Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene
In sostanziale autonomia rispetto al romanzo sperimentale (i rapporti con il Gruppo 63 risultano marginali e sporadici: ricordo un articolo su “Quindici” n. 2 e poco altro), tuttavia Carmelo Bene, oltre che punta di diamante del Nuovo Teatro coevo alla neoavanguardia, è anche attivo all’epoca nel campo della narrativa. Nostra signora dei turchi, realizzato anche in teatro e successivamente divenuto film, nasce infatti come romanzo e come romanzo decisamente anomalo e sprezzante delle norme di genere. È vero che sussiste un personaggio centrale (ma di quello parlerò dopo) e uno scenario localizzabile, quello di Otranto, dotato di un palazzo moresco – che però di suo sta a Santa Cesarea… Otranto è necessaria per fornire la base storica del martirio degli 800 trucidati dai turchi («furono giustiziati, decapitati o impalati, sono martiri della fede»), solo che adesso gli spietati invasori si limitano a sorvegliare stancamente il paese e la faccenda pare ridursi, in vertiginosa attualizzazione, alle beghe turistiche degli enti locali.
Il motivo del martirio si innerva nel testo in vari riferimenti religiosi, nella presenza assillante della Santa (Margherita) o nello sproloquio del frate cuciniere («perché i frati cucinano bene»), ma il fatto è che in questo testo nessun tema “alto”, così come nessuno stile “alto” (neanche quello tardo-simbolista che pure Bene intona spesso qui e altrove), può resistere senza essere contraffatto, demistificato e infine abbattuto. La parodia è sovrana. Ed ecco che la Santa, subito dopo le sue perorazioni e l’elargizione del perdono, la troviamo «a letto, tra le lenzuola, coperta fino al collo e fumava sfogliando una rivista femminile». La figura della Santa finisce fuori del misticismo per incarnare (è il caso di usare questo termine, qui) l’atteggiamento materno-oppressivo, un accudimento ricattatorio pieno di rimostranze: «Quando torni non so se mi ritrovi!»; e: «Per te, per te ho lasciato un paradiso!» – un po’ come il rapporto della fata con Pinocchio, tant’è che all’autore gli scappa un paio di volte di chiamarla proprio la “fata”. La controparte femminile è destinata a moltiplicarsi: sia con il camuffamento in una compagna, si presume, perduta, sia con la sostituzione con la figura erotica più disponibile della serva bambina, culminante in un amplesso piuttosto degradato tra le materie della cucina («seno e viso annegati nella brodaglia del lavabo»).
Insomma, si può dire che Nostra signora dei turchi sia la storia di un martirio impossibile e quindi di una redenzione fallita. Per quanto il personaggio maschile si trovi perennemente bendato, ferito, sanguinante, soggetto a cadute e vacillamenti, l’elevazione è mancata o si conclude nello «sfacelo fisico». E così come il martirio, anche il rito è impossibile (visto «l’insuccesso dei suoi tentativi»). L’unico rito esperibile è il rito laico del teatro, e quello ovviamente è lo specifico dell’autore: la prova allo specchio, il trucco, il copione, il trovarobato scenico, ecc. O, ancora, lo sdoppiamento: quello con il morto nella partita a carte o quello con il frate, accentuato quest’ultimo nella versione cinematografica dove Carmelo entra ed esce dal personaggio abbassando la barba o cambiando la voce in una eccezionale performance. Le stesse battute, più che funzionare in dialogo, stanno scomposte e sgangherate nell’amalgama del testo. E non mancano memorabili espressioni comiche: «la gente come noi si coniuga non si declina»; o: «Firenze non fu mai una repubblica marinara, tutto qui». Come memorabile è la sentenza che sigla l’equazione tra santità e idiozia: «Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. / Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai».
Un carattere fondante di questo romanzo-antiromanzo è che si pesta i piedi di continuo. Facilmente l’azione viene smentita con una negazione del tipo «Quella costruzione era un sunto di storia, oppure no»; «Gli sembrò che lo additassero o no». Del resto l’azzeramento è posto volutamente all’inizio del testo: «Flora, vestiti e vattene! Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata», frase che si ripete alla fine del libro, sottolineando in tal modo la circolarità e l’inconcludenza (e riecheggia il finale del Molloy di Beckett: «È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva»).
Sì, perché – pur prendendo corpo qua e là degli episodi o degli abbozzi possibili, per dire: la partenza con le valige, il cavaliere con l’armatura, ecc. – la narrazione in quanto tale sembra sempre allo stesso punto condannata alla ripetizione. Si veda il passo del lancio del passaporto (allude alla perdita di identità?):
Si strappava dal fondo della tasca il passaporto e lo buttava dalla finestra. Era incredibile, ma, quasi simultaneamente, correva giù per le scale a raccattarlo sul selciato. E, tornato al balcone, lo gettava in strada ancora una volta, e ancora una volta si precipitava a riprenderlo. E questo per una infinità di volte. Risolveva, grondante, di decidere a sorte la partita, sfidare il collasso che poteva incantarlo o nell’atto di defenestrare l’oggetto o al momento del recupero. Il più delle volte le forze gli mancavano sempre un attimo dopo il recupero. Talvolta gli accadeva che l’oggetto non oltrepassasse il balcone, trattenuto magari dall’inferriata. E lui, comunque risoluto a ignorare la propria maldestrezza, si precipitava per le scale, frugava dappertutto, in strada, oltre la siepe, fino a che, vista vana ogni ricerca, si disperava fino a mettersi a piangere. Fortuna che ritornava al balcone per buttarcisi anche lui e rinveniva così il suo documento, addirittura posato sulla balaustrata. Allora lo chiudeva in un cassetto, ma sotto chiave.
Fatalmente ogni slancio e ogni enfasi prevista dal copione subisce un abbassamento drastico. Tale funzione assolve, tra le altre cose, il siparietto dell’editore che, non appena ricevuta una richiesta di anticipo, comincia a balbettare scuse e accampare perplessità perfino sulla tenuta dell’opera («Chi ci dice che finirete il libro?»). Ma vediamo anche quest’altro passo dove la contraddittorietà stilistica appare come una consapevole distruzione del Senso con la maiuscola (e torna infatti il motivo del “cretino”):
Non più complessato, arrivava così fino a sentirsi vittima, perseguitata dal proprio complesso, ma eroica, sfidante, che si arroccava in invettive come: «Con te non parlo più!» o «Non è affar mio!» ed altro del genere, fino all’esuberanza e all’entusiasmo. Nemmeno un elisir, nessuna droga al mondo avrebbe potuto decentrarlo a tal punto da nascondergli i limiti Se avesse cercato qualcosa, gli sarebbe stato facile trovarne il surrogato, sostituire al volume l’idea di volume. Sapeva che la dialettica è un arrangiamento, tanto più lontano dal concetto di «utilità» in nome del quale l’esposizione comincia dove uno smette di cercare. Si rinuncia e ci si amplifica. Aveva rinunciato a esporsi e anche a esprimersi. Aveva rinunciato a rinunciare. Per questo ancora scambiava per polemica la propria esuberanza. Ma che tutto quadrasse o non quadrasse, sarebbe infine diventato cretino. Come una festa nazionale. O un cretino autentico. E a ciò si prodigava con un entusiasmo che solo in banca ti saprebbero tradurre.
Il testo è scritto alla terza persona attorno a un personaggio senza nome in stato di degrado fisio-psichico, ma si potrebbe definire monodialogico, in quanto impasta al suo interno tutta una serie di voci scoordinate e isteriche. Nostra signora dei turchi è un testo dell’instabilità e dell’impaccio.