E’ romanzabile Benjamin?

Ovviamente, la risposta è sì. Benjamin è “romanzabile” come qualunque altro personaggio storico. Anzi, se diviene personaggio di romanzo – come ad esempio, per dirne una, in Tutto il ferro della Torre Eiffel di Michele Mari – non si può neanche sindacare se corrisponda al profilo del Benjamin “vero” come risulta dagli atti, in quanto piuttosto c’è da domandarsi della sua funzione nel dispositivo narrativo in cui è incluso.
Quello però che si può obiettare è la “biografizzazione”, che nel caso del nostro autore significa ricondurre la sua teoria alle vicissitudini di un intellettuale erratico assai sfortunato e a vederne quindi i patemi d’animo, sbirciando magari nella sua problematica “camera da letto”, piuttosto che entrare nelle spire del suo pensiero: pensiero, del resto, estremamente complicato, per cui il biografismo offre una scorciatoia molto più comoda. Negli ultimi tempi, per altro, mi sembra che i commentatori tendano prevalentemente a riportarlo alle radici ebraiche, privilegiando il primo Benjamin a dispetto dell’ultimo, riducendo a inessenziale l’amicizia con Brecht e la collaborazione con la Scuola di Francoforte a necessaria provvigione per sbarcare il lunario. Come se fosse possibile, insomma, liberare il nano gobbo della teologia dall’automa marxista, per usare una fondamentale allegoria dell’autore stesso.

Dentro questi problemi si può inserire la monografia di Paolo Pagani In cammino con Walter Benjamin (Neri Pozza editore). Qui il nostro Walter viene trascinato in una impostazione oggi molto frequente, una sorta di docufiction. Infatti il libro si presenta come un saggio e possiede sul suo argomento una buona documentazione, senonché l’abbondanza dei particolari – persino troppa! – non è organizzata a produrre una tesi, piuttosto è chiamata a costruire la scena in cui presentare il personaggio. Come se avesse di fronte un pubblico televisivo, lo stile si fa accattivante, tende a coinvolgere nei toni della vicenda, diventa concitato e quasi epico più ci si avvicina alla catastrofe. È il trionfo dell’ipotiposi. Come dice il titolo, siamo chiamati a “camminare” con l’autore e non a caso l’accidentato percorso benjaminiano viene ripercorso come se fosse de visu, attraverso l’uso del presente. Ci può andar bene a far effetto la frase lapidaria e metaforica («Benjamin adesso è un angelo senza ali»); l’apertura sull’abitacolo di chi scrive («Mi interrompo di colpo, mentre scrivo queste parole»); viceversa l’immedesimazione («Me lo posso immaginare avvicinarsi ingobbito al microfono»). Non possono mancare le citazioni pop, come quella del cantautore Guccini vicino al meno noto Canetti, e al momento culminante della storia d’amore con la Lacis inevitabilmente parte la somiglianza con il romanzo, ma più probabilmente con il film: «Sembra il Dottor Živago» (il lettore senta in sottofondo Il tema di Lara, “dove non so”… ). L’enfasi quasi-cristologica del “calvario” magari si mescola a particolari quotidiani quasi-buffi:

Benjamin è un altro uomo, un uomo in esilio, braccato, ha lasciato per sempre la Germania, è già una vittima. (…) Ibiza è insomma la prima stazione del nuovo calvario, la prima tappa della sua nuova, vulnerabile vita senza più radici. (…) Per colmo di sfortuna smarrisce anche la stilografica. Ha mal di denti, la febbre, gli si gonfia per infiammazione una gamba.

Ogni capitolo è preceduto dall’elenco dei personaggi, come un buon giallo che si rispetti…
Certo, gli appassionati di Benjamin potranno trovare nel Pagani affermazioni di grande giubilo, condite di assordanti superlativi per questo

uomo sfortunatissimo e totalmente sprovvisto di senso pratico, marxista eterodosso e libertario, filosofo atipico e sincopato, indagatore della Modernità capitalista, critico letterario sopraffino, traduttore di Baudelaire e Proust, teorico rivoluzionario molto sui generis, scrittore asistematico ma saggista eccelso, Benjamin era in grado di puntare il cervello su un’impressionante costellazione di temi (…). Dettagli di un identikit che contribuiscono a mettere poco alla volta a fuoco il multiforme ingegno di Benjamin, classe 1892, una delle figure intellettuali più originali, inclassificabili e poliedriche del Novecento, vittima predestinata della barbarie, ma non lo esauriscono. Giudeo errante e senza requie, viaggiatore instancabile, non quel tipo d’uomo che passa attraverso la vita con il mi-nimo sforzo, nomade coatto europeo (…).

Ci si potrebbe accontentare di condividere la stima per un personaggio deceduto come un profugo qualunque e invece ormai riconosciuto in tutto il mondo come pensatore di alto, altissimo rango. Epperò si vorrebbe qualche stimolo tendenzioso. Mentre sulla vexata quaestio materialismo/ebraismo, Pagani risolve senza risolvere parlando di «clamoroso sincretismo», di «abbraccio teoretico», di ibridazione. Mai schierarsi, per carità, trincerandosi dentro la frase fatta che il grande genio «respinge ogni categorizzazione». Perciò, mai rifletterci sopra, meglio offrirlo in modi estroversi all’empatia del lettore.
La parola alla difesa: in fondo si tratta di divulgazione! Il proposito è chiaro fin dall’inizio:

Ma c’è un terzo e ultimo perché di questo libro, una ragione narrativamente sostanziosa e, secondo me, irresistibile: far nascere il desiderio di leggere e rileggere Benjamin attraverso la scoperta che la sua drammatica e densa vita somiglia maledettamente a un film. A un reality che però ha bisogno d’essere riavvolto e proiettato per convincerci, tanto sembra frutto di pura invenzione. Se non ci si mette alla moviola, non ci si crede. Un thriller implacabile e avventuroso in cui se ne vedono di tutti i colori, a ogni latitudine che il protagonista calpesta. Un film privo di lieto fine, però. (…) Moltissimi i personaggi che non vanno affatto pirandellianamente in cerca di Benjamin, ma anzi: si imbattono in lui, grazie alla girandola di occasioni provocate da un girovagare senza requie.

Non è da escludere che il suggerimento cinematografico venga raccolto e a livello molto più “reality” di quanto già esista (L’art de s’égarer). Certo, Benjamin è non solo “romanzabile”, ma per forza anche – lui così appassionato del cinema – “filmabile”. Dopotutto non è altro che il principio della vecchia medicina con il bordo cosparso di miele, trasposto in divulgazione: la narratività invoglia ad avvicinare il difficile. Peccato che, con la troppa abnegazione, il movimento vada ad accontentare il gusto più basso e non riesca più a risalire.

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