Nell’anno con il 3: “Le donne matte” di Furio Colombo

Più noto forse come giornalista, Furio Colombo è anche autore di romanzi e come tale ha fatto parte del Gruppo 63, partecipando ai convegni, nonché sostenendo, anche a distanza di tempo, la stagione della neoavanguardia. Un brano del suo romanzo Le donne matte era compreso nella antologia fondativa del Gruppo.

Le donne matte di Furio Colombo

Le donne matte, uscito da Feltrinelli nel 1964, reca in fondo la data di stesura finita nel maggio 1963. È dunque da considerarsi precedente al convegno palermitano del Gruppo e tuttavia è già pienamente partecipe dello spirito della stagione sperimentale. Lo si potrebbe definire un romanzo dell’alienazione, vista nel suo stadio avanzato dall’osservatorio dell’America, di cui già all’epoca Colombo era profondo conoscitore, ma piuttosto diverso da un precedente come La noia di Moravia. Non solo il romanzo – come si vedrà – perde il suo ordine, per così dire, “sinfonico”, ma la questione centrale del rapporto di coppia viene di continuo attraversata dalla storia e dai suoi guasti, il ricordo ancora forte della Guerra mondiale (i “tedeschi” che tornano negli incubi), il Vietnam, e la recente crisi dei missili a Cuba, con la voce stessa di Kennedy che si inserisce direttamente tra quelle dei personaggi.

Guardando complessivamente si può attribuire il romanzo di Colombo alla linea “fenomenologica” del romanzo sperimentale, influenzata dalla école du regard e impostata sulla visuale dall’esterno a prevalenza descrittiva, rimarcata dal ritmo dei “c’è…” e “si vede…”. La passione per la fotografia di Mery, il personaggio principale, avvalora questa ipotesi. Basteranno un paio di esempi significativi:

Vi sono case di pietra grigia o di pietra rossa in cui si entra scendendo una piccola scala. Davanti, fra il marciapiede e la casa, c’è sempre un cancello. Di qua, dove noi camminiamo, è un ostacolo basso, che non protegge. Di là è più profondo perché c’è un dislivello. Perciò un vecchio per appoggiarsi deve tenere le braccia più in alto e arriva appena, con un po’ di fatica, a mettere il mento sulle mani accostate. Certo è più scomodo perché ha messo un cuscino fra le braccia e la balaustra di ferro, e si vedono, almeno da un lato, i colori di un ricamo sbiadito.

E anche questa scena di un incidente:

All’incrocio del Santa Monica Boulevard con la Ciniega Avenue, una piccola Alpine rossa, noleggiata, sbanda, salta sulle rotaie del treno, urta contro un pilone e si rimette sul viale. Ma lo sportello, appena ammaccato, si è aperto, e una persona è caduta battendo la testa. La gente viene a vedere in silenzio, si ricorda che stavano tutti a vedere in silenzio. Uno anzi strappò il filo del clacson e ci fu più silenzio. Camminando lentamente, con un po’ di fatica, benché non fosse ferito, trovò una cabina del telefono, addirittura due isolati più avanti, e poté fare ogni gesto con molta lucidità. Ma prima che avesse deposto il ricevitore sentì le sirene, dal vetro smerigliato della cabina vide un movimento di fari e di ombre. Quando ritorna non c’è che la striscia di una lunga frenata e poche gocce nerastre che possono benissimo essere d’olio. Cammina lì intorno toccandosi il viso, mentre la gente lo osserva. Per tutta la larghezza della strada, uomini vengono avanti con le braccia un po’ aperte.

Come si vede anche da questi brani, non c’è solo l’oggettività esteriore, ma si sovrappongono anche dei particolari che appartengono alla soggettività e alla interpretazione del comportamento. Subito dopo l’episodio dell’incidente c’è una riunione «intorno al tavolo» nella quale ciascuno dei personaggi racconta una storia o uno spezzone di storia: e qui non mancano obiezioni quando viene inserito un elemento interpretativo («una delle ragazze ha il mal di testa»; l’uditorio replica: «il mal di testa non si vede»; e più avanti: «Ehi, fermati, Mary, niente interpretazioni, pronto? Le interpretazioni non si vedono, le interpretazioni non contano»). Ma proprio questo ironico riferimento a una sorta di normativa comportamentistica dimostra che non è possibile raccontare senza infrangerla…
Per di più lo sperimentalismo di Furio Colombo non sta tanto nell’oggettivismo visivo, quanto soprattutto nella rottura della linearità. La storia va a sbalzi, i dati sui personaggi e i loro rapporti sono frammentari, il racconto è slegato e la sua cronologia è mescolata e inestricabile. Ancora: i dialoghi sono scompensati, le voci più che domandare e rispondere sono giustapposte come se ciascuno dicesse la propria battuta davanti a un registratore. Lo stesso assetto grammaticale è soggetto a slittamenti: il testo comincia rivolgendosi a un “tu” che poi diventa con ogni probabilità il personaggio di Mary. Un altro passaggio frequente è quello tra tempo passato e presente, lo abbiamo visto nel brano dell’incidente prima citato: l’auto “sbanda.. salta… urta”; poi “strappò… trovò… sentì”; per riprendere con “ritorna… cammina… vengono avanti”. In altri casi il passaggio temporale corrisponde a un cambio di scena:

Gli uomini alzando la testa (hanno grossi legamenti nel collo e piccoli crani) vedono casse arrivare dall’alto, appese alle corde degli argani. Le casse scendono con movimenti rozzi e imperfetti, sbattono da una parte e dall’altra, sbattono sulle fiancate. Gli uomini con le gambe aperte e le braccia in difesa si tengono pronti spostandosi a piccoli salti, cercando di sapere per tempo dove va a finire la cassa. Vi sono moltissime casse piene di merce.
La nostra stanza era vuota. C’era il segno di un tappeto non grande sul pavimento, e contro il muro una riga, dove mettevamo le sedie. Dietro lo scaffale si era disegnata una grata, benché in poco tempo, con spazi più bianchi e più scuri. Stranamente, nell’intonaco rotto c’era un filo di paglia.

Si dirà che l’abrasione della partecipazione sentimentale, compresa la confusione e l’incertezza temporale, è proprio la sottolineatura di un disagio esistenziale. Ed emergono infatti nel libro i temi della sofferenza: uno scenario ricorrente è quello della clinica, una parte importante è connessa al processo del marito di Mary, scrittore in crisi e reduce dal Vietnam, accusato di intesa con il nemico. Lo stesso titolo, Le donne matte, allude alla patologia mentale, a un blocco dell’affettività e a un’inquietudine montante («Comincia l’inquietudine»; poco più avanti: «l’inquietudine cresce»), che corrisponde al vuoto profondo. Il problema però è che questo stato non è propriamente narrabile, proprio perché “vuoto”. L’unica rappresentazione possibile è esattamente la crisi dello scrittore, o meglio la crisi della scrittura. Non a caso abbondano, nel corso del testo, le carte strappate, i fogli buttati via («stringeva il foglio nel pugno e lo buttava sul pavimento»), le pagine illeggibili («L’umido aveva rovinato o incollato le pagine che non erano sempre leggibili») o sconsolatamente bianche («le sue pagine restavano intatte»).
Nell’andamento sussultorio (quasi onirico) si insinuano scene ricorrenti che sono quasi delle mini-allegorie: così la corrida, con il sangue colante del toro; oppure il linguaggio delle api, la cui precisione pratica fa da contrasto con l’ambiguità e l’incomunicabilità del linguaggio umano.
Su tutto il libro, grazie all’ambientazione statunitense, incombe la pesantezza del capitalismo. Ecco, ad esempio, la scena della banca con il conteggio del denaro:

Ho visto una volta una persona così, e la ascoltavo per ore fornire i dettagli di un lavoro amministrativo, come un Lama o un Budda, un uomo di saggezza suprema, nell’ambito di una intelligenza liscia, media, diritta, un uomo che tocca una banconota (ma anche un assegno, un ordine, un pagherò), la guarda e la ama in proporzione al suo valore economico, senza il più piccolo scarto sentimentale, la passa nella pratica giusta evitando di spiegazzarla, la possiede, la versa sul conto di cui conosce esattamente il meccanismo di convenienza e interessi.

Oppure il profluvio delle merci, nelle casse scaricate, di cui abbiamo visto la parte finale in una citazione precedente. Dunque il romanzo attraverso l’analisi delle difficoltà dei rapporti interpersonali indaga i limiti della concezione quantitativa del mondo: residui ne sono i corpi (che non possono essere aiutati da asettiche cure mediche) e i segni (che continuano a cercare il senso, però senza incontro e senza ordine).

17/05/2023

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