Il tragico e il comico, di alcune complicazioni

Se dovessi scegliere per forza tra il tragico e il comico, allora mille volte il comico. Sarà che il mio interesse per la letteratura è cominciato dalla parodia; sarà che, in quanto critico, sto sempre con la letteratura “secondaria”; sarà quel che sarà, ma il tragico per me ha sempre avuto una coloritura troppo nobiliare, da alte sfere, in atteggiamento di sopracciò, mentre il comico proveniente dal basso e per lungo tempo ritenuto subalterno e di minor credito, possiede l’energia del ritorno del represso. Il tragico è legato allo spirito e all’ideale, mentre il comico è materiale e corporeo. Quanto agli effetti, le lacrime sono tutte nella testa, il riso è di pancia.
Detto questo, però, le cose sono sempre un po’ più complicate rispetto a una semplice scelta di campo.

Quando sono andato a occuparmi delle distopie ho pensato “ecco, questa è la forma del tragico moderno”. Ma non è così: l’eroe della tragedia è un essere superiore che, senza colpa propria ma per malignità della sorte, cade nel disastro; il protagonista della distopia non è proprio un eroe, anche se si batte con tutte le forze contro l’andamento peggiorativo (dispotismo o catastrofe ambientale non cambia) vi viene inesorabilmente trascinato. Pensate al Winston Smith di 1984, tutta la sua buona volontà per derogare dal sistema e salvare il suo amore si riduce a un inconsapevole collaborazionismo. Si può parlare, forse, di tragedia dell’assenza di tragedia.
Però, resta la catarsi. La reazione del pubblico. Anche questa è più difficile da ottenere, ai nostri tempi, dove deve dominare l’intrattenimento. Eppure dell’intrattenimento fa parte la ricerca ossessiva della provocazione. L’esibizione del traumatico, laddove la vita ovattata nella “piccoloborghesità universale” lo tiene fuori della porta. Quale distanza ci sia lo ha ben misurato Daniele Giglioli:

La modernità letteraria e artistica si è nutrita di un trauma effettivo (…). Il nostro è un trauma fantasmatico (…). La televisione è stata il nostro Vietnam, un bombardamento di immagini che non generano esperienza ma la requisiscono, rendendola impossibile da descrivere senza il ricorso a immagini che nulla hanno a che fare con l’esistenza quotidiana. Pullula ovunque un’immaginazione del disastro spicciolo. Non siamo stanchi, siamo in coma. Ogni notizia è una bomba. La situazione è sempre allucinante. (…) La scrittura dell’estremo è il tentativo di rimotivare a posteriori i segni vuoti in cui ci rispecchiamo – con il rischio costante di rimanere imprigionati nello specchio (Senza trauma)

Tale regime è più iperbolico che tragico. Il punto però è che la comunità degli astanti non è più unita, ma polverizzata, quindi la reazione non porta alla “purificazione” delle passioni, la pietà e il terrore rimangono separati e indirizzati a distinte fette di pubblico, meri indicatori di “generi” all’interno dello spettacolo generale. Forse il miglior sostituto dell’antica catarsi è il “risveglio” teorizzato da Walter Benjamin: «non farsi cullare nel “sogno” o nella “mitologia”», scrive negli appunti; e: «l’ora della conoscibilità è l’attimo del risveglio»; ma questo ha un contraccolpo sull’opera, la disgrega in frammenti, ne turba definitivamente l’equilibrio classico.
Quanto al comico, appare assai diffuso nei mezzi di comunicazione e sui social, ma l’aumento di quantità si paga in qualità. La miglior teoria è stata quella prodotta da Bachtin in implicita polemica con la seriosità del comunismo sovietico. Bachtin ha legato il comico al dialogismo della parola e alla dialettica del rovesciamento; bene. Ma non a caso troviamo Bachtin tra i riferimenti dei Cultural Studies americani: nella voluminosa antologia del 1996, viene citato una diecina di volte e il suo “carnevalesco” viene inteso come un avvicinamento alle culture con la minuscola, che hanno sede nel quotidiano. Ma si dà il caso che il “popolare” (e il “nazionale-popolare” gramsciano subisce la stessa sorte), sia nel frattempo passato a livello egemone, nella cultura dominante strettamente controllata dal mercato.
Non si può non vedere la decadenza del comico, diluito a sua volta in una profluvie di barzellette e di risatine a go-go (LOL: Laughing Out Loud) segnate dal marchio del qualunquismo. Del resto, attenzione: il comico, oltre alla versione bachtiniana della espressione della cultura popolare, ha avuto anche la versione bergsoniana della indicazione del comportamento sbagliato, quindi della repressione del diverso. Ormai alcune formazioni secolari del comico sono un po’ in difficoltà: come far ridere con il comico di carattere in un mondo in cui è il mercato stesso a renderci tutti schizoidi? Come attivare lo schema della commedia dei giovani contro gli anziani in un mondo in cui gli anziani fanno i giovani e i giovani nascono già vecchi? Il comico moderno esclude ogni salute e quindi, a sua volta, nega ogni comunità consolidata e conforme; lo si ritrova perciò al meglio nelle modalità di un riso per così dire distorto: l’ironia, l’umorismo soprattutto se nero, il grottesco e ovviamente la forma mista del tragicomico. Pirandello è tragico o comico? La stessa domanda potremmo rivolgerla a Kafka, a Gadda, e in fondo anche a Joyce e a Beckett.
il carattere antagonista conferito dal Controdolore di Palazzeschi e confermato da Bachtin esige un comico “critico”, che ride di tutto («Tutto è degno di riso, fuorché il ridersi di tutto», lo dice Leopardi)
e addirittura di se stesso, un meta-comico, quindi.
Un comico che non risparmia nessuno e nulla, come ha indicato anche Walter Benjamin parlando nientemeno che di Proust:

La caratteristica di Proust non è l’umorismo, ma la comicità; in lui il riso non solleva il mondo, ma lo scaraventa a terra. Col pericolo che vada in pezzi, di fronte ai quali scoppierà egli stesso in lacrime. E vanno effettivamente in pezzi l’unità della famiglia e della persona, della morale sessuale e del decoro sociale. Le pretese della borghesia vanno in pezzi nel riso. 

Un comico spiacevole. Ma spiacevole non era il tragico, che per costituzione non ha lieto fine? A questo proposito, Sigmund Freud, in Al di là del principio del piacere, portava proprio la tragedia come esempio di un’opera d’arte che contraddice la piacevolezza, se non, addirittura (complicando ulteriormente le cose) comporta un piacere del dispiacere. Dice dunque:

In ultimo, possiamo ricordare che, a differenza di quanto accade nei giochi dei bambini, il gioco e l’imitazione artistica eseguiti dagli adulti mirano sempre a un pubblico e non risparmiano agli spettatori (come nel caso della tragedia) le più penose sensazioni, anche se poi il pubblico le vive come fonte di notevole godimento.
Ecco una bella dimostrazione che, malgrado il dominio del principio del piacere, esistono sempre possibilità e mezzi acché ciò che è per sé spiacevole possa trasformarsi in qualcosa che possa essere ricordato ed elaborato psichicamente.

Il dispiacere del testo: ma allora il testo più tragico sarebbe l’avanguardia? Nell’avanguardia il trauma sociale viene restituito nel linguaggio. La vera tragedia sarebbe allora quella di non riuscire a esprimersi, oppure di sostituire l’espressione presunta autentica con il gioco risibile. Essere condannati al regime ludico come ultima risorsa, è quella la situazione più tragica.

17/06/2025

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