parte del negativo; nella sua autocontraddizione («Questa scrittura è, non è cinica», e molti altri passi consimili) a me è sembrata una realizzazione in poesia di alcune mosse della decostruzione. Tuttavia non si tratta di aporia e neanche propriamente di negazione, quanto piuttosto di “parallassi”, un termine che compare, se ho ben contato, 9 volte e che probabilmente Ostuni ha derivato da Slavoj Žižek (un autore di cui è stato anche traduttore). In The Parallax View, Žižek spiega: «La prima mossa critica è sostituire questo tema della pluralità degli opposti con il concetto di “tensione” interna, scarto, non-coincidenza dell’Uno stesso (…) definire questo scarto che separa l’Uno da se stesso con il termine parallasse».
Lo scarto della non-coincidenza, anche piccolo, meno di niente, si insinua ovunque – in fondo, come accennavo, anche nel numero dei faldoni che sono 99 e non 100 – e proprio l’impossibile conclusione logocentrica produce la dispersione nella molteplicità, l’identità come plurima, dove poi s’installa l’etica possibile e una certa forma di ironia, per quanto anch’essa ossimorica («Ogni cosa ironica è detta seriamente. Ogni cosa seria ironicamente»).
Di molte citazioni ci sarebbe bisogno, di troppe, difficile sceglierne alcune e non altre, ritagliarle e così via. Tanto più che i versi scalati si sganghererebbero subito scaricate in piccoli apparecchi. Lascio i particolari al lettore volenteroso, che avrà capito il “vale la pena” di questa mole esorbitante.
Aggiungo solo che il percorso inconcluso del pensiero in versi assume tratti sperimentali: non disdegna l’incongruo e l’onirico per un cauto omaggio al surrealismo; può procedere con il passo sospeso dell’interrogativo; utilizza la citazione e il ricalco (vedi, tra le altre cose, il rifacimento della filastrocca di Rodari); importa materiale fotografico, cui aggiunge il commento, quindi costeggia la forma di ecfrasi; inserisce faldoni vuoti, che potrebbe essere gioco delusivo, ma anche un contenitore in attesa di essere riempito, non lo si può sapere in questo opus magnum mai completamente definitivo; costella l’insieme di abbondanti istruzioni metapoetiche. Nel finale, per altro, questo pensiero sempre insidiato dalla controbattuta e dal disagio dell’incompletezza, prende a costeggiare i margini dei margini: i faldoni, si sfaldano, per così dire, in catene omofoniche, in grafici, addirittura nei rimasugli della punteggiatura. E nell’estremo Faldone Novantanove compare una enigmatica formula: «(«») Fuori?». Ci si era chiesti fin dall’inizio da cosa si separassero quelle onnipresenti parentesi, ed ecco in extremis una possibile risposta, che però non può essere altro che una tautologia ipotetica. Il mondo dicibile è stato detto, ma fuori permane tutto il non-detto. È come se la poesia (ammesso e non concesso che sia lirica) toccasse infine ed esibisse in un’ultima acrobazia enigmatica il proprio limite esterno.
26/06/2025