Proseguo nelle analisi degli autori del Gruppo 63 e dintorni che finora mi erano sfuggiti. Questo mese tocca a Alice Ceresa, autrice svizzera nata a Basilea.
ALICE CERESA, LA FIGLIA PRODIGA
Nella narrativa sperimentale connessa al Gruppo 63 una via percorsa è stata quella di portare il narrativo verso l’argomentativo, o forse meglio il linguaggio creativo verso il metalinguaggio. Comunque: forzare il genere per spiazzare il lettore.
All’interno della forma trattato si colloca La figlia prodiga di Alice Ceresa, uscito nella collanina rossa della “Ricerca letteraria” Einaudi nel 1967. Su quella linea c’era già – all’interno della neoavanguardia – la Hilarotragoedia di Manganelli, il quale non a caso si espresse favorevolmente in sede recensiva. Ci sono però, con Manganelli, insieme alle analogie, delle precise differenze. In entrambi c’è una funzione di contrappeso alla narrativa, ma mentre nel Manga il trattato è il veicolo per un massiccio recupero del linguaggio desueto e per l’approdo in non-luoghi fantastici, in Alice Ceresa è la chiave per rendere il linguaggio riflessivo fino all’estremo per osservare il comportamento di un ipotetico personaggio. Invece del fantastico si affaccia qui un tema “represso”: la questione femminile.
Ne La figlia prodiga, dunque, il narrativo viene stretto dentro un processo discorsivo condotto da un soggetto plurale rivolto a un soggetto plurale, un “noi” che parla al “voi” di un uditorio, con cui si identifica: è, semmai, la “figlia prodiga” a essersi posta fuori da questa comunità consensuale, ed essere perciò trattata come oggetto del discorso e quindi come “personaggio” deviante artificialmente ricostruito. Personaggio di finzione? Certamente la consapevolezza di trovarsi in un luogo fatto di parole e quindi sostanzialmente non-reale è forte anche in Alice Ceresa e su questo si apre di continuo la scomposizione del personaggio e della persona: «Una figlia prodiga è senza dubbio una persona da una parte unica e dall’altra esemplare, a prescindere naturalmente dal fatto che essa sia il nostro personaggio, ovverosia la protagonista della nostra storia»; e ancora, più avanti, il testo nota «quanto vi sia di peculiare in questo atteggiamento di un personaggio che fin dall’inizio ha avuto bisogno di due piani su cui svilupparsi, quello reale e quello letterario». Che si possa trattare di autobiografia mascherata è ipotesi da mettere in conto, nel qual caso le prese di distanza dell’osservatorio “oggettivo” costituirebbero una sorta di ironia della scrittura; tuttavia il rimando alla vita vissuta non riesce mai a circostanziarsi – giustamente, dico io – nemmeno quando ne avrebbe il destro, come nelle parti in cui si parla dell’ontogenesi della bambina. E non a caso la psicoanalisi riceve un sostanziale accantonamento e addirittura un vero e proprio congedo («a questo punto è quindi necessario che prendiamo decisamente commiato dalla psicoanalisi perché risulta del tutto inadatta a seguire, evidentemente, il discorso di una storia che tende a procedere proprio oltre di essa»).
Al dunque, in questo testo la forma analitica presa nella sua acribica insistenza finisce per essere principalmente una modalità digressiva, cioè serve a gonfiare la storia (o presunta tale), ad aprire “vie traverse”, ad aggrovigliarsi e complicarsi vieppiù in una logica testarda che, se solleva contraddizioni, non è per accontentarsi di un brillante ossimoro, ma per guadagnare un altro capitolo di sfrenata capillotomia. Non a caso si parla di «ragionamenti fatti principalmente per perdere tempo»; e, invece di rassodarsi verso le conclusioni, si ammette che la storia «si va inevitabilmente sgretolando» e alla fine bisognerebbe «ricominciare questa storia da capo: il che e per chi l’ha scritta e per chi l’ha letta sarebbe certamente di troppo».
Di quello che definirei lo “stile puntiglioso” si potrebbero dare tantissimi esempi; eccone uno a caso:
Al punto in cui siamo, la figlia prodiga non è certamente più quella di prima, ma quella che è divenuta fin qui; quella di prima essendo quella di prima e quella di ora quella di ora, esattamente giunta a noi al punto attuale come noi veniamo da una cosa all’altra, da ieri a oggi, e quel che ci ha portati da ieri a oggi è ormai quello che siamo divenuti. Così divenuta, dal suo ieri al suo oggi, è la nostra figlia prodiga; con la sola differenza che quanto siamo divenuti noi sta racchiuso in noi stessi, mentre quel che è divenuta lei sta scritto nelle pagine intermedie, dato che suo destino è di star scritta nelle pagine e la sua vita è strettamente limitata ad esse, poiché in esse consiste. Più tempo e meno letteratura di così difficilmente potrebbero esistere; per cui è facile vedere che non tutto è vero quanto è stato detto finora; ma risulta tanto più evidente che meno è vero per noi, più sarà vero per lei, perché in altra funzione che nella sua questa storia certamente non può essere scritta. Sarebbe del resto addirittura impossibile che le storie dicano altro che se stesse; sarebbero altrimenti le uniche cose al mondo che siano una cosa essendone invece un’altra, il che non si può conciliare. Né si vede perché mai la storia della figlia prodiga dovrebbe essere una storia di altre cose, dato che nessuna cosa può essere altro che quel che strettamente è.
Di inciso in inciso, di obiezione in obiezione possono venir fuori anche periodi infiniti:
Fintanto che di una figlia prodiga, che sia pur anche effettivamente la figlia prodiga, definita e sostanzializzata da quanti si vogliano articoli definitivi che la precedano o la seguano, si parla e ci si ostina a parlare, non si farà mai altro, e noi non sfuggiremo, né si vedrebbe d’altronde perché dovremmo riuscire o sperare di riuscire in una impresa semplicemente impossibile, e così non si vede perché dovremmo anche solo tentare di farlo, alla ineluttabilità di una siffatta regola, che girare intorno alla sostanza della questione, soffermandoci sopra particolari di accessoria o comunque solo secondaria importanza, e non si dimentichi che cosa, numericamente e cronologicamente, la secondarietà significhi; analizzando sia pure con lodevoli sforzi e non del tutto trascurabili risultati ma pur sempre procedendo per una via, qual è l’analisi, del tutto contraria all’organica crescita delle cose, che incominciarono esattamente al polo opposto di quello sul quale l’analisi può esercitarsi e si svolgono, o si trovano, con la loro intiera, intatta sostanza senz’altro altrove; eludendo per forza di cose e modo di procedere la questione e facendo in altre parole un lodevole inutile superfluo e non solo secondario, sempre per analogia algebrica, ma addirittura marginale e contrario lavoro a quello che invece dovremmo, volendo giungere dove vogliamo giungere, fare.
Mentre in Manganelli l’ipertrofia deve mettere in mostra la vantata immoralità della “scrittura come menzogna”, Alice Ceresa, pur mantenendo anch’essa il sospetto sull’inganno letterario e additandolo nei vari risvolti metanarrativi, ad esempio dove parla di «artificiosa ricostruzione» (con un aggettivo che più manganelliano non si può), tuttavia si incentra manifestamente su una questione etico-culturale di fondo: la diversità e la questione femminile.
Intanto il titolo e l’argomento non sono che il rovescio di una nota parabola evangelica, solo spostata di genere. Senonché qui la “prodigalità” è qualcosa di più che lo sperpero del patrimonio ed è senza pentito ritorno all’ovile. La “prodigalità” al femminile si declina come ribellione. Con notevole anticipo – se si pensa che le punte radicali del movimento femminista sarebbero esplose una diecina d’anni dopo – La figlia prodiga arriva a cogliere il nocciolo del problema nella istituzione della famiglia, che così descrive con la distanza dello straniamento: «Una famiglia è un agglomerato di persone di cui le due prime provengono da agglomerati diversi, si uniscono per caso anche se non casualmente, e di cui le successive sono ad un tempo le determinate e í determinanti, se tuttavia sia permesso usare nei confronti della famiglia un siffatto blasfemo linguaggio».
L’incontro con la neoavanguardia, che pure non brilla su questo versante culturale, ha tuttavia un senso, e non solo per la penalizzazione del narrativo che si è indicata all’inizio, ma anche per varie modalità costruttive del personaggio principale: come la figlia prodiga viene differenziata in qualche modo da dentro la retorica pseudo-scientifica, la stessa cosa avviene nello sperimentalismo dei sessanteschi che si svolge dentro e contro il letterario. Dissimulazione e ambivalenza ne sono modi praticati. La domanda su come si fa a avvicinarsi a un personaggio che sfugge è la medesima domanda del lettore dell’avanguardia: e la risposta è che, la diversità ha qualcosa di importante da mostrare proprio a noi normali. Il fatto della l’“identificazione” sia problematica non deve portare alla rinuncia, poiché
quando noi proprio su questa possibile identificazione con noi stessi incontriamo un ostacolo, potrebbe anche sembrare automaticamente che debba venire a mancare l’unica e possibile condizione di una comunicazione; mentre d’altra parte è impossibile che ciò accada, perché qualsiasi comunicazione stabilita dall’esterno rimane possibile ove comunque quest’esterno esiste ed è avvicinabile, poche o molte siano le resistenze che a questo scopo si debbano vincere.
Anche l’avvertenza «che le attuali difficoltà di avvicinamento possano anche, magari, provenire da noi» potrebbe essere legittimamente attribuita, con qualche malizia, a coloro che, siccome la trovano difficile, rifiutano in toto la scrittura di avanguardia.
13/02/2023