Dall’antico, oraziano, ut pictura poësis fino ai giorni nostri, il matrimonio tra arte e letteratura è stato – come dire – a “letti separati”… Grande attrazione, sì, ma poi prevalenti gli imperativi di settore e le categorie del mercato: e proprio il mercato le divide, ché nell’arte significa quotazioni a monte, mentre nella letteratura vale la diffusione a valle. Insomma, sono entrambe modi di rappresentazione: ma la letteratura con la mediazione del linguaggio, la pittura direttamente mimetica. Eppure, gli intrecci ci sono: la letteratura ha le sue figure (retoriche); mentre, dall’altra parte, spesso si sente dire che bisogna “leggere un quadro”. E poi c’è l’ecfrasi: che è per tradizione la descrizione verbale di un’opera d’arte visiva, una sfida a fare lo stesso con altri mezzi che si può allora considerare una pratica di confine.
Proprio l’ecfrasi è stata utilizzata e rimessa a nuovo da Chiara Portesine per riflettere sull’esperienza delle nuove avanguardie del secondo Novecento nel suo libro La continuazione degli occhi. Ecfrasi e forma-Galeria nelle poesie della Neoavanguardia (1956-1979), pubblicato nelle Edizioni della Normale di Pisa. Sembrerà strano, ma su questo tema classico l’avanguardia si rivela un’ottima cartina di tornasole, perché la sua istanza di cambiamento (diciamo pure: la sua “rivoluzione copernicana”) ha sempre sentito l’esigenza di non arrestarsi dentro le caselle prestabilite, ma di promuovere l’intera trasformazione del pianeta-estetica, puntando, in maniera più esplicita o meno, al rinnovamento della società. E allora l’alleanza tra scrittori e pittori porta con sé una nuova stagione dell’ecfrasi.
Chiara Portesine dimostra anzitutto in questo libro una eccezionale capacità di ricerca sull’uno e sull’altro “specifico”, compiendo una vera e propria
avventura critica che ha richiesto il setaccio di decine di archivi, studi d’artista e istituzioni disseminate per l’Italia, ci si potrebbe domandare quale sia il senso, sul piano della comprensione e del puro godimento estetico, di un testo la cui decifrazione obbliga alla pazienza e all’ostinazione di un postillatore d’enciclopedie.
Al centro del lavoro ci sono non già sconfinamenti occasionali, ma partecipate collaborazioni: le riviste interdisciplinari (primo fra tutti il “Marcatré”), gli spettacoli teatrali (dove i pittori diventano scenografi), i cataloghi delle mostre (dove i poeti diventano commentatori sui generis). Una ricerca dettagliatissima che risveglia episodi rimasti in ombra nei precedenti studi, in modo da ricostruire in pieno l’atmosfera sperimentale di quegli anni (le date si prolungano fino al 1979, cioè sulla soglia della voga postmoderna che proclamerà l’impossibilità dell’avanguardia). Con particolare acribia, l’autrice documenta i passaggi dei testi nati nell’evento espositivo, poi passati alla stampa effimera (cataloghi, plaquettes), infine approdati al libro. E va a districare rapporti piuttosto complessi come quelli tra Sanguineti e Baruchello, i rimbalzi tra il Giuoco dell’oca e il suo tabellone e la successiva ripresa dei T.A.T. Analizzati a fondo sono vari episodi significativi svolti attorno alle figure di Balestrini, di Vivaldi (il “novissimo” mancato), di Spatola e del gruppo del Mulino di Bazzano. Tutti intrecci molto utili per la piena conoscenza delle vicende del Gruppo 63.
Quelle tra poeti e pittori risultano essere convergenze non casuali. Imparando dalla pittura, che ha uno sguardo esterno, privo di introspezione, i poeti consolidano la “riduzione dell’io”, «la presa di distanza da qualsiasi forma di identificazione» e maturano il loro impasto verbale (la frammentarietà straniante) sulla scia della tecnica del collage. Dal canto loro, i pittori mostrano di preferire, rispetto agli inamidati approcci della critica d’arte accademica, l’apporto dei poeti, inventivo a sua volta e straniante, portatore di una paritaria tendenziosità.
Infatti l’incontro avviene su un terreno comune che è quello dell’informale: quindi di una contestazione della rappresentazione. Questo comporta, per forza di cose, una nuova ecfrasi, meno subordinata e più paritaria. Una nuova ecfrasi, scrive Chiara Portesine:
L’avanguardia, al contrario, chiede al fruitore e al critico l’invenzione di categorie nuove perché lo stesso mondo che ritaglia a lato della modernità è, di fatto, nuovo. Il territorio delle avanguardie è uno spazio, per certi versi, autistico, in cui la sospensione della legge funziona proprio perché si tratta di un’eccezione che non confermerà mai la regola. Tutto funziona, nel laboratorio delle scritture sperimentali, perché l’oggetto-Frankenstein che si sta creando non è il mondo descrivibile ma un mondo che, non esistendo ancora, è refrattario a qualsiasi test di realismo, di coerenza e di effettualità. Che senso potrà avere, dunque, parlare di enàrgeia o di ‘effetto di vividezza’ per scritture che sognano di evitare qualsiasi forma di pathos o di rispecchiamento tra il libro e il pubblico? E, radicalizzando la prospettiva: come si potrà parlare di ‘descrizione’ (non soltanto di opere d’arte ma di qualsiasi oggetto) per autori che guardano a un sistema che potrà costituirsi soltanto attraverso un’alleanza critica con il lettore?
In pratica, non una pedissequa descrizione, ma una sorta di risposta creativa che può anche sembrare senza rapporto apparente con l’opera in oggetto. Si dà il caso che l’autrice usi spesso locuzioni strane, come «l’ecfrasi si prosciuga» (a proposito di Balestrini), «vampirismo ecfrastico» (a proposito di Sanguineti), «buco nell’acqua ecfrastico» (a proposito di Spatola). Gli è che la fedeltà qui si declina come sintonia. E l’ecfrasi diventa un’efficace mediazione per un rapporto con la realtà che rifiuta l’immediatezza ingenua. Leggiamo:
Descrivere un quadro significa, intanto, affidare (parzialmente o integralmente) la costruzione della trama a un copione figurativo preesistente, a cui la versificazione dovrà adeguarsi in forme imitative o ricreative ma comunque guidate. Il poeta si servirà di spunti ‘trovati’ (dai colori ai personaggi, dal paesaggio alle suggestioni fornite da titoli e didascalie), scambiando una dose di contrainte con l’agognata emancipazione dall’io lirico.
Fare i conti con l’altra figurazione per rapportarsi a una realtà problematica e in crisi. Ma non sarà troppo (la somma di due informali) per il povero fruitore? In sede conclusiva riemerge l’annoso problema della comprensione (le critiche di elitarismo, disprezzo per il pubblico e via dicendo) che ormai accompagna stabilmente l’avanguardia. È una solfa che ho sentito tante volte e non mi andrebbe più di rispondere ma tanto è entrata nel senso comune che allora è giusto che il libro di Chiara Portesine se ne faccia carico. Il punto è che, così come produce una nuova ecfrasi, la neoavanguardia comporta una nuova ermeneutica – la definizione migliore della quale è stata offerta da Peter Bürger nel suo discorso sull’opera “non organica”. Forse in questa discussione l’arte ha qualche vantaggio sulla letteratura perché, non usando le parole, non può essere accusata di leso significato, e infatti nessuno si sogna di escludere l’arte astratta dal novero delle possibilità.
Quanto a Chiara Portesine, ci offre, in nota, una valida risposta citando Alfredo Giuliani dove dice: «Il lettore, anziché essere viziato con le parolette e i dolci ritmi, è trattato da adulto». Purtroppo il mercato della comunicazione, per sicurezza, si tiene basso e addestra consumatori “rimbambiniti”…
09/12/2024