Cos’è il grottesco

Come si sa, l’origine del termine “grottesco” non è strettamente letteraria. Nel Cinquecento le pitture della Domus aurea erano sepolte e si potevano ammirare facendosi calare dall’alto come in una grotta; di qui la denominazione di “grottesche” per indicare quelle decorazioni riempitive in cui vegetali, animali e esseri umani sono usati per ornamento. Questo significato originario sembrerebbe molto lontano dal nostro “grottesco” che indica una sottospecie del comico, una delle varie “fenomenologie” del riso, insieme a umorismo, ironia, sarcasmo, e così via. A guardar bene, però, il termine è più adoperato che ben definito. Mi proverò dunque a una delimitazione teorica e forse la distanza dall’origine risulterà minore di quanto non appaia a prima vista.

Le antiche pitture non hanno intenzione di far ridere, è vero, piuttosto in esse è lo stigma dell’esagerazione: una ressa figurale di ibridazioni e metamorfosi vegetali-animali, animali-umane, che lo scopo ornamentale consente di effettuare liberamente. Si veda, ad esempio questa creatura mostruosa con volto di vecchio, corpo di leone e ali di uccello.

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Il grottesco possiede, dunque, fin dalla sua nascita il carattere della doppiezza, contrario al canone classico dell’unità. Nelle teorizzazioni moderne tale aspetto viene enfatizzato e pour cause, poiché il gusto moderno favorisce il passaggio dei confini. Tuttavia, si tratta di capire bene come si configuri la doppiezza del grottesco.
Tra Otto e Novecento si possono distinguere due modi, entrambi semplificatori. Il primo è quello della mescolanza tra pianto e riso, ovvero tra serio e comico. È il modo con cui Victor Hugo, nel 1827, Prefazione a Cromwell, stabilisce il gioco dei contrasti per cui il grottesco risulta essere il contraltare, opposto ma necessario al sublime (c’è un’eco del sublime kantiano estremo che tocca, dall’altra parte, il mostruoso). Il grottesco romantico riceve allora un ruolo essenziale di completamento:

la musa moderna (…) sentirà che non tutto nella creazione è umanamente bello, che il brutto sussiste accanto al bello, il difforme vicino al grazioso, il grottesco sull’altra faccia del sublime, il male con il bene, l’ombra con la luce.

La vita rappresentata solo nel positivo sarebbe carente. Di questa funzione “riequilibratrice” dà conto anche Théophile Gautier con una raccolta di ritratti critici intitolata Les Grotesques (1827). Dopo aver rivendicato allo « spirito francese” una particolare predilezione per il grottesco («Nessun altro popolo sa cogliere così prontamente il lato ridicolo delle cose»), Gautier sottolinea la ricchezza della vita che deve essere rappresentata in tutti i suoi aspetti e quindi con il ricorso a generi misti:

La vita è multipla e molti elementi eterogenei entrano nella composizione dei fatti e degli avvenimenti. La scena più commovente ha un lato comico, e il riso sboccia spesso attraverso le lacrime. Un’arte che voglia essere vera deve ammettere l’una e l’altra faccia. La tragedia e la commedia sono troppo assolute nelle loro esclusioni.

Ma questa indicazione è generica; e lo rimane anche nei vari ritratti di Villon, Saint-Aman, Cyrano, Scarron e altri, accomunati da una vaga “modernità”.
Ancora a inizio Novecento, se ricorriamo a uno degli autori che verranno definiti “grotteschi”, il Luigi Chiarelli de La maschera e il volto (1917), non facciamo molti passi in avanti:

nella vita vicino ai grotteschi più buffi avvampano i drammi più spaventosi; nel ghigno delle maschere più oscene urlano talora le passioni più dolorose!… Ma noi non ne abbiamo colpa se la nostra allegrezza o il nostro dolore non bastano a colmare sia pure un attimo solo della nostra vita!…

È chiaro che la semplice mescolanza dei generi non è sufficiente a delimitare il grottesco perché la stessa cosa avviene nel tragicomico e pure in un certo umorismo (Lucini: «L’humorista […] ama la contradictio in terminis».  Lo stesso umorismo di Pirandello è duplice: avvertimento del contrario/sentimento del contrario (ma dell’umorismo parlerò in un prossimo articolo)..
Forse, più che il contrasto esterno del grottesco con qualcosa d’altro, bisognerebbe scavare sul contrasto interno al grottesco stesso. Per questo, conviene tornare un po’ indietro, al saggio di Baudelaire sull’Essenza del riso (1855). Qui Baudelaire cerca di attraversare il territorio del “riso” sottoponendolo ad alcune distinzioni radicali. Da una parte, sottolinea “l’espressione di un sentimento doppio, contraddittorio”; poi, procede a differenziare il comico ordinario, significativo, dal comico “assoluto” e fa coincidere quest’ultimo con il grottesco: «Chiamerò ormai il grottesco comico assoluto, come antitesi al comico ordinario, che chiamerò comico significativo». Al comico assoluto-grottesco il compito di rompere agli argini del senso comune e di partire per la tangente della “convulsione”, dell’estremismo “infernale”, folle e scatenante:

È facile indovinare che voglio parlare del riso provocato dal grottesco. Le creazioni fantastiche, gli esseri che non possono essere legittimati da una ragione tratta dal senso comune, suscitano talvolta in noi una ilarità folle, eccessiva, che si traduce in strappi e sconvolgimenti interminabili.

Siamo già nell’oltranza dell’avanguardia. Questi caratteri negativi e distruttivi non si conservano in quel maggior teorico novecentesco del grottesco che è Michail Bachtin. La doppiezza è intesa da Bachtin come ambivalenza:

Tutta l’essenza del grottesco sta essenzialmente nell’e­sprimere la contraddittorietà e la pienezza bifronte della vi­ta che ha in sé la negazione e la distruzione (morte di ciò che è vecchio) come momento indispensabile, inseparabile dalla affermazione, dalla nascita di qualcosa di nuovo e migliore. In questo caso lo stesso substrato materiale e corporeo del­l’immagine grottesca (cibo, vino, forza riproduttiva, orga­ni del corpo), rivelano un carattere profondamente positivo. Il principio materiale e corporeo trionfa, e, in conclusione, risulta sempre eccedente, un surplus. 

Il fatto è che il teorico russo si occupa principalmente di Rabelais (L’opera di Rabelais e la cultura popolare) per dimostrare l’assorbimento nel grottesco della logica carnevalesca, cioè del comico popolare che accoglie i contrari (alto e basso, anima e corpo, vita e morte) nella pienezza del riso. Per quanto anche Bachtin vi consideri la deformazione, l’eccedenza e il surplus, il riso moderno gli appare inevitabilmente smorzato, “astratto”, fuori dal contatto con la vita collettiva e la bassa cultura.
Bachtin coglie l’aspetto dell’esagerazione:

L’esagerazione, l’iperbolicità, la smisuratezza e la sovrabbondanza sono, a grandi linee, uno dei segni caratteristici dello stile grottesco.

ma non la porta alle estreme conseguenze, come aveva fatto Baudelaire ‒ tanto che poco dopo aggiunge: «L’esagerazione (iperbolizzazione) è in effetti uno dei segni più importanti del grottesco (…), ma non è comunque quello più importante». Mentre in Baudelaire non dimentichiamo che L’essenza del riso è principalmente riferita alla caricatura. Il riso grottesco figura allora come un’estensione letteraria della forzatura caricaturale. «Esagerando e spingendo all’estremo limite le conseguenze del comico significativo, si ottiene il comico feroce».
L’aumento di proporzioni che ci fa chiamare “grottesco” il mascherone di una fontana, raggiunge in queste pagine il massimo dell’esasperazione. A quel punto, il grottesco sembrerebbe equivalere all’estendersi al testo nel suo insieme della figura dell’iperbole (dice Baudelaire: «la vertigine dell’iperbole»). Al di là della contaminazione dei generi, che pure gli è propizia, il grottesco verrebbe allora a specificarsi come “contraddizione iperbolica”; e troverebbe il suo parente prossimo non tanto nel comico, quanto piuttosto nell’espressionismo.
Di questo taglio è l’immagine in evidenza, la processione di Goya, demenziale, antiestetica e lugubre.

 

2 pensieri riguardo “Cos’è il grottesco”

  1. L’articolo ha il merito, come al solito, della maggior chiarezza possibile, “disambiguando” ciò che finora era magari solo luogo comune.
    Dal mio soggiorno qui in Sicilia non posso fare a meno di pensare a Villa Palagonia, la cosiddetta “villa dei mostri”. Rimando alla lettura del “Viaggio in Italia” di Goethe con la descrizione degli ambienti interni. Interessante anche il lungo dibattito sul supposto disturbo di personalità del committente, il principe di Palagonia, in gran parte smentito dalle testimonianze.

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