La critica di una volta – ma quale?

Su “la Repubblica” del 6/6/2024 è comparsa una intervista al critico americano Daniel Mendelsohn che lamentava il cattivo stato della critica letteraria attuale, ormai diffusa nella rete senza distinzioni di competenze e quindi affatto priva di autorevolezza. «Siamo invasi da critiche, o presunte tali – a domanda risponde l’intervistato, – di persone improvvisate, senza alcuna preparazione accademica. La parola chiave di questa nuova tendenza è self/auto». Non è un discorso nuovo: ma ad avermi colpito è stato il titolo della pagina, a grandi caratteri, “Non esiste più la critica di una volta”, perché mi sono chiesto: quale sarebbe la “critica di una volta”? Ho passato la mia vita di insegnante a spiegare agli studenti che c’erano sempre parecchi metodi in campo, mica uno solo, per cui volevo vederci più chiaro su quale “critica di una volta” qui vertesse il rimpianto.
Ho pensato allora di rivolgermi al libro che Mendelsohn presentava nell’intervista, Estasi e terrore, uscito alcuni mesi fa per le edizioni Einaudi, in modo da capire meglio e di confrontarmi a ragion veduta. Perché anch’io sono convinto della crisi della critica, ma forse non pensando alla stessa cosa…

Ho letto i saggi einaudiani, ma in fondo l’intervista era già sufficiente a collocare Mendelsohn nel novero della posizione grande-umanista, tra “pezzi grossi” come Harold Bloom e George Steiner. Il “critico di una volta”, allora, sarebbe quello qualificato nell’Accademia, un giudice sapiente e severo, dotato di gusto superiore alla media. Chiaro che questa figura oggi è in declino e perde udienza nella confusione di valori del mercato e nella babele delle lingue della rete, al massimo, nei nostri climi, impersonato da una “maschera” come Sgarbi… In Mendelsohn, però, bisogna riconoscere che la nostalgia (l’“elegia per il canone” di Bloom) è temperata dalla brillantezza della scrittura saggistica, sempre ricca di spunti, di continui affioramenti del presente nel passato e viceversa; un comparatismo agile e non solo cronologico, ma anche provocatoriamente rivolto ai media più popolari, come il cinema e la TV. Si va, come dice il sottotitolo, Dai greci a Mad Men.
È utile ricordare la suddivisione del libro: la prima parte, Miti di ieri, segue la specializzazione antichistica dell’autore sui greci e i latini; la seconda, Miti in technicolor, è quella appunto dedicata al mondo delle immagini in movimento e non solo quando (come in Troy) il cinema riprende i temi classici; la terza, Miti d’oggi, mostra l’occhio del critico alle prese con i moderni e contiene anche passaggi autobiografici e una sorta di testo propositivo (Il manifesto di un critico).
Il taglio è quello del saggista, ma l’autore non disdegna lo spunto da recensore nelle valutazioni e pure il gusto della battuta – godibili quelle sulle citazioni a sproposito (dovrebbe fare la conoscenza del ministro Sangiuliano…).
Ora, la stigmatizzazione del degrado presente è condivisibile e più d’una volta negli ultimi tempi mi sono scoperto a scrivere cose simili. Tuttavia, mi sembra opportuno sottolineare accordi e disaccordi.
Sul primo versante, ho apprezzato l’uso che viene fatto dell’insegnamento del passato, soprattutto con la ripresa degli storici greci, Erodoto e Tucidide, come dimostrazione della sorte della protervia imperialista che si ritorce contro la sicumera del potere: le guerre dell’antichità (la spedizione di Serse, Atene nella guerra del Peloponneso) sarebbero un ottimo antidoto alle guerre di oggi, ammesso che se ne volesse imparare la lezione. Buono è anche il saggio contro l’eccesso di memoir (dal titolo eloquente Ma ora basta parlare di me), che sottolinea opportunamente la fine nefasta di molte differenze (e mediazioni), tra privato e pubblico, reale e artificiale, ecc.
Poi, sulla concezione della critica, sottoscrivo quando Mendelsohn, nella sede dell’intervista, dice: «mi sforzo di far subentrare l’intelletto all’istinto» o quando, nel volume einaudiano, dà questa definizione, che oltrepassa i confini dei generi e delle epoche per rendere la critica un atteggiamento di vita:

In fin dei conti il critico è una persona che, quando la sua competenza viene sollecitata dalla curiosità per qualcosa di nuovo nel settore di suo interesse – una serie tv, un film, un’opera lirica, un balletto, un libro –, non vede l’ora di sviscerare quella nuova cosa, di analizzarla, interpretarla, trovarvi un significato.

Come pure collima con tutta la mia attività l’idea, per così dire, pedagogica della critica come spinta a pensare con la propria testa:

L’articolo non serviva solo a spiegare le ragioni del giudizio dell’autrice, ma a dare a te lettore gli strumenti per farti una tua idea della performance descritta. E se anche non eri d’accordo, il loro giudizio restava autorevole, perché si fondava su qualcosa di concreto e di condivisibile, non su «sensazioni» o «impressioni».

E tuttavia, c’è un secondo versante che va in senso opposto al primo. Ad esempio, là dove non ci si affida più all’intelletto e al significato, bensì alla “commozione”, vista come positiva garanzia di valore. Come mai? È chiaro che Mendelshon, da bravo grecista qual è, si riferisce alla catarsi (richiamata anche nel titolo del libro, sebbene al posto dell'”estasi” ci sarebbe dovuta essere la “pietà”); ma la catarsi era un effetto sociale che funzionava in una comunità unita – e unita nel suo strato alto: come si sa, era divisa tra padroni e schiavi. Lungi dall’aggiornare la catarsi, magari sulla falsariga dello straniamento di Brecht, Mendelsohn dimostra in più punti che la sua estetica è proprio ancora quella di Aristotele – e al massimo di Orazio: ovverosia quella fondata sull’unità, l’armonia, la proporzione, l’organicità. Il baricentro di questa critica è dunque spostato molto indietro. Certo, rispetto alla forma buona classica le strutture del consumo appariranno carenti, ma in fondo si tratta solo di caricature a buon mercato, di forme approssimative, di degradazioni plebee delle forme nobili, non di forme alternative. Quella che resta incomprensibile nell’approccio mendelshoniano è l’“opera non organica” (per dirla con Bürger) della modernità radicale. Per altro, dove si affaccia il distinzionismo del giudizio (Croce docet), cerca di qua e cerca di là, alla fin fine anche all’interno di prodotti deteriori si può trovare qualche momento felice. Così, a proposito di A Little Life della Yanagihara, qualificata di un «ammiccante giochetto», si può salvare un personaggio «più riuscito», un momento «toccante» e una certa abilità «nell’evocare una specifica cerchia sociale».
A mio parere, questa figura di critico grande-lettore e grande-giudice malgrado tutto il fascino che può avere, è finita non per caso, ma per una caduta di livello della classe dominante che gli conferiva autorità ufficiale. Una critica che davvero consideri la letteratura come opposta al potere, dovrebbe piuttosto rimpiangere la perdita di “spirito critico” che era insita nella analisi testuale e nella critica dell’ideologia. Non Aristotele, ma Barthes e Benjamin: tutta un’altra critica.

15/07/2024

1 commento su “La critica di una volta – ma quale?”

  1. Molto interessante e… molto d’accordo! Con una classe intellettuale sdraiata al potere e/o ridotta al lume del proprio Narciso è difficile costruire una società intesa ad acquisire e trasmettere alle nuove generazioni quella ‘capacità critica’ indispensabile ad affrontare la vita… AD

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