I “lupopesci” di Lentini

È uscito un nuovo libro di Alfonso Lentini, autore passato attraverso la Terza Ondata e ora operante in una zona franca di scrittura fantastico-onirico-magica praticata con molta ironia. Il nuovo libro s’intitola Noi siamo i lupopesci ed è pubblicato dalle edizioni pièdimosca nella collana diretta da Carlo Sperduti.
Il libro, che raccoglie pezzi molto brevi, raramente superiori allo spazio di una pagina, è diviso in 4 sezioni: la prima (Scale) è percorsa da un buffo spirito di elevazione che coinvolge un’intera famiglia, dai propinqui agli antenati; la seconda (Del dormire) esplora le esperienze dell’altra metà dell’esistenza; la terza è dedicata ai Nani di mente che credono soltanto in quello che vedono (e quindi, in fondo, siamo noi); la quarta insiste sul quotidiano deformato-contraddittorio e si chiude con un Viaggio sulla Luna (che dà il titolo alla sezione) percorso al contrario, cioè scendendo al «centro della Terra». Tutte prospettive comunque molto vicine e convergenti nella creazione di “mondi impossibili”.

La prima cosa da dire, anche in questo caso, è il “portento del frammento”: la costruzione dell’ipertesto formato da pezzi brevi e brevissimi è quanto di meglio ci sia per evitare le melensaggini narrative, i riempitivi, gli stantii effetti di trama. Per quanto qualche filo leghi le tessere (in particolare nella prima parte) è proprio della scrittura onirica esigere che non ci siano basi stabilite e voler ogni volta ricominciare da capo.
Il testo di Lentini vive (e si diverte) in perenne stato di alterazione: vi si può incontrare l’invisibile (la nipotina di 3 anni della prima parte), l’impossibile («Oggi è l’impossibile giornata dell’impossibile partenza»), nonché, ovviamente l’incongruo, la mésalliance dei componenti che dà luogo a improbabili elenchi («Scorrono download, swrxztkjzerie, juvzx, spermatozoi, ali di fagiano. Pescecani plastificati. Mitragliatrici trasparenti»). Con esiti come questo:

Girati adagio verso la parete rocciosa e vedrai comparire i tuoi occhi. Quei tuoi chi consumati negli specchi e nel sonno. Guardiamoli insieme questi tuoi occhi. Sono decolorati, sgualciti. Ma come li tratti. Tienili in tasca se proprio non vuoi usarli. Conservali nel cassetto del comodino. La garanzia è scaduta; se si rompono, il salumiere non te li cambia più.

Le mescolanze e le metamorfosi sono all’ordine del giorno. Come si vede dal titolo dei lupopesci c’è una passione per l’ibrido che va anche oltre, trasgredendo i confini tra astratto e concreto, natura e cultura. Cose del tipo: «La neve esitava ma formava valanghe se aprivi gli armadi. I cassetti esalavano nebbie»; oppure: «Si cibava di ginnastica ritmica. Beveva carta geografica». Ci possono essere «oggetti semivivi» e in fondo una forma di ibridazione sono anche i nomi dei personaggi femminili formati dal nome Anna più un altro nome (Annalucignola, Annalunetta, Annagreta, Annagiuditta e via inventariando). Ma oltre al ricalco («fragolacciocca») agisce potentemente anche il controsenso («Se non hai niente da aggiungere, aggiungi. Se non hai niente da mangiare, mangia. Se non hai più memoria, ricorda»), la sorpresa («Piantando dita crescono matite. Piantando piedi crescono ventagli. Piantando occhi crescono capelli»), e inoltre: la citazione, dove si incontrano una siepe leopardiana, una gozzaniana amica Speranza e una casina di cristallo evidentemente palazzeschiana; né, infine, manca il calembour (il nano di mente, la casa d’intolleranza). L’effetto è esilarante, ma non manca di spunti polemici, ad esempio antiantropocentrici («Che presto spariremo, dicono le voci parlando di noi»).
Una mossa stilistica frequente è la ripetizione di una frase-guida. Vedi questo caso, In cammino:

Perdeva pezzi. A ogni passo crollavano pezzi. Pezzi di dita, pezzi di lingua. Da una tasca volò via una cattedrale gotica. Un pezzo di cioccolato gli cadde pesantemente dalle mani bucando il suolo, un pezzo di matita rotolò sul marciapiede. Perdeva chiodi, ruote, peli, muschio. Perdeva parole dal naso, dai piedi. Perdeva luce. Vado via, ci disse. È finito il mio turno. Ora vado.

(Ed è proprio un pezzo sui pezzi, niente male).
Il tono è un po’ simile al realismo magico, nel senso che tutto il sorprendente avviene nell’atmosfera tranquilla della quotidianità. Non a caso il libro si apre con la galleria di ritratti di una bizzarra famiglia. Ma non sarà che (Freud docet) proprio nel familiare risiede l’inquietante? Leggiamo il brano di apertura:

Mio figlio abita nei pianerottoli fra una scala e l’altra. Sale e scende scale senza mai fermarsi. Ogni tanto esce da un condominio ed entra in un altro per abitare pianerottoli sempre nuovi. Non sta mai fermo. Sempre su e giù. Il suo divertimento è salire e scendere scale.
Se per caso si imbatte in una donna delle pulizie o in un elettricista non li saluta neanche. Scappa via a occhi bassi guardandosi la punta di quei piedi tamburellanti e cerca riparo nelle cassette dei contatori. Siamo a Palermo, non piove da almeno tre anni. Per dissetarsi, mio figlio beve polvere.

Se lo confrontiamo con l’Odradek di Kafka, vediamo che abitano ambedue i pianerottoli ma qui il personaggio è umano (mentre quello kafkiano è uno strano rocchetto sbilenco) ed anzi è il figlio dell’io narrante (mentre là era proprio al contrario la preoccupazione del padre di famiglia). Normalizzazione (come direbbe Barilli)? Direi che il punto è la situazione storica: per un verso infatti si eredita la tradizione surrealista dell’onirico alternativo («Attorcigliarsi nel sonno è gesto anarchico, anticapitalista»), però senza alcuna certezza di un risultato rivoluzionario o utopistico, anzi, «sognano tutti nel sonno, senza speranza alcuna». Rimane una sorta di “vocazione all’alternativa”, alla quale si è costretti ad ubbidire. Quando l’io del testo pronuncia il suo auspicio «Ti auguro di restare incomprensibile», è rivolto al tu del lettore, ma prima ancora allo stesso autore. E Lentini, praticando il divertimento proprio nel senso del divertere, cioè del deviare, lo ottempera al meglio.

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