PATRIZIA VICINELLI

à, a. A, di Patrizia Vicinelli

Patrizia Vicinelli incrocia il percorso del Gruppo 63 più o meno alla metà: nel 1966 partecipa al convegno di La Spezia con una lettura che riscuote un certo successo. Sue collaborazioni risultano su “Malebolge”, “Marcatré” e “Quindici”. In un periodo in rapida evoluzione, la sua poesia rappresenta una sorta di coda nella vicenda della neoavanguardia. L’autrice è infatti in quel momento molto giovane, di una generazione successiva rispetto agli “sperimentali” e infatti sembra recuperare l’impatto diretto delle prime avanguardie, rispetto alle strategie sotterranee del laboratorio. Lo dimostra anche il legame con uno “zio” come Emilio Villa, rimasto fuori del gruppo (il primo libro è dedicato proprio a lui) e al contempo un più stretto rapporto tra vita e arte. Il testo di Patrizia Vicinelli è votato alla performance, punta su una carica energetica esplosiva, attivata su tutti i versanti dal sonoro al visuale. Il tutto mentre il clima politico si va surriscaldando in prossimità del Sessantotto.
Il suo libro con quello stranissimo titolo di à, a. A, (vi potremmo intendere proprio una diversa pronuncia della stessa vocale) viene pubblicato da Lerici nel 1967; comprende testi datati dal 1963 in poi e anche tavole verbovisive, con lettere e parole fluttuanti disperse nello spazio della pagina. Ecco un esempio:

Vicinelli tavola_0001

E ci sono anche effetti ottenuti attraverso la macchina da scrivere e inserti di scrittura a mano. Nelle stesse parti più lineari il testo è dislocato con molti spostamenti nello spazio della pagina.
Particolarmente interessanti sono i testi di apertura, forse gli ultimi ad essere scritti. Qui si intensificano le operazioni sul significante, mediante l’uso di parentesi e di maiuscole. Tutto il primo pezzo è impostato sul “ve(n)do” che quindi interseca la visione e la visionarietà (e ricorda l’“I saw” dell’Howl ginsberghiano) con la banalità della vendita e potrebbe riguardare con ciò una certa autoironia verso la stessa esibizione della performance. E poi vediamo le “cosescritte” che diventano “coscritte” e le maiuscole che lavorano dentro le parole-valigia: “FORNIreindiCAZIONI”; IMPASTO(r)occhiARE e molte altre.
Il problema sembra essere non tanto quello della contestazione della lingua-merce, ma quello della massima espressione individuale. Solo che questo punto altro, focale, bruciante, può essere attinto solo attraverso il massimo disordine. Si veda anche l’ultimo testo della raccolta, pieno di spezzature («per foran / do la terra s’addol / cisce il pen / denteda staghone») e tendente al balbettio («bà bà bà – baba-baba bà-barà-baba- , bàra»). In tale contesto, l’io viene convocato, per forza, e magari nei suoi rimbalzi più impegnativi («dio-mio-io»), ma per essere travolto nella sua stessa confusione: magari sarà al maschile («mi // sono fatto una-salda-posizione-spirituale»), oppure citerà il nome proprio, però come una seconda persona («allora patrizia vieni»), o ancora sarà disseminato nelle rime a eco («per esem pío ab ini tío fago cit ío»).
L’istanza individuale (anarchica) è in contrasto con la sua stessa esposizione, con la “recita” come compare detto all’inizio («la cosa migliore è recitare un altro è me / stessa»). Già nei testi del 1963 l’interiorità si svolge in sensazioni corporee accompagnate da strane colorazioni:

arrotolarmi nel buio sprizzare sulla parete luce mi cede
viso sulla candela mano sulla candela bianco di candela
cripta blu messaggio blu sul fondale i suoni come trottola
anodina mi restringo e mi pelopulso e compulso

Il procedimento è in qualche modo contraddittorio: «se mi lacero – era un giorno di settembre – se mi guarisco»; proprio come le due direzioni dell’agglutinazione e della separazione delle parole. I frammenti di questo vortice mentale-corporeo vengono trascinati in un flusso poematico che riprende di volta in volta. Il risultato costeggia le soluzioni semantiche dell’incongruo:

se ne va saltellando da strana la cometa che
non si fermerà coi perenni attributi ha conquistato

la sua rovina sulla rocca ma almeno là
coi prati nella nausea questa la sua nausea

gli odori umorali si danno al movimento
il goffo si è sparso sulla guancia

a forza di essere mancato
incatena il suo dito nell’oro perché si veda

il dito non ha la differenza
fra il gatto quello e il gatto

E anche insorge nell’invocazione che potrebbe leggersi come grido:

AH! Virgulto bruciato da senilità precoce
AH! Svenevole follia
AH!

Una iniezione di fiducia nell’avanguardia? Di certo una forma di ex-pressione, proprio nel senso di un linguaggio spinto e alterato da una forza prorompente che non può dirsi in termini “normali” e “normati”. L’espressione del disaccordo: «decisamente in disac(cor)do» come dice la pagina di apertura.