I Papi si sono sempre interessati alla letteratura, se non di persona attraverso i loro inquisitori che ne fornivano occhiuti indici e volentieri mettevano ad ardere oltre ai libri anche gli autori ritenuti pericolosi. Una critica censoria, dunque, di tipo morale, rigidamente “distinzionista”, che sottintendeva un sospetto generale verso le scritture laiche: bastante il Libro Sacro, diretta emanazione divina, tutt’al più completato da breviari edificanti di preghiere e agiografie.
Ma i tempi cambiano, ragazzi! Ed ecco comparire nel caldo estivo del luglio scorso una lettera di Papa Francesco Sul ruolo della letteratura nella formazione. E scopriamo un completo rovesciamento strategico: l’obiettivo è sempre il miglioramento morale, ci mancherebbe, ma la letteratura adesso è vista come uno strumento utile, sia pure di mediazione e passaggio ad maiora, addirittura consigliabile nei seminari per la formazione dei futuri sacerdoti. Invece di rigettare le tentazioni diaboliche del “mondo”, il Santo Padre suggerisce di esplorare a fondo le pieghe del cuore umano, avendo a guida proprio le rappresentazioni letterarie.
Mi è tornato in mente, leggendo questo scritto, quanto mi diceva alla fine del liceo un mio compagno già allora assai scafato (che aveva recepito un suo Hegel): secondo lui il successo della Chiesa attraverso i tempi è dovuto alla capacità di assimilare di volta in volta la propria antitesi che è lo spirito dell’epoca. Questo spirito il Papa odierno lo vede nello “spazio letterario”: conoscere quello darà all’evangelizzatore una conoscenza profonda dell’anima da convertire, che tornerà a suo vantaggio.
La lettera pastorale ha una forte impronta umanistica, perfino in alcuni punti al limite dell’ortodossia, come il titolo di paragrafo Mai un Cristo senza carne o l’adattamento dell’antico motto terenziano «essendo cristiani, niente che sia umano mi è indifferente». Insomma, il lato del cristianesimo aperto all’uomo e al sociale. Qui c’è in ballo qualcosa di più della letteratura, se l’apertura culturale viene fatta giocare contro il fondamentalismo e viene bollato quale «impoverimento intellettuale» il restringersi nel proprio orticello dottrinale. Tutto questo ci sta e dal mio punto di vista rappresenta uno sforzo positivo, se non rivoluzionario almeno riformista nei confronti del proprio statico apparato.
Tuttavia, quando Sua Santità s’inoltra nell’ambito letterario non solo perde il dono dell’infallibilità, ma si espone a essere valutato con l’ottica specifica della teoria della letteratura. Qui devo dire subito che il discorso umanista è piuttosto generico, così come l’elogio della lettura che collima con tante perorazioni corrive che si ascoltano da ogni parte, affermanti che il leggere produce
molti effetti positivi nella vita della persona: la aiuta ad acquisire un vocabolario più ampio e di conseguenza a sviluppare vari aspetti della sua intelligenza. Stimola anche l’immaginazione e la creatività. Allo stesso tempo, questo permette di imparare ad esprimere in modo più ricco le proprie narrazioni. Migliora anche la capacità di concentrazione, riduce i livelli di deterioramento cognitivo, calma lo stress e l’ansia.
In questa generalizzazione della lettura verrebbe da chiedere: cosa fare con le pecore nere? E non dico mica gli impresentabili in parrocchia de Sade, Lautréamont o Céline, ma anche solo uno come Kafka, come la calma l’ansia?
Mi sarei aspettato qualche prossimità in più all’ermeneutica gadameriana oppure al canone dei capolavori di Bloom e George Steiner; invece vedo che Francesco – per apparire proprio aggiornato al dernier cri – si appoggia prevalentemente alle teorie neurologiche dell’empatia, fino ad apprezzare l’immersione nel testo: «Nella lettura ci tuffiamo nei personaggi, nelle preoccupazioni, nei drammi, nei pericoli, nelle paure delle persone che hanno superato alla fine le sfide della vita, o forse durante la lettura diamo consigli ai personaggi che in seguito serviranno a noi stessi». Dunque la letteratura valida, secondo Lui, deve suscitare la partecipazione commossa («piangendo per la sorte dei personaggi»…). Di questa teoria dell’empatia mi sono occupato già varie volte e a me pare a doppio taglio: va bene empatizzare col migrante, ma cosa succede quando si empatizza con il leader sovranista e con l’identità nazionalfascista che propina?
Insomma, Francesco, non dico faccia un “papocchio”, ma certo soffre di “eclettismo ecclesiale”. Un esempio? Prima afferma che è il lettore che fa il testo («riscrive l’opera, la amplifica con la sua immaginazione, crea un mondo»), e qui consuona con l’Iser de L’atto della lettura, ma se non sta attento arriva al Fish che nega l’esistenza del testo; dopo però è il testo che legge il lettore: «Leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà i lettore vive l’esperienza di “venire letto” dalle parole che legge». Volendo, consiglierei al successore di Pietro di prendere in considerazione Starobinski che almeno fa un tentativo di mediazione tra soggettivismo e oggettivismo. Altrimenti, restando così separati, si è in palese contraddizione: delle due l’una…
Va bene che in fondo, tutto sommato, il Pontefice il suo mestiere lo fa. Non avrà pensato che l’immersione nel testo è un valore del mercato (se “prende” ha successo, se “non prende” no), ma è nella logica del religioso servirsene per approdare alla diminuzione della riflessione. Chi si immerge totalmente perde la possibilità di giudicare dove lo porta il libro (o il film o il video, ecc.). Qui non c’è più molto posto per la ragione, ma cosa volete da chi si fonda sul quia absurdum della fede in un’essenza immateriale con atteggiamenti antropomorfi? Per forza di cose, quindi, sacerdote e poeta s’incontrano nell’«ineffabile»; del resto, nel suo lato “auratico” la letteratura ha già di per sé finito di esser laica, diventa un surrogato della religione.
E, tuttavia, Papa Francesco non smette di stupire (meraviglie dell’eclettismo ecclesiastico!). Verso la fine dell’epistola, un po’ nascosta tra le pieghe del discorso, emerge una teoria contraria, quella del “decentramento” (che abbia letto Brecht, Althusser o il nostro Leonetti, lui pure Francesco?). Ecco:
Lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento (…). In questo senso la letteratura aiuta il lettore ad infrangere gli idoli dei linguaggi autoreferenziali, falsamente autosufficienti, staticamente convenzionali, (…) imprigionando la libertà della Parola. Quella letteraria è una parola che mette in moto il linguaggio, lo libera e lo purifica: lo apre, infine, alle proprie ulteriori possibilità espressive ed esplorative (…).
Capperi! Ma questa decostruzione è quella dell’avanguardia novecentesca! Dunque la menzione di Borges non era solo un portato patriottico… E però non c’è da farsi illusioni: se davvero adottasse fino in fondo questa ultima postura suggerita dalla letteratura (ma solo da una certa letteratura, quella alternativa), allora il capo della Chiesa si darebbe da fare per il minimo sindacale di una decente riforma della sua secolare istituzione: matrimonio dei preti, sacerdozio delle donne, donazione del patrimonio ai poveri. Sarebbe già un buon passo avanti.
22/12/2024