Meglio tardi che mai

È mai possibile che mi sia perso un autore? Non è che ce ne fossero così tanti in circolazione che consuonassero con le mie corde “sperimentali”… E addirittura dopo averlo sfiorato e magari sfogliato, poi dimenticandolo? E nemmeno uno di quelli a metà strada, ma con tutte le carte in regola? Ebbene sì, è quanto mi è successo con Costantino Chillura.
A leggerlo (rileggerlo?) oggi nel volume complessivo primo delle opere poetiche (Opera poetica I, edito da [dia•foria, casa editrice sempre più benemerita) devo dire che mi sorge non poco rimpianto, perché avrebbe indubbiamente trovato posto convenientemente nelle antologie e nelle iniziative tra anni Ottanta e Novanta. Ma tant’è, non si torna indietro. E bisogna dire, con il titolo che ho scelto, “meglio tardi che mai”. Ora non ci sono più scuse:  possiamo leggere, analizzare e commentare la poesia di Chillura, grazie all’opera critica di Gian Paolo Renello che, dopo aver organizzato nello scorso gennaio un convegno nel paese d’origine dell’autore (S. Stefano Quisquina), è il curatore di questo volume che apre con una preziosa introduzione.

In attesa di allargare il discorso, magari alla pubblicazione degli atti del convegno, penso che la presentazione migliore sia di offrire qualche piccolo campione di testo, magari utilizzando, come marca delle diverse fasi, le raccolte principali.
Comincio dunque con le Notturnerie (1989). Che mostrano lo svolgimento della eredità surrealista, nella convinta pratica della incongruità semantica. Soprattutto stridente nelle specificazioni, nei passaggi da elementi antropomorfi a naturali, dal concreto all’astratto. Per dire: «La bufera pesta il nero lurido dell’occhio»; «Piovono dal cielo gli sbadigli del mare»; «intingi gli artigli dell’impazienza». Un piccolo campione potrebbe esser questo:

Domenica – Tanto meglio svanire!
Dietro l’angolo
Le signore smaniose
Delle nostre chimere
Luminose nel mattino vaneggiano
L’amara dolcezza di naufragare
Nella dolce amarezza del mare

– È il mare vuoto
Il suono impagliato della domenica 

Dove notiamo intanto l’ironia della vaga citazione leopardiana e la maturità tecnica già piena di quel chiasma ossimorico: amara dolcezza / dolce amarezza.
Una seconda fase si può identificare con isuoi, il libro del 1991 condiviso con Mariarosa Di Marco. Qui aumentano i procedimenti sperimentali e saltano subito agli occhi la mancanza della maiuscola dopo il punto e le parole in fine di verso che vengono tagliate per ottenere altre parole al verso sottostante (una sorta di tmesi?). Nello stesso tempo il testo si sbizzarrisce in omofonie e paronomasie, giochi di parole in abbondanza, citazioni più o meno manipolate, ecc. Un brano per rendere l’idea:

abbenta anticchia. metti la lingua ad asciugare.
questa vita può continuare. straniero e nonos
tante. avverbio rabbioso fatto penoso sostantivo.
come in alvernia. dieci anni di ozio forzato.
le cupolette dei manderini sotto il sole
in manicomio, un baraccone da te. un ripos
tiglio distratto. c’è dell’aglio. un tiglio
tagliato. un figlio tigrato. la cruna di un lago.
una bimba negli incendi del cervello. facciamo i
nomi. dicono le cose. dicono gelato. sete di te.

Così da nonostante per spezzatura si ottiene “tante”; da ripostiglio si ottiene “tiglio” e poi da lì a catena “aglio” e “figlio”, “tagliato” e “tigrato”. Poi la “cruna dell’ago” diventa «la cruna di un lago» e il “dicono” ripetuto dà «dicono gelato» (in questo caso con una giunzione invece di un taglio). Mentre “manicomio” e “baraccone” offrono chiavi del tipo di inventiva di questa poesia.
Arrivando a una fase ulteriore troviamo Il libercolo dei transeunti (1999), organizzato secondo una tripartizione seguita in tutti i brani raccolti sotto quel titolo. La struttura mima l’impostazione esegetica di testo/commento/simbolo; solo che, nella sostanza, si tratta sempre della medesima scrittura e ciò smarca dalla elucidazione che pure il senso comune esigerebbe (ma di cosa si parla qui?). Partiamo da un necessario esempio, dal titolo Mezza parola:

C’è poco da fare.

Commento al testo
L’Uomo dei Topi non manca una sola occasione per mancare l’Occasione.
Il Silenzio è abbracciato a un Paradiso che parla e non parla. Comete & Altre Lacrime rigano il Cinema del corpo umano.

Simbolo
Simbolizza l’Identità Continuativa del Silenzio nel momento in cui la Stessa si trasforma in Parola Quasi Sempre Interrotta.

Il testo vero è proprio è brevissimo, decisamente laconico e addirittura deprimente. Il commento comunica incertezza e anzi una beckettiana vocazione al fallimento. Il simbolo poi si richiama all’interruzione. Sembra davvero il punto d’arrivo di questa ricerca, dove ogni passaggio e addirittura ogni frase genera sorpresa e apre in direzioni impreviste.
In tutto ciò dov’è l’io, questo feticcio inamovibile della poesia d’oggi? Di io ce n’è poco e – scusate il paradosso – proprio perché ce n’è molto. Per essere il soggetto della scrittura non può far altro che attenersi a una procedura impersonale. A dire il vero, l’io appare in alcuni margini dell’opera, ma è per dichiarare lo svuotamento e l’erranza. Si dichiarerà «acchiappanuvole» e si assumerà il peso del proprio stesso umorismo («me la rido di me – così imparo»). Forse è proprio questa volontà di divergenza spinta fino all’autocritica e votata al “piccolo” escludendo ogni maiuscola, a produrre l’esito dell’inosservato.
Ecco come si esprime l’autore in un testo breve datato 2015:

Le cartelle cliniche
che mi descrivono
sono più eloquenti
sul mio conto
delle sia pure intelligenti
cartelle critiche
che mi riguardano.

Ma la critica, tuttavia, che finora ha fatto poco, dovrà darsi da fare di più. Me lo auguro.

13/06/2024

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