Non rimane che il comunismo

Sa che deve smettere, ma non riesce a smettere… Non si tratta di un drogato o di un alcolista, ma semplicemente del pianeta Terra, come suol dirsi “l’unico che abbiamo”. È probabile che siamo a un passo dall’ultima chiamata e malgrado tutti i segnali che mandano i mutamenti climatici ci sono i negazionisti e comunque gli speranzosi che resteranno inerti finché le onde non entreranno nella casa al mare o il tornado non li porterà via con il dehors dell’apericena. Per l’intanto si continua come prima, come se niente fosse. D’altronde, come si fa a invertire il corso dell’economia globale? Tanto meglio non pensarci.
Non è d’accordo Saitō Kōhei, nel suo libro Il capitale nell’antropocene, da poco pubblicato da Einaudi. Saitō è un giapponese relativamente giovane (è lui nell’immagine in evidenza), un docente di filosofia studioso in particolare di Marx che ha puntato la sua attenzione sull’ “ecomarxismo” (L’ecososcialismo di Karl Marx è il suo titolo precedente, edito in Italia da Castelvecchi). La sua tesi è che non siamo ancora all’ultimo stadio, quando non c’è più niente da fare, ma ci arriveremo presto se non si adotta una soluzione radicale. Poiché il guasto planetario è opera del sistema di vita chiamato capitalismo, non resta da fare altro che cambiarlo. È il capitalismo che, anche se sa di dover smettere, non riesce a smettere (basta vedere tutte le resistenze degli stati alle convenzioni sul clima). Quindi? Non rimane che il comunismo.

Il libro di Saitō manifesta un netto scetticismo sulle politiche verdi e non soltanto perché pongono obiettivi troppo lontani e per giunta soggetti a rallentamenti, ma soprattutto per via delle trasposizioni e dei paradossi. Le trasposizioni consistono nel fatto che il miglioramento della salubrità nei paesi ricchi comporta un peggioramento nei paesi poveri (esportazione di residui inquinanti, estrazione di sostanze rare, ecc.); un po’ come i migranti che si vorrebbe mandare in Albania: non li vedremmo più, ma ci sarebbero sempre… Quanto ai paradossi, la produzione di tecnologia che riduce le emissioni fatalmente comporta altre emissioni, vedi lo smaltimento delle pile delle auto elettriche o la produzione di idrogeno, sempre per auto). Sentiamo un esempio di Saitō: «Se per far funzionare un televisore occorre meno energia, la gente inizia a comprarne con schermi sempre più grandi, causando di converso un incremento dell’energia consumata». Anche le speranze riposte nelle mirabolanti invenzioni di tecnologie future non convincono l’autore, perché produrranno sempre consumo di risorse, scorie e danni a vari livelli. In punto è, secondo il libro, che tutti i rimedi messi in campo partono da un identico presupposto che è la conservazione del regime capitalistico e del modo di vita che gli corrisponde, definito «modello di vita imperiale». Se si mantiene il mito della crescita produttiva, non si arriverà mai alla diminuzione del disastro planetario:

Come già visto più volte, sia il Green New Deal che fantasticate tecnologie come la geoingegneria, o ancora politiche economiche come l’Mmt, pur volendo promuovere una svolta epocale di fronte alla crisi, fanno di tutto per mantenere intatta la radice del problema, ovvero il capitalismo responsabile della crisi stessa. E questa è una contraddizione in termini. 

In poche parole: il capitalismo non è emendabile. Come farebbe a sopravvivere, infatti, senza sfruttare, depredare, cercare il massimo profitto?
Ma c’è di più. Gli studi su Marx hanno portato Saitō a riflettere sull’ultima fase del pensiero marxiano e in particolare sulle carte sparse pubblicate solo di recente, lettere, appunti (spesso «stesi in una calligrafia illeggibile») che mostrano l’attenzione del filosofo tedesco per il “metabolismo” tra l’uomo e la natura e quindi l’abbandono della fede nel progresso lineare della storia. Secondo Saitō, proprio questo cambiamento di rotta è la ragione per cui Marx non ha chiuso l’enorme lavoro del Capitale. E si tratterebbe di una vera e propria “rottura epistemologica”, però diversa da quella a suo tempo ipotizzata da Althusser, che difatti viene richiamato qui con una certa ironia…
C’è poco da fare: l’inasprirsi della situazione non può che portare a esiti negativi: l’affidarsi a leader dittatoriali che promettono salvezze impossibili, oppure a misure drastiche, però imposte dall’alto e alla fine perdenti (nel libro è chiamato il «maoismo climatico»), diversamente ci sarà via libera allo “stato selvaggio” già raccontato da molte distopie. Lo scenario è brutale e i commenti drastici: «l’umanità si trova di fronte a una svolta»; e: «Non c’è più spazio per soluzioni a metà». Risultato: «Il comunismo è l’unico futuro che conviene scegliere nell’epoca dell’Antropocene».
Però, attenzione: il termine comunismo – oggi pressoché impronunciabile altro che come insulto – non riprende affatto le esperienze novecentesche, né quelle sedicenti tali ancora in atto; e non soltanto perché Saitō auspica vie democratiche e iniziative “dal basso”, ma soprattutto perché vuole liberarlo dal mito della produzione e dell’avanzamento a tutti i costi. Quello che il libro propone come unica via razionale è un “comunismo della decrescita”:

Il punto è che il comunismo della decrescita promuove la transizione verso un’economia sostenibile proporzionale al rallentamento della crescita economica. La decelerazione poi, come sappiamo, è un nemico naturale del capitalismo. Destinato com’è solo ad accelerare per perseguire un profitto senza limiti, non gli è possibile adeguarsi a una produzione in linea con un ritmo naturale. Non è l’accelerazionismo, quindi, a essere rivoluzionario, ma il decelerazionismo.

Non è la prima volta che “decrescita”, questa parola così poco simpatica, viene presentata nel dibattito, ha dei precedenti: Latouche, prima di tutti, ma ci sono anche altri nomi sui quali si appoggia la riflessione di Saitō; tuttavia nel suo discorso si trova un maggior vigore e una maggiore radicalità. E anche alcune indicazioni, per così dire, “pratiche”, ancorate sulla centralità del “bene comune”, del “valore d’uso” e quindi dei lavori necessari:

La contraddizione intrinseca [del mondo odierno] è che i lavori che producono pochissimo valore d’uso sono quelli che pagano meglio e, di conseguenza, attraggono molte persone. Al contrario, i lavori essenziali (che producono un alto valore d’uso) vengono retribuiti poco e soffrono di una costante carenza di manodopera.
È necessario quindi spostarsi verso una società che valorizzi il valore d’uso. E ciò significa valutare correttamente i lavori essenziali. 

Il discorso di Saitō (forse un po’ troppo spezzettato in brevi paragrafi, però ben documentato) risulta convincente o comunque disegna una prospettiva che andrebbe presa in considerazione. Naturalmente, tenendo ben presenti i vari problemi che apre: come risolvere – malgrado la persuasione razionale – il legame edonistico con il “modello di vita imperiale” in cui tutti siamo adagiati; come non lasciar cadere il richiamo al “valore d’uso” nella nostalgia retrograda per le comunità rurali (che a ben vedere erano le più radicate nel patriarcato); come far crescere la democrazia dal basso in epoca di leaderismi spinti; come passare dal localismo al globalismo, perché senza impegno globale le piccole iniziative saranno inutili; come diffondere il criterio della “giustizia climatica” e non solo garantire, ma anche imparare dal “sud globale”; e via dicendo. Saitō ci offre, nell’ultima parte del suo libro vari esempi di casi positivi, dalle cooperazioni si semplici cittadini, passando per le Fearless Cities fino alla rete internazionale di associazioni, sottolineando i punti raggiunti dalla dichiarazione della giustizia climatica di Barcellona del 2020. Certo, Saitō lo ammette: «Sarà una battaglia difficile, su questo on c’è dubbio».  E al momento
di minoranza. Ma almeno se ne comincia a parlare e chiamare l’antropocene con il suo vero nome di “capitalocene” è già un passo verso la chiarezza delle responsabilità.

19/01/2025

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