Tra i partecipanti al Gruppo 63, Enrico Filippini (nella foto di gruppo, qui in evidenza, è il secondo a sinistra nella fila in basso accanto a Sanguineti) porta la sua esperienza di germanista e anche alcune indicazioni teoriche. Pochi i testi, anche per via di una congenita insoddisfazione. Una sua lettura risulta al convegno di Reggio Emilia e una parte di In negativo sta nell’antologia fondativa.
In negativo di Enrico Filippini
Nella narrativa sperimentale del Gruppo 63 si può identificare una linea cosiddetta “fenomenologica” che tende a rappresentare i fatti eliminando qualsiasi commento esterno e emotività interna, in modo da basarsi sul mero comportamento (con una sfumatura di vuoto esistenziale, naturalmente). Su queste coordinate possiamo leggere Germano Lombardi e, con le loro particolarità, i romanzi di Carla Vasio e Giulia Niccolai. Enrico Filippini potrebbe essere inserito in questo contesto, senonché il suo apporto risulta ancor più “tormentato”.
Prendiamo il racconto lungo In negativo, un suo testo cronologicamente coevo agli anni dei convegni della neoavanguardia (uscì su “Marcatré” nel 1964): indubbiamente il titolo suggerisce la presenza della “negazione” e ciò confermerebbe gli addebiti fatti all’avanguardia di essere soltanto e troppo “negativa”. Ma sarà opportuno andar oltre e interrogarsi su quale negazione si tratti.
Innanzitutto il racconto si fonda su una situazione: c’è un personaggio che narra seduto al bar (precisamente il Caffè Verbano), in un giorno di pioggia davanti a un lago, intento a scarabocchiare un tovagliolino e a rimuginare su un intenso rapporto amoroso, intenso ma assai problematico. Il testo, allora, entra in un labirinto affettivo-erotico che lo porterebbe verso un tentativo di scavo psicoanalitico: il tentativo di dire quello che non si può dire, di far affiorare l’inibito e il represso. Avrebbe allora qualche punto di contatto con l’onirismo del Capriccio italiano di Sanguineti. I punti di attenzione convergono verso le zone erogene: la vagina, con la sua “capigliatura”, e le natiche («Ovviamente erano due…», ecc.). Ma questi affondi – che chiamano in ballo, nella descrizione particolareggiata, tutta una tecnica di straniamento – non riescono a risolvere il problema del narrare. Perché comunque raccontare significa scadere nel linguaggio dell’inautentico e non a caso il racconto viene indicato da Filippini con il termine “impiastro”; il che può rimandare a due significati: il primo più probabile è quello di “seccatura”, ma c’è anche il secondo di “impacco” alleviante, proprio quella funzione di sublimazione del vissuto che l’autore respinge con forza, perché debole e non funzionante.
In negativo, quindi, non può che muoversi altalenando tra i dati pur allocati e le messe in mora relative, in una sostanziale instabilità del gioco dentro/fuori. In particolare, il testo oscilla tra la prima e la terza persona. Fin dall’inizio: «Perché primo: io: in un pomeriggio di pioggia: seduto al Caffè Verbano: intento a bere e a scarabocchiare…»; e al paragrafo successivo: «Quando lui avrebbe finito di decidere che era meglio abolire la faccenda della composizione…»; e poche righe sotto: «Per esempio: pensai: di fronte a certi fatti…»; e la pagina dopo, magistralmente: «Io: avrebbe potuto pensare: e così si sarebbe distinto da me…». Tra personaggio e narratore si stabilisce uno strano gioco (sono uno, sono due?), che in un paio di occasioni fa entrare – per sovraccarico di ironia – pure il nome dell’autore: prima in «un sogno in fondo al quale nell’albergo tenuto da un francese c’era una voce che gridava (per esempio): Mössiö Philippiní»; poi, in un episodio di forte crudeltà verso la partner, viene nominato come un amico da contattare per andare a letto con lei («“Si potrebbe telefonare al Filippini: così ti chiava lui: ammesso che ne ha voglia…»). Ma allora il personaggio non è l’alter ego!
Non c’è verso: l’istantaneità è impossibile da rendere («Non istantaneizzabile era l’istantaneità»). L’io stesso che racconta di sé non è più il medesimo che ha vissuto:
Ma: il recupero avrebbe comportato un distanziarsi dall’istantaneità: in certo modo un losco sdoppiamento: di lui: di quell’insieme di cose che era lui qualcosa sarebbe rimasto presente e attuale e intento a non ubriacarsi (per esempio) bensì a far riaffiorare dalla loro immersione quelle cose (che erano lui) che attuali e presenti non erano più: tutto: attraverso la zona morta di questa discrepanza: (…).
(Notare lo stile dei due punti; e in queste riflessioni si devia verso il metaromanzo).
Nemmeno la descrizione funziona perché, anzi, dicendo quello che c’è sottolinea implicitamente quello che manca e così «ogni elemento presentato lì e nella sua presenza registrato comportava fatalmente un senso di omissione» – vedi qui quanto dista dal Nouveau Roman. Un esperimento di linguaggio telegrafico, tutto in maiuscole, che sembra possedere l’immediatezza dell’automatismo, termina ben presto:
ORA BALENANTE COL SUO GIARDINETTO ROSA BRANDELLI LUMINOSI DENTRO ARIA IMMOBILE GRIGIA UCCELLI ASSENTI = DECISO PRECIPITARE GORGO NOSTRA VIOLENZA NOSTRA REALTÀ = DECISO UCCIDERE OGNI MOMENTO RICATTO INCOMBENZA STORIA PRO ESPLODENTE INCARNABILE ISTANTANEITÀ AL CULMINE ET MARGINE UNIVERSO ET ACCETTARE NECESSITÀ DIMENTICARE TUTTO: (…).
Parallela all’instabilità del soggetto c’è, a completare l’opera, l’instabilità del tempo verbale, tra il passato e il condizionale. Anche il personaggio femminile, quando gli viene concesso il punto di vista, è affetto da questa inguaribile duplicità, che non fa mai capire cosa si sia già svolto e cosa deve ancora svolgersi sotto il segno della possibilità:
Si sarebbe sentita nuda quando (…) di cui ricordava: adesso: soltanto una macchinetta che scattava e le restituiva otto monetine da dieci pfennig (…) e avendo freddo aveva rimenato dentro il vuoto (…) – sarebbe poi stato questo: insieme con le mestruazioni (…).
Il negativo entra anche nel contenuto del racconto quando il protagonista stampa su grandi fogli l’impronta del suo corpo, come una sorta di negativo, appunto, fotografico. Che sia questo – chiaramente approssimativo – l’unico modo di rappresentarsi?
Al racconto, tra l’altro, Filippino aggiunge sulla rivista un saggetto esplicativo intitolato Nella coartazione letteraria, dove il narrare è visto come una esigenza in qualche modo incombente alla quale si deve ubbidire un po’ come si aderisce a un “ricatto”, salvo poi reagire con una certa “ripugnanza” mettendo in atto forme di resistenza. Ancora più radicale nella negatività appare l’autore nell’intervento incluso negli atti del convegno sul Romanzo sperimentale;
il romanzo sperimentale è quella scrittura che si priva di tutti quei connotati che costituiscono un genere letterario perigliosamente nato dal crollo di una grande rettorica e di alcune altre cose e che lo rendono ormai parassitario, inutile, ripugnante e volgare oltre che costituzionalmente reazionario, come non può non sapere chiunque sia costretto ad occuparsene professionalmente.
Il condizionale conduce Filippini nei dintorni delle scritture ipotetiche (Manganelli o il Malerba di Salto mortale) e non a caso In negativo arriva a puntare sull’ “oppure” («oppure: oppure tutto il senso dell’azione stava nell’oppure»). E termina con la proposta di due finali in concorrenza: uno lieto, con un rapporto sessuale trionfalmente sincrono e felice, e uno tristo in cui la coppia resta irrigidita nel letto in preda a una «contiguità» priva di rapporto. Attenzione: perché dopo aver ipotizzato le gesta del «pene tutto bello tinto di viola» che «avrebbe imperversato», il testo dice: «Sarebbe stata questa una possibilità. L’altra fu che anche lui entrò nel letto: rispose alla domanda con un “mah!” e poi per lunghe ore della notte (…) rimasero sdraiati (…)» ecc. Notare che il condizionale riguarda il corno positivo, mentre il negativo si esprime con il passato! Eloquenza dei tempi verbali…
14/03/2023