Del Gruppo 63 hanno fatto parte anche gli autori attivi sulla rivista “Malebolge”, i cosiddetti parasurrealisti, tra i quali, insieme ad Adriano Spatola, era anche Giorgio Celli. Competenze scientifiche e interessi psicoanalitici innervano il suo romanzo sperimentale Il parafossile.
Il parafossile di Giorgio Celli
Il parafossile esce nel 1967 da Feltrinelli. Era stato tenuto a battesimo nel numero 2 di “Malebolge” (inverno 1964) con l’anticipazione del capitolo I e parte del IV (il titolo, esiodeo, Le opere e i giorni, andrà poi a intestare l’ultimo capitolo della edizione definitiva).
Qualche anno prima già L’oblò di Spatola aveva dato l’idea di quello che poteva essere un romanzo parasurrealista. Si trattava di conseguire la massima libertà narrativa insieme a una scrittura elaborata ed eterogenea, analoga alla complessità della poesia. Così nel Parafossile gli elementi di una realtà riconoscibile (o “mondo possibile”) vengono alterati di continuo, sia nelle coordinate temporali (si inizia dopo la guerra, «era tornato»…, poi però compare il lager nazista), sia riguardo al personaggio, sempre in bilico di venir scambiato con il fratello gemello, una sorta di doppio che accompagna tutta una serie di inversioni speculari dei ruoli attanziali (dell’attivo e del passivo, del buono e del cattivo, ecc.). L’instabilità domina anche lo scenario che slitta dalla clinica e dal tavolo operatorio al lager (con tanto di Adolf), alla camera della tortura (con la pressione a “confessare”), al tribunale con l’apporto dell’avvocato difensore, all’officina dei robot.
Mentre il surrealismo francese aveva abbandonato il romanzo per rimanere alla registrazione dei sogni o delle esperienze “magiche”, il parasurrealismo italiano affronta il problema-finzione puntando, nel caso di Celli, con l’ausilio si psicoanalisi junghiana, a estrapolare gli archetipi e i miti, discendendo – molti sono i movimenti verso il basso, compresa una metropoli sotterranea posta a rovescio, attaccata con le radici in alto, la «città fossile» – discendendo, dicevo, verso i meandri della violenza primigenia, con le sfumature del sacrificio e del sacro. La regressione è la cifra del testo, come si vede anche dai titoli dei capitoli che di regressioni ne contano ben tre. Si canta come una nenia: regredisci, regredisci,
“all’antropoide al rettile all’uccello / regredisci / alle branchie (di pesce) laterali! / regredisci / al cuore bicavo all’encefalo / di cinque territori al rene acquatico / regredisci / alla strutturazione invertebrata / regredisci / ripassa l’allantoide e i cosmogonici / miti: (accensioni d’eoceni psichici) / segmentazione / morula / blastula / amnios: universo d’alluvioni e d’isole / centro dei mutamenti planetari / regredisci! / Segmentazione / morula / blastula /! passa le glaciazioni quaternarie / scendi dentro le viscere oceaniche / brucia dentro le lave geologiche / regredisci! / (mi pareva già d’essere una cellula!)”
Il riconoscimento della violenza come fondamento dei rapporti umani e del sopruso dell’uomo sull’uomo (dell’addomesticamento del simile) come base della società sono il punto cruciale che sembra dissolvere la nozione di progresso (e con esso la spinta della letteratura impegnata ancora in corso all’epoca). È il testo stesso a parodiare le possibili obiezioni, in un capitolo metanarrativo (il XIV, L’incubo ideologico), facendole rivolgere da una sorta di funzionario censore che, tra indice puntato e melliflue moine («Ma caro ragazzo! Caro ragazzo!»), rimprovera il punto di vista «irrelato in una atemporale dimensione mitico-metafisica».
Rispetto al precedente dell’Oblò, troviamo meno erotismo, ma più crudeltà. Il tema del corpo, ovviamente centrale, è declinato nel senso della mutazione:
Sapevo che il suo alito apriva dei buchi nella carne del mio collo, faceva nascere delle verdi vegetazioni nella carne del mio collo, e il mio collo si ispessiva, si raggrinziva secondo linee di minima resistenza, si spaccava a frange nere come terra secca, argilla brucata dagli zenith, percorsa dalle estatiche progressioni solari., equinozi!
Oppure perseguito nell’ottica microscopica delle cellule:
Sollevai (c’erano, vi dico) un lembo dello strato corticale (mentre stavo per coricarmi) e le vidi, semiaffondate nel diencefalo; nere cellule flagelli biblici reversioni al caos, rivolta delle sorgenti di proliferazioni delle cose animate, dissoluzioni, reti, sabbie mobili per i pensieri i ricordi (vi affondavano!) fango nero di costellazioni discendenti livelli di entropia sempre più generale ove il tempo misura il battito delle specie morenti nel catino di sangue delle Madri. Alcune cellule presentavano ramificazioni graziose, verdi, muffe archeologiche sulla stele funeraria della mia progenitura; altre erano sfatte, mollicce al centro, occhi d’incubi sepolti in una bara di selenio (gridavo, gridavo).
Dominano, come accennavo, gli episodi di tortura, in cui va alla grande lo scambio tra torturatore e torturato, a colpire l’identificazione stessa del personaggio; un capitolo riguarda l’esecuzione del soldato disertore che si è spogliato dell’uniforme; altrove s’accampa la figura del boia, protagonista di una deliziosa ballata (in doppi settenari) nel corso del dialogo con il pianista; cito solo l’inizio (ma anche il seguito meriterebbe):
ballata del boia e delle rose // voce (da fuori) per un tentativo onirico di definizione del boia. // (musica): // Il boia, nelle sere di maggio, ha il batticuore // sfoglia nei sotterranei le rose dell’amore // le rose che ogni giorno sacrifica alla storia // maggio, mese dei fiori, febbre allucinatoria
A proposito di dialogo: il testo ne è fittamente pieno (il capitolo del disertore, l’VIII, è in forma teatrale; e del resto il teatro di Celli ha riempito un volume assai grande), tuttavia l’incorporazione degli opposti fa sì che abbia sempre qualcosa di schizoide. In ogni caso, il soggetto recalcitrante, alla fine, viene trasformato nell’invincibile guerriero sterilizzato e il testo va verso la conclusione con una litania enumerativa davvero inquietante dove ad ogni termine viene intercalata la parola “guerra”:
“La vita è la guerra (antica e sacrale: la guerra!) la guerra l’aratura festosa la guerra la semina la guerra la gaia mietitura la guerra il dolce ozio dopo la vendemmia la guerra la nascita di un vitello la guerra il crepuscolo dell’operosa giornata la guerra l’alba rosata la guerra di nuovo la semina la semina della guerra la nascita della guerra la fine della guerra l’alba color rosa la guerra l’altoforno la guerra la fabbrica d’automobili la guerra la banca la guerra la messa la guerra le carte carbosiderurgiche la guerra i buoni del tesoro la guerra i pacchetti azionari la guerra la fisica teorica la guerra la psicologia la guerra la fissione nucleare la guerra gli antibiotici la guerra le colture batteriche la guerra la geometria euclidea la guerra la geometria non euclidea la guerra la metafisica la guerra l’incremento demografico la guerra il potere la guerra l’amore la guerra l’edilizia la guerra la gomma la guerra il petrolio la guerra l’astronautica la guerra la pazzia la guerra l’igiene la guerra la pace la guerra le molecole giganti la guerra il folclore nazionale la guerra gli afrodisiaci la guerra la scienza la guerra”
Se ogni testo di ascendenza surrealista deve avere qualcosa di onirico, nel Parafossile prevale l’incubo della storia, una sorta di maledizione antropologica: è l’uomo stesso ad essere talmente radicato nella violenza istintiva da rimanere arcaico, una specie di “fossile”, un parafossile, appunto. Ecco quindi la rielaborazione del mito, quello di Edipo in particolare, o le riscritture evangeliche del “figliol prodigo” e del “vangelo secondo Giuda”. Mentre a introdurre ironicamente l’attualità intervengono alcuni stacchetti pubblicitari in rima (del tipo: «Bevete Golcondo / il bitter del mondo»).
E lo stile? Quella di Celli è una scrittura in metamorfosi, che mescola il linguaggio scientifico con quello letterario. Un esempio per terminare, ancora attorno al tema del corpo:
Si incrostava, il suo corpo, seminato di schegge di obice germoglianti, si riempiva, negli anfratti, negli orifizi, di vegetazioni siliciche, di fosfori calcarei, e il cordone ombelicale cresceva, si interrava, gemmava tentacoli, scendeva nelle falde freatiche, circolava con i fiumi sotterranei, riappariva, come un polipo afflosciato, nelle sorgenti, anche quelle termali (radioattive ?). Uscito, alla luce, sotto il sole implacabile del radium, si rapprendeva in strisce bluastre indicanti l’idrografia sulla carta dell’Europa in rovina, che il suo corpo ancora imitava.