Narrazione sì, narrazione no

Ho spesso segnalato come caratteristica ideologica della nostra epoca l’esaltazione della centralità della narrazione. C’è al riguardo una bibliografica più che ampia che tocca svariati livelli e posizioni: in chiave tecnica (Brooks), femminista (Cavarero), piscologica (Gottshall), terapeutica (Cometa) e sicuramente ne sto dimenticando di importanti. Una vera valanga. Di narrazione si parla dappertutto e perfino, fatto significativo, nei talk-show della politica.
Tanto per non perdermi niente, sono andato a leggermi il libro di Byung-Chul Han, pensatore coreano operante in Germania, che ha già al suo attiva varie opere sulla filosofia sociale e sul mondo della comunicazione (l’infosfera). Il libro in questione, pubblicato da poco presso Einaudi, s’intitola La crisi della narrazione e subito questo titolo mi ha incuriosito. Come crisi? Ma se la narrazione straripa ovunque e bisognerebbe semmai contenerla! Han muove appunto da un paradosso: che quanto più se ne parla tanto meno è in buona salute… E siccome il paradosso mi è sempre parsa una buona maniera di rovesciamento dialettico, valeva la pena di andare a vedere un po’ più a fondo.

Oggi tutti parlano di narrazioni. Eppure, paradossalmente, proprio il fatto che in ogni ambito vengano usate delle narrazioni è il segnale di una crisi dell’esperienza narrativa. Al cuore di questo storytelling rumoroso domina un vuoto narrativo che si manifesta come mancanza di senso e perdita dell’orientamento.

Questo è l’incipit e il succo del libro. Bisogna però vedere come procede l’argomentazione e dove va a parare. Come spesso mi accade di questi tempi, ultimata la lettura, mi trovo in parte d’accordo e in parte in disaccordo. Vado quindi a illustrare questa scriminatura:
Parte prima: accordo. Ciò che condivido del discorso di Han è la profonda critica che rivolge allo storytelling attuale. Ed è interessante anche il passo in più che compie rispetto alle diffuse geremiadi riguardo ai social media (che poi alla fine tutti usiamo, sia pur con disprezzo). Dietro l’ideologia del raccontare che ci immerge in una marmellata amorfa di gossip, fiction, confessioni, conversazioni quotidiane, discorsi e sollecitazioni, lo sguardo critico coglie una molla piuttosto evidente: non si può lasciare nulla che non frutti guadagno. Lo storytelling, con una felice battuta, diventa storyselling. Il vero narratore è il capitalismo:

Grazie allo storytelling il capitalismo si appropria della prassi narrativa e la sottomette alle regole del consumo. Lo storytelling produce racconti che hanno la forma di oggetti di consumo. Con il supporto dello storytelling i prodotti si caricano emotivamente, così da promettere esperienze uniche.
E così ci troviamo a comprare, vendere, consumare racconti e emozioni.

Han sostiene che questi racconti-merce non siano più neanche vera narrazione, ma tendano a tradursi in informazioni, in dati da recepire senza attenzione e senza sosta, così – io dico – da “sapere tutto senza capire niente”. Non a caso nei social si tende sempre più alla brevità, a una scrittura di messaggi che non hanno bisogno di articolazione e congruenza. «L’informatizzazione della realtà – questo lo scrive Han – ha come conseguenza che l’immediata esperienza del presente viene distorta. Attraverso la digitalizzazione in quanto informatizzazione la realtà viene appiattita». E ancora: «Ammassare dati non è una prassi narrativa ma cumulativa». Questo processo, per altro, deriva a mio parere dal bisogno sempre più forte di invadere ogni sfera privata: mentre in un mondo di gerarchie stabili (signore/servo) al potere bastava la forza della sovranità, lasciando libero (cioè vuoto) lo spazio interiore, nel mondo in cui il consumo diventa a sua volta produttivo, è necessario colonizzare perfino l’inconscio. Han arriva ad indicarlo nelle pagine finali, e vale la pena di citarlo ampiamente:

Le narrazioni sono più efficaci dei meri fatti o dei calcoli, poiché suscitano emozioni. Nella maggior parte dei casi, le emozioni si presentano come risposte a narrazioni, quindi vendere storie significa, in ultima analisi: vendere emozioni. Le emozioni sono localizzate nel sistema limbico, quella parte del nostro sistema nervoso che controlla le nostre azioni a livello corporeo-istintuale, un livello nel quale non siamo coscienti. Esse possono incidere sul nostro comportamento evitando completamente una qualche partecipazione intellettuale nel comportamento stesso. Le nostre possibili risposte correttive di un certo comportamento a livello cosciente vengono quindi aggirate dalle emozioni. Nella misura in cui il capitalismo mira ad appropriarsi della prassi narrativa, allora esso si impadronisce della vita a un livello pre-riflessivo e così facendo sfugge al controllo cosciente e alla riflessione critica.

È detto molto bene e coincide con la messa in guardia, che non mi stancherò di ripetere, rispetto al ritornello emotivo (soprattutto in poesia), altrettanto invadente della profluvie elogiativa della narratività.
Quindi, cosa c’è che non va?
Parte seconda: disaccordo. Quello che non condivido con Han – saranno le diverse radici culturali, può darsi – è lo sguardo rivolto all’indietro, come se fosse esistita in passato l’epoca felice della giusta narrazione, oggi inopinatamente guastata dall’avvento dell’ottica mercantile. Non è la lamentazione del tramonto del grande romanzo ottocentesco che, per altro, traeva la sua grandezza proprio dall’impatto con il cinismo borghese: nella prospettiva di questo libro tutto sommato la letteratura è tenuta in sordina, si parla soprattutto della narrazione quotidiana. In tale prospettiva, il racconto autentico è quello legato a una “comunità”. La scelta di questo termine è decisiva: non “società” (attraversata dalla contraddizione politica), bensì “comunità”, gruppo più ristretto e relativamente più omogeneo dentro il quale il racconto può circolare e valere come “ordinamento comune dell’esperienza” e quindi come collante interpersonale. Quel racconto ha qualcosa in comune con il mito e vale a curare le ferite dell’esistenza. C’è sotto, evidentemente, la nostalgia del “villaggio” come «comunità narrativa» – senza considerare che i localismi del campanile sono il portato, prodotto e valvola di sfogo, della stessa globalizzazione.
Su questo sono in disaccordo: a mio parere, lo scadimento della narrazione rispetto al passato assolve alla stessa funzione rassicurante del racconto comunitario: solo che il sistema consumista ha spezzettato la comunità in atomi pressoché individuali, quindi ha dovuto aumentare  la penetrazione della persuasione narrativa, diminuirne la qualità per aumentarne la diffusione (un po’ come la droga), che non si possa farne a meno. Non c’è più aura ma c’è “aura fritta” (secondo il calembour di Accame, che cito spesso)
Per Han, al contrario, la narrazione autentica resta quella del passato, dove era possibile l’«incantesimo» e l’«empatia», che però sono proprio i termini oggi sbandierati a destra e a manca. Anche il termine «aura» è recuperato qui in senso positivo e la sua perdita intesa come danno irreparabile all’efficacia del racconto. Ma allora – dirà il lettore assiduo del mio blog – siamo agli antipodi di Benjamin? Qui si rileva il punto più dolente: Benjamin è citatissimo e quindi ben noto e letto in lingua originale, eppure travisato quasi completamente. Non solo la caduta dell’aura, ma anche la perdita d’aureola ripresa da Baudelaire sono viste come fattori nefasti, tutt’al contrario di Benjamin. Dell’allegorismo benjaminiano, che potrebbe fungere da contraltare della narrazione realistica, non si fa proprio cenno.
Il punto è, a me pare, la questione della modernità. Il punto di vista di Han è decisamente anti-moderno. La modernità appare semplicemente come una distorsione epocale dalla quale si dovrebbe tornare indietro. Oggi questo pensiero è molto diffuso. Si potrebbe dire che ha vinto Heidegger (un riferimento che qui compare al momento opportuno) e il suo “oblio dell’essere”. Benjamin, che Heidegger non l’amava affatto, pensava invece che la modernità offrisse sempre, a saperla individuare, una pur debole chance rivoluzionaria. Un’alternativa alla narrazione nella narrazione (e il romanzo novecentesco, con le sue plurime anomalie, avrebbe qualcosa da dire a questo proposito). E’ chiedere troppo?

06/06/2025

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